Archivi del mese: agosto 2013

Blow Up n.184

Blow Up 184

È in edicola il numero 184 di “Blow Up”.  Il mio principale contributo è stato la curatela (con i preziosi apporti di Roberto Calabrò e Marco Sideri) della rubrica 20 Essentials dedicata al power pop. Ho inoltre firmato recensioni e/o segnalazioni degli ultimi album di Joseph Arthur, Ray Manzarek & Roy Rogers, Alela Diane e Booker T. Jones e di recenti ristampe di James Brown e Incredible String Band.

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Wizards Of Oz (1)

The Saints – I’m Stranded (lato A di un singolo, Fatal, 1976; poi inclusa in “I’m Stranded”, EMI, 1977)

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Fra Louis Armstrong e Miles Davis: Roy Eldridge, il rimosso

In luogo che a poltrire sotto un ombrellone o a sgambettare per sentieri di montagna – o a leggere, o a studiare – ho impiegato questo agosto a rimettere ordine nei miei dischi, compito erculeo ma non più rimandabile cui da troppo non mi dedicavo. Quasi finito ormai (no, gli ultimi sei-settecento arrivi naturalmente non contano) e per la prima volta da otto anni in qua posso ragionevolmente affermare di avere un’idea abbastanza precisa di cosa ho in casa. Quasi finito, giusto in tempo sfortunatamente per tornare a dedicarmi alla scrittura, ché già le prime scadenze incombono, ed è stato estenuante ma anche piuttosto divertente. Un piacere approfittarne per riscoprire album frequentati un’ultima volta lustri o addirittura decenni fa. Era per certo dacché ne scrissi su “Audio Review”, ad esempio, che non facevo fare un giro a “Rockin’ Chair”, del grande Roy Eldridge, lavoro che ho constatato essere di ancora ardua reperibilità e che nondimeno mi ostino a propagandare. Vale ogni euro, ogni centesimo che eventualmente ci spenderete. Si suggerisce un ascolto notturno. Il bicchiere di porto è facoltativo, ma fortemente consigliato.

Roy Eldridge - Rockin' Chair

Che Roy Eldridge sia un rimosso dalle storie del jazz non si può dire, giacché in ciascuna ha il suo bello spazio. Che continui tutto sommato a essere – anche dopo che nel 2002 John Chilton gli ha dedicato una voluminosa, puntigliosa e apprezzata biografia – un sottovalutato pare invece evidente. Questione di mancata sintonia e sincronia con i tempi. Cose che capitano se ti ritrovi ad anticipare una delle svolte musicali del Novecento per poi scoprirti scavalcato da quella stessa rivoluzione che sei stato decisivo nell’avviare. Non bastasse, raggiungi il top della tua arte nel preciso momento in cui quei tumultuosi sommovimenti ti hanno lasciato indietro. Stretto fra un Louis Armstrong – cui dicono che ti sia ispirato ma in verità altri sono stati i tuoi maestri – e un Dizzy Gillespie – che tu viceversa hai influenzato eccome – te ne ritrovi stritolato. Prende il centro della ribalta tal Miles Davis e ciao ciao. È tanto lo scoramento che per un po’ lasci il tuo paese e fortunatamente emigrando scopri la tua America altrove, in Francia, come tanti altri artisti afroamericani. Recuperi fiducia. Ritorni. Realizzi uno dei tuoi dischi più belli – incidentamente quello di cui la rubrica si occupa questo mese – e capisci che c’è ancora spazio per te, sebbene non più da protagonista. Per quasi trent’anni dopo le sedute di registrazione che diedero vita a “Rockin’ Chair” la tromba di Roy Eldridge ruggirà, blandirà, swingherà ancora. E quando nel 1980 un ictus sembrerà mettere fuori gioco il nostro eroe, prossimo alla settantina, sarà in realtà giusto uno spiacevole incidente di percorso. Posata la tromba recupererà il primo amore, la batteria. Si scoprirà pianista di vaglia. Canterà, gigione e sentimentale come non mai. La morte lo coglierà, il 26 febbraio 1989 a Valley Stream, New York, decisamente vivo.

Era nato a Pittsburgh, Pennsylvania, il 30 gennaio 1911. Precoce il suo ingresso nel mondo della musica, sì e no adolescente ed entrando da una porta di servizio molto usata all’epoca, quella delle bande carnascialesche, delle orchestrine al seguito di spettacoli circensi e di vaudeville. Percussioni e tuba, oltre alla tromba, i suoi strumenti. Curiosamente, a insegnargli i rudimenti dell’arnese che lo consegnerà agli annali del jazz era un sassofonista, il fratello maggiore Joe. Curiosamente, a procuragli il primo impiego era l’imitazione alla tromba di un celebre assolo di un altro sassofonista, il Coleman Hawkins di Stampede. Il primo trombettista a ispirarlo era Jabbo Smith, pur’egli un sottovalutato e di soli tre anni più anziano. Satchmo lo scoprirà davvero (nel senso che si metterà a studiarlo) più avanti, nel 1932 a New York, dove viveva da un paio di anni, suonando prevalentemente nel circuito dei locali da ballo di Harlem, in vari complessi fra cui già quello di Teddy Hill. Nel 1933 è di nuovo a Pittsburgh. Nel ’34 a Baltimora. Nel ’35 si riaccomoda all’ombra della Big Apple ed è a questo punto che la sua carriera decolla, braccio destro di Hill, nel giro di Billie Holiday e con Lady Day inciderà fior di classici, con Fletcher Henderson e Christopher Columbus è uno dei successi del 1936. Anno cruciale e magnifico. Roy va a Chicago ed è nella Windy City che dà vita al suo primo gruppo da leader, un ottetto con dentro Joe in qualità di sassofonista e arrangiatore. Nel 1937 Heckler’s Hop, After You’ve Gone e Wabash Stomp lo lanciano in orbita. Mentre gli anni ’30 sfumano nei ’40 e il mondo precipita – gli Stati Uniti però ancora fuori – nell’orrore del secondo conflitto mondiale – Roy Eldridge se non proprio il trombettista jazz per antonomasia è uno degli indiscutibili fari nell’ambito, nel mentre Armstrong sta declinando, sebbene con classe intatta, nello stereotipo. È l’era delle grandi orchestre. Una delle più importanti è quella di Gene Krupa e a sancire la rilevanza di Eldridge è anche l’invito a unirsi ad essa. Più avanti raggiungerà Artie Shaw. Triste e vergognoso che la decisione del nostro uomo di dare vita nel 1944 a una formazione sua sia influenzata non tanto dalla voglia di essere mattatore assoluto quanto dagli innumerevoli, spesso grotteschi episodi di discriminazione subiti al seguito di compagnie di musicisti per il resto tutti bianchi. La guerra finisce, le orchestre vanno in crisi, soprattutto va in crisi l’idea di jazz come è stato inteso fino ad allora. Esplode il bebop e il trombettista, che con il suo stile ritmato, nervoso e guizzante lo ha indubbiamente anticipato, si scopre a disagio e in conflitto con la nuova scena. Dubbioso del suo stesso valore e non ne placa le ansie l’invito di Norman Granz a partecipare al progetto di Jazz At The Philharmonic. In tour in Francia nel 1950 con Benny Goodman, decide di fermarsi lì. Il soggiorno durerà circa un anno e l’affetto degli appassionati locali lo rinfrancherà a sufficienza da farlo tornare a casa deciso a dar battaglia. “Rockin’ Chair” frutto sugoso e glorioso della mossa.

Colpo di scena! Fuori catalogo in CD, il disco è reperibile attualmente soltanto nella splendida – “A panoramic true hi-fi recording” – quanto costosa stampa della Speakers Corner. Investimento che vale ognimmodo fino all’ultimo sudato centesimo, giacché non solo è un LP di grande bellezza ma riassume esemplarmente molto di quello che era stato Roy Eldridge fino a quel momento e molto di quello che sarà (come minimo dovreste procurarvi “Dale’s Wail”, un Verve del ’53). Agli opposti di un ampio spettro si collocano i quattro brani incisi con gli archi e gli arrangiamenti di George Williams (l’apice una struggente e dolcissima I Remember Harlem) e gli altrettanti, in stile rhythm’n’blues, in cui pompa il sax tenore di Buddy Tate. Al piano ma più che altro all’organo, Oscar Peterson è sanguigno come di rado potete averlo ascoltato. Fatevi un regalo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.282, settembre 2007.

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Wizards Of Oz (2)

The Moffs – Another Day In The Sun (lato A di un singolo, Citadel, 1985)

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Wizards Of Oz (3)

The Triffids – My Baby Thinks She’s A Train (da “Treeless Plain”, Hot, 1983)

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Wizards Of Oz (4)

The Church – The Unguarded Moment (lato A di un singolo, Parlophone, 1981; poi inclusa in “Of Skins And Heart”)

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Quando Bruce cominciò a diventare Broooooce! Born To Run

Dopo una gestazione durata ben più dei canonici nove mesi, il 25 agosto di trentotto anni fa vedeva infine la luce il “difficile terzo album” di Bruce Springsteen. Nulla dopo sarebbe più stato lo stesso, per l’artefice e per il rock americano tutto.

Bruce Springsteen - Born To Run

Certi dischi sono epocali, per l’attesa che creano intorno a sé e naturalmente per il loro poi non deluderla rilanciando anzi, persino prima dell’uscita. Certi dischi sono dei sempreverdi prima ancora di ascoltarli, in forza di quanto è iconica la loro copertina e cento esempi si potrebbero fare, dai Beatles ai Rolling Stones, dai Doors ai Clash, a Bob Dylan e Bob Marley. A “Born To Run”, l’album che rese Bruce Springsteen… be’… Bruce Springsteen, e che con la potenza di uno scatto da qualche parte fra Robert Mapplethorpe e un fotogramma rubato a Scorsese cattura l’attenzione e il cuore prima ancora di quel soffio di armonica, di quella semplice frase di piano, di quelle quattro parole – “the screen door slams” – che fanno entrare in Thunder Road come fosse un film. La vita di un sacco di gente non è più stata la stessa dopo e mi ci metto anch’io.

Mi rigiro incantato fra le mani un esemplare fresco di pressa in Quiex Super Vinyl Profile da duecento grammi della Classic Records e mi viene in mente che la prima copia entratami in casa del primo capolavoro dell’uomo del New Jersey fu direttamente una stampa per audiofili comprata in una svendita – costava addirittura meno della regolare stampa americana che si trovava qualche scaffale più in là – da Ricordi. Faceva parte di quella collana di “Half Speed Mastered” della CBS che per molti ragazzi fu la prima introduzione alla magia della riproduzione sonora come ha da essere e nondimeno va detto che, in quella serie, era uno dei titoli che sotto il profilo squisitamente tecnico brillavano di meno. È che prima Mike Appel e poi Jon Landau oltre che il Boss passarono così tanto tempo, centinaia e centinaia di ore, in studio di registrazione a rifinire quelle canzoni che inevitabilmente, per i limiti della tecnologia del tempo, qualcosa si perse in limpidezza e più che mai ciò si è sempre notato nella sinfonia di Fender di Born To Run la canzone, in cui tutto sembra un po’ sfocato e una dinamica che avrebbe voluto e dovuto essere esplosiva risulta tarpata. Se è di suoni e basta che si discetta, quel “Born To Run” edizione “Half Speed Mastered” deludeva, nel senso che non suonava in realtà meglio della media degli LP “normali” e insomma anche dopo averlo mandato a memoria non te lo saresti mai portato dietro per provare a confronto delle casse. A un certo punto ebbi l’occasione di comprare a buon prezzo un originale “made in USA” e, non notando soverchie differenze fra le due edizioni, cambiai la copia. E ora sono qui a interrogarmi: saprà stupirmi, impresa già riuscita molte volte alla label californiana, Classic Records facendomi scoprire dettagli inediti in un disco conosciuto fin nei minimi risvolti?

Quaranta minuti più tardi posso serenamente affermare che sì, c’è riuscita ancora. Che finalmente la traccia omonima suona come nelle intenzioni, un Phil Spector prestato al rock’n’roll più stentoreo e sfrontatamente romantico; che mai il sax di Clarence Clemons era schizzato così felice e furente dai solchi conclusivi di Thunder Road, né gli ottoni di Tenth Avenue Freeze Out erano parsi tanto sferzanti e pieni e così la ritmica di She’s The One. Per la cristallina rarefazione della trama è poi un’autentica meraviglia Meeting Across The River, crepuscolare e un po’ waitsiana della prim’ora e invero magica quando si leva verso il cielo la tromba di Randy Brecker. È un brano unico e pochissimo considerato nel canone springsteeniano e sarà per quel suo essere atipico che gli ho sempre voluto particolarmente bene? Come a Death Is A Star (anch’essa waitsiana, guarda un po’) che – credeteci o meno – è la mia canzone preferita del mio gruppo preferito di tutti i tempi, i Clash.

A questo punto dovrei forse, nello spazio che mi resta, inquadrare per sommi capi nella storia del rock e nella personale vicenda artistica dell’autore quello che è insieme un album di rock classico e un classico della musica rock. Un LP che è un prodigio di sintesi: Spector e Dylan, Roy Orbison e i Creedence, Lennon e Townshend, il rock’n’roll degli anni ’50 e il soul e il rhythm’n’blues dei ’60 e suggestioni latine e jazz, tutti assieme, in un fluire emozionante di rimandi che non si finisce mai di scoprire. Dovrei forse, ma mi parebbe francamente pletorico con tutto il gran parlare che se n’è fatto negli ultimi mesi, come non fossero bastati i fiumi di inchiosto scorsi per tre tondi decenni. E già: perché “Born To Run” ha da poco compiuto trent’anni e questa lussuosa versione in sacro vinile è arrivata seconda nelle emissioni celebrative della ricorrenza, a qualche settimana da un triplo cofanetto Columbia, un CD (senza brani aggiunti) più un DVD dedicato al “making of” e un altro con sopra un leggendario concerto al londinese Hammersmith Odeon di un mese successivo alla pubblicazione dell’album. Si dà ora il caso che il box Columbia costi qualche euro in meno del solo 33 giri Classic Records e, tenuto conto che il CD è più che OK (mica quella schifezza ignobile della prima stampa digitale…), una domanda sorge spontanea: perché mai si dovrebbe spendere di più per avere di meno? Io dico che bisognerebbe, potendo, regalarsi la follia di comprare entrambi. Il cofanetto per i due DVD, il vinile perché quello e soltanto quello fa suonare “Born To Run” esattamente come l’artefice voleva che suonasse. E poi volete mettere il fascino della confezione? Quella copertina che si apre e, a contornare un Bruce sorridente, quei testi da memorizzare nel mentre se ne fa esegesi? Non a caso copertine iconiche, da quando c’è il CD, non se ne ricorda più una.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.265, febbraio 2006.

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Wizards Of Oz (5)

The Go-Betweens – Bachelor Kisses (lato A di un singolo, Sire, 1984; poi inclusa in “Spring Hill Fair”)

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Wizards Of Oz (6)

Died Pretty – Out Of The Unknown (lato A di un singolo, Citadel, 1984)

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Un ricordo di Bobby “Blue” Bland (1930-2013)

Sarà che i suoi glory days erano da lungi trascorsi, sarà che quando te ne vai a un’età discretamente veneranda il cordoglio è giocoforza minore: fatto è che in pochissimi hanno dedicato qualche riga, due mesi fa a oggi, alla scomparsa di una delle più grandi voci della storia del soul. Ne spendo qualcuna io adesso, recuperando un articolo che scrissi non più tardi di un paio di anni fa. Una delle tante occasioni in cui mi sono ritrovato a tessere le lodi di un artista immenso.

Bobby Bland

Lo scorso 27 gennaio Robert Calvin Bland ha festeggiato gli ottantun’anni e chissà se li ha celebrati in grande stile, come fece per gli ottanta, fieramente esibiti in pubblico con un concerto al Sam’s Town Casino and Hotel di Tunica, a trenta minuti di auto dalla “sua” Memphis. Probabile che in quell’occasione la percentuale di spettatrici in platea fosse ancora maggioritaria, meno – visto che pure loro mediamente avranno una certa età – che sul palco siano volati fiori e mutandine come era usuale nell’era più ruggente del nostro ancora non spellacchiato leone. Comunque non è da escludere che sotto il palcoscenico si accalcassero anche persone assai più giovani, visto che Bobby Bland ultimamente ha beneficiato di un certo revival: era del 2008 un devoto tributo da parte di Mick Hucknall, del 2010 una bella lettura di No Easy Way To Say Goodbye di Queen Emily ed è di questi mesi l’inclusione di Ain’t No Love In The Heart Of The City nella colonna sonora di The Lincoln Lawyer. Fra l’altro non è la prima volta che questa canzone (un notevole successo per gli Whitesnake nel ’78) contribuisce a garantirgli una serena vecchiaia, essendo stata un Top 10 R&B nel 1974 e avendola (più che campionata) coverizzata nel 2001 Jay-Z. Sia come sia… un secondo importante anniversario si approssima, giacché questo 29 di giugno saranno sei decenni che il Nostro è nello showbiz. Ci entrava, come ama ricordare, trionfando in una competizione amatoriale al Palace Theatre. Di Memphis, certo.

Dice bene Peter Shapiro nella sua ottima Rough Guide al soul su CD: è Ray Charles in genere a prendersi il merito, ma se c’è un album che segna la transizione definitiva dal rhythm’n’blues al soul è “Two Steps From The Blues” di Bobby Bland, che usciva su Duke nel 1961 e in parte raccoglieva materiali che già avevano fatto furore nelle radio e nelle classifiche nere nel lustro precedente. Come I Don’t Want No Woman, come Little Boy Blue, come I’m Not Ashamed, come Lead Me On. Soprattutto, come I’ll Take Care Of You, numero due nella graduatoria R&B nel 1959, e dal canto suo il 33 giri genererà due ulteriori hit con I Pity The Fool e Don’t Cry No More. Nonostante la natura semiantologica, comune del resto alla quasi totalità degli LP del tempo, il disco ha l’organicità dell’album come in seguito lo si intenderà e una mirabile articolazione d’assieme, con colpi di ammiccante genio nella trilogia “delle lacrime” Cry, Cry, Cry/I’m Not Ashamed/Don’t Cry No More e un fluido, continuo transitare dal blues al soul via gospel e ritorno, magari attraverso lande pop cui l’idioma ispanico non è estraneo. Insomma un capolavoro da avere assolutamente e pazienza se parte della scaletta si sovrappone alla superlativa e più corposa raccolta “The Voice”, un Ace del 1991 tuttora disponibile e da cui l’appassionato di black non può prescindere. D’altro canto era un artista trentunenne, più che navigato e affiancato da un’efficientissima squadra (allenatore l’arrangiatore Joe Scott), che lo siglava, un inizio di carriera perso nel mito di quei Beale Streeters che con lui allineavano B.B. King, Junior Parker, Johnny Ace e Rosco Gordon (scusate se è poco) e con  produzioni sponsorizzate da Chess, Modern e Sun prima di un domiciliarsi alla Duke che si protrarrà per quasi due decenni. Nel corso dei ’50 Bland aveva delineato gradualmente uno stile che nel blues iniettava dosi via via più robuste di gospel (ove trend prevalente ha sempre voluto che dalla musica sacra si passasse a quella secolare). Inizialmente piena, grassa persino, la voce acquisiva sfumature raffinate, suggestive, sensuali. Carica di emozione che si scioglie in fraseggi dalle influenze quantomai eterogenee (lo shouter Roy Brown così come il crooner Perry Como) che gli tatuavano su pelle e anima quel soprannome: “Blue”.

Erano gli anni ’60, magistralmente esposti nella succitata “The Voice”, l’Età dell’Oro del nostro uomo, che però contrariamente ad altri giganti del soul che da lui impararono più che qualcosa (Otis Redding, Wilson Pickett, Joe Tex) non riesciva a fare sua la platea bianca. L’acrimoniosa separazione nel 1968 da quel Joe Scott che era il suo Nelson Riddle e quattro anni dopo il divorzio pure dalla Duke parranno un’indicazione di un declino inevitabile. Alla lunga lo sarà, però solo dopo un fantastico colpo d’ala chiamato “His California Album”. Datato 1973 e griffato ABC, funky nel basso, affilato nelle chitarre, sciropposo il giusto negli archi, è il terzo titolo di questo interprete straordinario da mettersi in casa. Ma fossi in voi non mi fermerei (non vi fermerete) e ne punterei un quarto. Fresca di pubblicazione per Hoodoo Records  e forte del bel libretto e degli ottimi suoni che rappresentano lo standard della casa, la compilazione “Little Boy Blue” completa il lavoro iniziato da “The Voice” andando a coprire quegli anni ’50 formativi per il cantante del Tennessee ma già formidabili. Lo certificano gemme sfavillanti come una I Don’t Believe che di rado B.B. King ha fatto meglio e una Farther Up The Road che vale il Muddy Waters al top, un’esplosiva Loan A Helping Hand e una malinconica e dolcissima Last Night, una Stormy Monday minore intitolata I Lost Sight On The World e una ballabilissima Woke Up Screaming. Oltre naturalmente all’immortale traccia omonima, serenatona pop oltre che blues.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.683, giugno 2011.

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