The Genius Of Ray Charles

Ray Charles

Ray Charles ha solo venticinque anni, ma già il suo nome viene accostato, e con ottime ragioni, a quelli di alcuni dei più favoleggiati cantanti blues del passato. Chiunque lo abbia osservato all’opera, chiunque sia stato testimone dell’entusiasmo delle migliaia di spettatori che si radunano per ogni suo concerto (e della delusione degli almeno altrettanti che ogni sera vengono rimandati a casa perché non c’è più posto), sa che non è un’esagerazione affermare che è ormai divenuto una figura di proporzioni leggendarie”: scriveva così Guy Remark nelle note di copertina del primo 33 giri di The Genius e non c’è per una volta bisogno di fare la tara all’ovvia funzione/finzione pubblicitaria delle suddette, dacché l’unica cosa su cui barava era l’età dell’artista incensato. La bella ristampa masterizzata in mio possesso di “Hallelujah I Love Her So!” è datata 1962 ma è un errore. Usciva in realtà (le discografie concordano al riguardo) nel 1957 e basta scorrerne la scaletta per averne conferma, visto che contiene tutti i grandi successi del biennio precedente, da I’ve Got A Woman alla title-track passando per A Fool For You e Drown In My Own Tears, spingendosi à rebours fino al 1953 di Mess Around (contrariamente a come si usava all’epoca, non un riempitivo; dirlo imperdibile è poco). Dati biografici alla mano, Ray Charles Robinson di anni ne aveva allora ventisette. Non cambia la sostanza: già aveva fatto, cantato, composto abbastanza da guadagnarsi un posto importante nella storia della musica nera o per meglio dire della musica popolare del XX secolo tout court. Alcuni dei suoi momenti più memorabili ancora nel futuro. Il primo arresto per droga, un incidente che avrebbe scandalizzato l’America bianca e benpensante confermandola nella sua idea che alla fine della fiera un negro è sempre un negro, pure, sebbene non di molto. Una faccenda del ’58, l’anno del trionfo al “Newport Jazz Festival” e di un ottimo album, “Soul Brothers”, in coppia con il vibrafonista Milt Jackson. Un altro LP, “The Genius After Hours”, si sarebbe incaricato nel 1961 di ribadire  che il nostro uomo avrebbe potuto benissimo intraprendere, volendo, una carriera di jazzista e sarebbe stato anche in quell’ambito ai vertici come nel soul, nel pop e – ebbene sì – nel country. Il primo arresto…  avrete dunque inteso che altri ce ne saranno. Fino al 1964 e a una condanna a cinque anni con la condizionale che risulterà monito ascoltato a non rovinarsi irrimediabilmente la vita. Se ne tirerà fuori, grande prova di forza nei confronti di un destino – lo si può dire parlando di uno cui è stato regalato un sì smisurato talento? eccome – cinico e baro.

Ridurre il blues a espressione in musica del malessere esistenziale indotto nell’Afroamericano dalle eredità materiali e spirituali della schiavitù significa cogliere soltanto una parte della sua essenza, dimenticando che ha sempre saputo altresì farsi portato di una gioia di vivere ribalda, dell’irrefrenabile tendenza al braggadocio che alligna nel ghetto ma per certo già abitava i campi di cotone, di una sensualità che non ha pari. Ecco: nelle canzoni di Ray Charles il blues è soprattutto la seconda che ho detto. Ma: nella sua vita, fino al raggiungimento del successo e oltre, ci furono tante di quelle tragedie da dare profondità e sfumature inedite alla frase “I’ve got the blues”. Più che a fargli reggere i ritmi folli di anni senza un attimo di pausa, sempre sotto le luci della ribalta, c’è da supporre che i narcotici servirono a medicare – superficialmente, va da sé, mentre sotto covava la cancrena – le ferite inflitte dai dardi di una sorte oltraggiosa.

Cosa può capire un bambino della morte, come può venire a patti con l’irreparabilità di un evento di cui anche da adulti si stenta a darsi una ragione? 1934, Greenville, Florida, quartiere di Jellyroll, il più squallido della città, dormitoio per famiglie nere che vivono in una povertà abietta e non è situazione che possa favorire il rispetto dei dettati anche più elementari della morale. Ray Charles Robinson ha quattro anni e chiama “mamma” Mary Jane e “papà” Bailey. Lui è davvero suo padre, lei si presta invece a un amorevole inganno, essendo la madre biologica Aretha Williams, una ragazza a malapena adolescente che la coppia aveva adottato per sottrarla all’orfanotrofio e insomma è proprio vero che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Tutto questo il piccolo ancora non lo sa. Un giorno, mentre stanno giocando, quello che per lui è il fratello minore, George, cade in acqua e Ray non ha forza abbastanza per tirarlo fuori. Annega sotto occhi che da lì a un anno cominceranno a non vederci più tanto bene. Pochi mesi e sarà il buio: come non collegare le due disgrazie? A sette anni viene mandato a una scuola per non vedenti a St. Augustine e ne uscirà quindicenne ed eccelso pianista (imparerà poi a suonare la chitarra e diversi strumenti a fiato). Aretha, cagionevole di salute sin dalla nascita del bimbo, muore in quello stesso 1945 e Mary Jane non le sopravviverà che otto anni. Il figlio-figliastro riceverà la notizia della sua scomparsa nel maggio ’53, in uno studio newyorkese, e non fermerà la seduta, anzi. Pochi minuti dopo la fatidica telefonata inciderà una delle sue interpretazioni più classiche, It Should’ve Been Me, caracollante, beffardo blues che potete gustare quasi in apertura (lo precede il già citato Mess Around, spumeggiante errebì con fiati petulanti e piano a palla) di “The Definitive Ray Charles”, poderosa antologia Rhino doppia di un due anni fa che è la migliore introduzione disponibile e forse possibile all’opera del Genio. Nessuno potrebbe intuire che chi sta cantando ha appena saputo che sua madre se n’è andata. Cinismo? Stoicismo? O animo avvolto nella bambagia di stupefacenti misericordiosi. Ho corso.

Il quindicenne che esce dall’istituto per ciechi non intende farsi limitare dalla sua menomazione. Anziché rientrare in un’ora quieto alveo familiare e fare l’artigiano, sceglie di vivere per conto suo, suonando per club, in particolare a Jacksonville, nei quali nemmeno avrebbe l’età per entrare legalmente. Lo favoriscono, oltre alla bravura, un eclettismo che lo porta a misurarsi con la medesima disinvoltura con blues e jazz e persino con il country’n’western, stile di cui si è innamorato ascoltando alla radio il Grand Ole Opry. Tant’è che il primo complesso professionista con cui si esibisce, i Florida Playboys, è bianco e dedito all’hillbilly. A diciott’anni traversa per intero gli Stati Uniti e in diagonale (non gli sarebbe stato possibile mettere più chilometri fra la vecchia casa e la nuova che oltrepassandone i confini) e si stabilisce a Seattle. È li che forma il primo gruppo di cui è leader, il McSon Trio. È lì che conosce un altro enfant prodige, Quincy Jones. È lì che rimedia il primo contratto discografico. Radunate su un paio di doppi CD (un Ebony chiamato “Birth Of A Legend: 1949-1952”, un Tomato battezzato altrettanto banalmente “The Early Years”), le registrazioni di quegli anni di apprendistato testimoniano tuttavia di uno stile in divenire incerto e ancora troppo legato al morbido pianismo dei modelli Nat King Cole e Charles Brown. Nel 1949 si accorcia il nome per evitare problemi di omonimia con il pugile Ray “Sugar” Robinson. Nel 1950 va in tour con Lowell Fulson, uno dei pionieri della chitarra elettrica e degli inventori del blues moderno, e accompagna anche T-Bone Walker e Joe Turner. L’anno-chiave, in prospettiva, è però il ’52: la Atlantic rileva il contratto con la Swing Time. Il boss Ahmet Ertegun è persuaso che quel giovanotto solare e smargiasso abbia un futuro e seguita a coccolarselo anche dopo il fallimento del primo singolo, Roll With Me Baby/The Midnight Hour. Offre come lato A del secondo un brano di sua composizione, Mess Around, che il protetto griffa con una intro degna di Duke Ellington e le cose prendono a muoversi. Con calma. Passano difatti due anni prima che I’ve Got A Woman faccia il botto. Dopo, per tre lustri pieni Ray Charles sarà semplicemente inarrestabile, lunga mano della legge a parte. Uno di quei rari artisti che è impossibile sopravvalutare: ammesso che sia possibile ricondurre la nascita del soul a una singola persona, quella persona è lui. Il primo a fare un tutt’uno di blues e gospel, mischiando diavolo e acqua santa (esempi supremi Hallelujah I Love Her So e I Believe To My Soul), il primo a infiltrare influenze caraibiche nel suono di New Orleans (This Girl Of Mine), il primo a buttare dentro il rhythm’n’blues un piano rock’n’roll piuttosto che boogie (What’d I Say, che però è pure un omaggio a Louis Jordan, se non addirittura a Cab Calloway). E poi il migliore di sempre (Sam Cooke solo contendente all’altezza) in materia di ballate confidenziali e non a caso Frank Sinatra si professerà un ammiratore. Già avevo detto: squisito jazzista.

Per taluni l’unico Ray Charles da considerare è quello del primo periodo trascorso alla Atlantic, che lascerà a sorpresa nel 1959 (non meno a sorpresa ci tornerà nel ’77), giusto nel momento in cui avrebbe potuto chiedere di tutto e di più e ottenerlo, visto che ne era il campione di vendite. Ma non voleva farsi rinchiudere nel ghetto della musica nera e per violarne i confini preferì un’etichetta generalista quale la ABC. I puristi non glielo hanno mai perdonato. Ma come! Il re del soul che andava in cima alle classifiche con album chiamati “Modern Sounds In Country & Western Music” (due volumi, 1962 e 1963), “Country & Western Meets Rhythm & Blues” (1965), “Love Country Style” (1970)… Ottusi come la loro controparte nashvilliana che ha impiegato due decenni ad accettare obtorto collo l’amore di Ray Charles per il verbo dei cowboy e la sua eccellenza nell’interpretarlo. Non di soli country e pop vivono ad ogni buon conto gli anni ’60 del Nostro, siccome smentendo di brutto i puristi di cui sopra (ai quali comunque va concesso che il Ray Charles in assoluto più grande è quello dei ’50: rivoluzionari, come vergini, si può essere del resto una volta sola), li dissemina di alcune delle sue performance più memorabili, dalla travolgente (e quintessenza di errebì) Hit The Road Jack al bluesaccio straordinariamente sfacciato (tenendo conto che era fresco di condanna per detenzione di sostanze) Let’s Go Get Stoned, alle favolose letture delle beatlesiane Yesterday ed Eleanor Rigby (più psichedelica dell’originale), a quella Rainy Night In Georgia singolarmente responsabile di avere inventato tutto il Tom Waits fino a “Swordfishtrombones”. Poco, quasi nulla di così memorabile negli ultimi tre decenni però, ma è una questione di ispirazione non più viva, mica di concessioni a uno showbiz che non si è stancato di adorarlo. Imminenti i settantatré anni, The Genius è una Leggenda vivente ma poco praticante e sarà meglio non dispiacersene. Sarà meglio ricordarlo per il tanto che ci ha regalato e per cui fama e ricchezza sono stati compensi insignificanti. Sarà meglio ricordarlo nei panni del venditore di strumenti musicali in Blues Brothers. Come dicono gli Americani? Bigger than life.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.61, giugno 2003.

1 Commento

Archiviato in archivi

Una risposta a “The Genius Of Ray Charles

  1. Gian Luigi Bona

    L’autore che più amo in assoluto è lo zio Ray

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.