Con un piccolo aiuto da Woodstock: la fulminea ascesa e la rovinosa caduta di Joe Cocker

Alla tre giorni diventati quattro di “pace, amore e musica” di Woodstock – 15, 16, 17 e 18 agosto 1969 – alcuni arrivavano cardinali, o a malapena prelati, e se ne andavano papi. Era il caso soprattutto di Joe Cocker, un semisconosciuto sino all’inizio del suo set, il primo del terzo giorno di festival. Una star quando lasciava il palco mentre il cielo prendeva a rovesciare acqua a catinelle sulla folla oceanica, provocando un’interruzione di oltre tre ore in un programma che andrà così a sforare, clamorosamente, nella mattina successiva.

Joe Cocker

Ignoro se qualcuno – immagino di sì, siccome nel settore i matti abbondano – si sia mai preso la briga di realizzare un catalogo con ambizioni di completezza delle cover dei Beatles. Né è mai uscito, e nemmeno uscirà giacché si tratterebbe di mettere d’accordo troppe etichette e nessuno potrà farcela mai, un bel box che raccolga la crema di codeste: potrebbe essere un quintuplo, un decuplo persino, e istantaneamente diventerebbe il più venduto cofanetto di tutti i tempi. Oziosa fantasia. Il massimo cui si possa aspirare sono raccolte a tema – i Fab Four girati jazz, country, soul – e di quelle difatti ce ne sono un tot. E nondimeno la premiata ditta Lennon/McCartney (ma quanto è stato ripreso, con i suoi pochi classici, il buon Harrison!) rimane, se non intoccabile, inavvicinabile. In questo senso: che neppure le letture più peculiari – e mi vengono in mente per fare due esempi antipodici la And I Love Her di Ester Phillips e la Ticket To Ride degli Hüsker Dü – sono riuscite a fare dimenticare per un millisecondo gli originali. Tutte, tranne una.

C’è una singola canzone dei Beatles di cui esiste un’interpretazione che sorpassa quella degli artefici. C’è una singola canzone dei Beatles di cui esiste un’interpretazione che gareggia in fama, forse superandola, con quella primigenia. Ci sarete già arrivati: With A Little Help From My Friends secondo Joe Cocker. Nella versione che andò al numero uno nella classifica britannica dei 45 giri nel 1968, diversi mesi prima di venire inclusa, dandogli anche il titolo, nel debutto a 33 giri del nostro uomo. Oppure in quella che, qualche mese dopo ancora, segnò uno degli apici della tre giorni di “pace, amore e musica” di Woodstock. Volendo proprio scegliere, da qualche tempo c’è un’ulteriore alternativa, visto che, contrariamente alla prima e storica stampa, la recente “Deluxe Edition” del monumentale live “Mad Dogs & Englishmen” la include ed è forse la resa più bella, più carica, in ogni caso la più espansa con i suoi quasi nove minuti. Per qualunque lettura optiate, la sua trasformazione in spiritual nerissimo da parte di colui che, per un fugace istante, più che il migliore soulman bianco in circolazione fu il migliore soulman e basta non manca mai di lasciare a bocca aperta e toccare nel profondo. Noblesse oblige: se ne resero ben conto gli stessi Beatles, che difatti sporsero pubblicamente al signor John Robert Cocker – da Sheffield, 20 maggio 1944 – i loro più sentiti complimenti. Partita da un vertice assoluto, la carriera di Cocker non poteva, dopo essere miracolosamente rimasta in piano fino al tour che fruttò il doppio dal vivo di cui sopra, che prendere la china discendente e sarà un rotolare a valle rovinoso, con la saltuaria risalita artistica (bello “Sheffield Steel”, dell’82) o commerciale (nell’86, con un’altra cover surclassante l’originale, You Can Leave Your Hat On di Randy Newman). Caduta drammatica e farsesca insieme, con gli stravizi alcolici che spesso hanno ridotto a un gracchiare da corvo una voce che era stata di seta e acciaio, strumento di inenarrabili elasticità e possenza, e l’imbarazzante effetto collaterale di un epigono che ha trasformato il modello in grottesco stereotipo. Quanti soldi ha tirato su il Fornaciarino scimmiottando il vecchio Joe…

C’erano evidentemente i quattro di Liverpool nel destino di Joe Cocker se era con una loro canzone, la “minore” I’ll Cry Instead, che esordiva discograficamente (però per la Decca dei rivali Stones) nel 1964, con lo pseudonimo Vance Arnold e a capo di tali Avengers. E nel 1969, nell’omonimo secondo LP, riproverà il colpo gobbo non una ma addirittura tre volte, con superbe letture di due pezzi di Lennon/Mc Cartney, She Came In Through The Bathroom Window e Let It Be, e uno di George Harrison, Something. Però no, per quanto strano possa parere la Give Peace A Chance che figura in “Mad Dogs & Englishmen” non è quella di John Lennon, in calce le firme di Leon Russell (direttore musicale del tour) e Bonnie Bramlett.

Insomma: sono tre, i primi, o quattro con “Sheffield Steel” (rigorosamente nell’edizione allargata del 2002, forte di uno stratosferico Inner City Blues, da Marvin Gaye), o al massimo cinque con “Luxury You Can Afford”, del 1978 e prodotto da Allen Toussaint, i dischi di Cocker da avere in casa. Tolto il live, non vi è dubbio che la scelta più sensata sia quella di partire dal debutto, rimasto insuperato in studio. Di “With A Little Help From My Friends” è disponibile da alcuni anni una stampa da 180 grammi e su vinile vergine della Speakers Corner. Costa più del doppio del corrispondente CD attualmente in catalogo e le mancano i due pregevoli inediti che quello aggiunge ai dieci brani della scaletta classica. Ciò nonostante, vale quasi quasi la follia, per come restituisce alla perfezione non solo ogni minimo dettaglio di una voce bollente, magmatica, ma per il calore con cui scaturiscono dai solchi un organo liturgico (un certo Stevie Winwood) e una chitarra in bilico fra blues e hard (un tal Jimmy Page), per il lavorio di una ritmica che emula al meglio la scuola Stax, soprattutto per lo svettare gospel di fenomenali cori al femminile. Si parte in tromba, con la Feeling Alright dei Traffic di cui viene se possibile accentuata la fragranza errebì, e fino al gran congedo, con una I Shall Be Released di Dylan probabilmente mai tanto funerea, non c’è una caduta. Tutte guglie. Svettano particolarmente aguzze verso il cielo Marjorine, un vaudeville autografo che unico svela il passaporto del cantante, e due cover ancora: una struggentissima Just Like A Woman, ancora da Zimmie, e una Don’t Let Me Be Misunderstood che cancella gli Animals slalomeggiando fra soul e psichedelia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.271, settembre 2006.

5 commenti

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5 risposte a “Con un piccolo aiuto da Woodstock: la fulminea ascesa e la rovinosa caduta di Joe Cocker

  1. Joe Cocker a parte,
    ho sempre trovato bellissima e quasi superiore all’originale
    la versione di Eleanor Rigby prodotta da George Duke (RIP)
    nel 1969 per le Third Wave,
    cinque sorelle filippine con un grande talento vocale

  2. Per chi volesse sentirla al di fuori della playlist

  3. Fra i tanti più ci aggiungerei anche la più bella parodia di sempre: John Belushi al saturday night live

  4. Pingback: Esther Phillips – And I Love Him – weeko

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