Archivi del mese: settembre 2013

His Private Life (Stiamo perdendo il gusto dell’indignazione)

The Great Rock And Roll Swindle

Casale interamente recuperato con massima

attenzione ai dettagli

Zona notte con parquet in rovere sbiancato

2 camere, bagno, camera padronale

con sala da bagno e cabina armadio

Pavimentazione in resina

ingresso/salotto con camino, ampia zona giorno

con cucina a vista e studio

Zona relax con sala da musica, bagno, cantina

e lavanderia.

Vendesi.

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Bad But Good: l’ultimo Tom Waits

Eccezionalmente, solo per oggi, VMO cambia casa. Il mio post odierno lo trovate qui.

Tom Waits

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L’altra America dei Fugs (Happy birthday, Tuli)

Non ci avesse lasciati il 12 luglio 2010, Naphtali (per tutti Tuli) Kupferberg compirebbe oggi novant’anni e sarebbe ancora e più che mai il più anziano teenager al mondo. Gli faccio idealmente gli auguri recuperando un articolo che scrissi per il numero 0 di “Magic Fuzz”, fanzine alla cui breve avventura lietamente partecipai e di cui altre volte vi ho parlato su VMO. Colgo l’occasione anche per mandare un abbraccio a chi la ideò, che per quanto le nostre strade si siano separate (ma chissà che non tornino a incrociarsi, magari presto) resta una persona per la quale non ho che stima e affetto.

Ed Sanders & Tuli Kupferberg

La mattina che ho posto mano a questo articolo il cielo era terso, la temperatura gradevole e spirava una brezza gentile. Era insomma una di quelle giornate di inizio primavera che più che a sedersi dinnanzi alla tastiera di un computer invita a uscire, fosse anche solo sul balcone, con un libro sottobraccio, a sistemarsi il più comodamente possibile e a immergersi nella lettura. Più tardi, è probabile che una dolce sonnolenza si faccia strada. Già un po’ intorpidito, sfogliavo distrattamente un paio di recenti “New Musical Express” quando l’occhio mi è caduto su un coccodrillo. E la mattina non mi è più sembrata così bella. E mi è venuta voglia di scrivere finalmente quell’articolo che al Vignola avevo promesso da tempo. Un omaggio a chi ancora c’è (in ogni senso) anche per ricordare uno che aveva smesso di esserci troppo prima che la sua esistenza terrena giungesse materialmente alla fine.

È morto, all’età di cinquantatré anni, Vivian Stanshall. Male, come male aveva vissuto almeno per gli ultimi tre lustri: per le ustioni riportate in un incendio che ne ha distrutto la casa. Non si sa ancora, al momento, quali ne siano state le cause, ma non ci sarebbe da stupirsi se si scoprisse che alcolismo e tossicodipendenza, che avevano fatto dell’ex-leader della Bonzo Dog Doo-Dah Band una figura spiacevolmente patetica, hanno svolto un ruolo in questa tragedia. Per alcuni anni, fra la fine dei ’60 e la prima metà del decennio seguente, la Bonzo Band fu la cattiva coscienza in musica d’Albione: una masnada di mordaci cabarettisti hippie che fustigava con sapide canzonette il modo di vivere inglese. Come dall’altra parte dell’Atlantico – c’è del marcio ovunque: il mondo è un’unica, immensa Danimarca – i Fugs sparavano con testi ad alzo zero e musica ruspante sul Sogno Americano andato in malora.

Molte le similitudini fra i due gruppi, ma tante anche le differenze. Più surreali e disincantati i primi (che non a caso entreranno nel giro Monty Python), più didascalici e nel contempo sognatori i secondi; un po’ qualunquisti (a ben vedere) gli inglesi, tutti dediti all’impegno politico gli americani. Gli uni e gli altri furono fra i portabandiera, quasi loro malgrado, di quel Movimento che fu montagna che partorì un paio di topolini. Per salvarsi la vita, rispetto alla media dei loro lungocriniti compagni, avevano quantitativi industriali di ironia in più. A qualcuno non è bastata: al povero Stanshall; a Ken Weaver, terzo – ahem – polo nei Fugs di Ed Sanders e Tuli Kupferberg, fattosi cristiano a un certo punto negli anni ’70 e – pare – con le mani in pasta in organizzazioni di estrema destra.

Non a caso Weaver non parteciperà alla rimpatriata che, intorno alla metà del decennio ancora successivo, fruttò un album dal vivo e due, uno dei quali doppio, in studio. Se mai ce ne sarà un’altra, mancherà ancora all’appello naturalmente. Ma non è granché probabile che ci sia, anche se le parole con cui Sanders presentò il live “Refuse To Be Burnt-Out” paiono attuali come non mai.

Ci è sembrato giusto riformare i Fugs nel 1984 – l’anno di Orwell e di Reagan. Tuli e io ne discutevamo da tempo. Ora sembrava proprio il momento giusto, più che nel ’65, quando avevamo formato il gruppo. Negli USA in particolare, dove cominciavano a levarsi gli infausti rumori dei tamburi di guerra, dei tagli all’assistenza sociale, della corsa agli armamenti nucleari, degli ululati dei bigotti. Abbiamo così deciso di affrontare i problemi dei prossimi sedici anni, gli ultimi di questo secolo, con forti ‘canzoni/poemi’ in grado di combinare insieme idealismo, satira, poesia, commento e agitazione politica. E benché tutt’altro che maldisposti verso certi aspetti del passato, non abbiamo voluto dare alla reunion il tono di un viaggio sentimentale a bordo di una macchina del tempo, con tanto di adesivi di protesta bagnati dalle lacrime e di pantaloni hippie con le borchie dorate.

E nulla di nostalgico vi è difatti in “Refuse To Be Burnt-Out”, che affianca composizioni nuove a vecchi cavalli di battaglia e fu convincente introduzione a “No More Slavery” (1986, New Rose, come il predecessore e il seguente “Star Peace”), musicalmente il capitolo più vario e frizzante dell’intera discografia fugsiana. Il più… maturo.

Tuli Kupferberg ha settantadue anni. Cominciò nel 1965 a vantarsi bonariamente di essere il più vecchio cantante di rock’n’roll sulla scena e piacerebbe vedere tornare oggi i Fugs in sala di registrazione e sul palco (non li si può pensare gruppo di studio e basta) se non altro per osservarlo dimostrare, una volta di più, che essere giovani non è una questione anagrafica. Resterà un sogno?

Fugs

I Fugs si formarono appunto nel ’65, accozzaglia di poeti beat di una certa fama – Kupferberg e Ed Sanders, classe 1939, libraio ed editore underground oltre che scrittore e agitatore politico – e musicisti dilettanti – Ken Weaver, John Anderson, Vinny Leary, Steve Weber, Peter Stampfel (gli ultimi due daranno vita, da lì a poco, agli Holy Modal Rounders, gruppetto di folk eccentrico nel quale militerà per qualche tempo un certo Sam Shepard). Ma se tanti musicisti o presunti tali sono passati per le fila della band i suoi leader indiscussi e soli membri inamovibili, fino al primo scioglimento, furono Kupferberg, Sanders e Weaver.

Nacquero un po’ per caso, i Fugs, e un po’ perché l’epoca lo esigeva. Kupferberg e Sanders, che erano pressoché digiuni di musica, una sera si ritrovarono con l’amico di sempre Allen Ginsberg in un localino del Village ove suonava un complesso rock. Forse erano alterati chimicamente, forse erano semplicemente ben disposti al divertimento, forse il gruppo (del quale le cronache non tramandano il nome) quella notte era particolarmente in forma: fatto sta che se la spassarono un mondo e spuntò loro in testa l’idea meravigliosa di usare il rock’n’roll per propagandare (parole di Kupferberg) “l’anarchia, il pacifismo, il comunismo, una società senza classi”. Obiettivi confusi come solo in America può accadere e accadde soprattutto in quel decennio, marchiato a fuoco dalle lotte per i diritti civili, dalla guerra del Vietnam, dalla rivoluzione sessuale e dalla scoperta delle droghe. Nell’immaginario di una generazione di giovani americani i Fugs (provocatori fin dal nome cialtroncello) incisero profondamente con un dissacrante spettacolo – un’ora e mezzo di cabaret dell’assurdo, con testi al vetriolo e fondali musicali scarni ma efficaci – che fu replicato per qualcosa come novecento volte al Players Theatre di New York.

Iniziava con un occhio di bue che inquadrava una ragazza completamente nuda che ballava mentre Kupferberg intonava Supergirl (lontani i tempi della correttezza politica, che avrebbe fatto a pezzi – senza nulla capire, come sempre – questa canzone tanto sguaiata quanto profondamente poetica, vero inno alla liberazione sessuale) e da lì in avanti i Nostri picchiavano sempre più duro, prendendo di mira CIA e religioni organizzate, maggioranza silenziosa e mass media, la politica sociale del governo USA e i colossi industriali, la Bomba e i guerrafondai. Mentre i benpensanti, attirati dall’enorme risalto dato alle gesta della band dalla stampa (si ritrovarono a un certo punto, i nostri eroi, nientemeno che sulla copertina di “Life”), lasciavano scandalizzati la sala e il resto del pubblico se la rideva a crepapelle.

La colonna sonora degli happening fugsiani è reperibile praticamente nella sua intierezza nei primi tre LP del gruppo, “The Fugs First Album”, “The Fugs” e “Virgin Fugs”, dati alle stampe dalla ESP fra il ’65 e il ’66 e recentemente ristampati su CD, mi si dice, con ricca appendice di bonus tracks. Sono lavori, a base di blues, rock’n’roll e country con un po’ di “acidume” che si infila qui e là, musicalmente grezzi, modesti a dirla tutta, però sufficientemente godibili se uno riesce a seguire i testi, corrosivi in qualche momento ai limiti del nichilismo (da un mucchio di punti di vista furono più punk che hippie i Fugs, molto più Crass che non Grateful Dead, tanto per intenderci). Meglio sarebbe stato se il ricordo del teatrino contestatore di Kupferberg, Sanders e Weaver fosse stato affidato a della pellicola piuttosto che a del vinile ma tant’è, tocca accontentarsi.

Altra faccenda due dei quattro 33 giri su Reprise usciti fra il 1968 e il 1970. Se “It Crawled Into My Hand, Honest” è lavoro incredibilmente bislacco e stralunato e il live “Golden Filth” documenta l’act fugsiano meno bene di quanto riuscirà quasi tre lustri dopo a “Refuse To Be Burn-Out”, “Tenderness Junction” e “The Belle Of Avenue A” sono invece dischi solidi e apprezzabili sotto ogni punto di vista. Non soltanto per i testi, che si mantengono sugli standard usuali, ma finalmente pure per la musica, che senza perdere in freschezza ha acquistato in raffinatezza e flirta con la psichedelia. Almeno il lato A di “Tenderness Junction”, illuminato dal blues in punta di dita di Knock Knock e dalle fragranze d’Oriente di The Garden Is Open fa balenare nella mente di chi scrive una parolina da usare con parsimonia: capolavoro.

All’apice della fama (gli LP su ESP avevano venduto benino, quelli su Reprise decisamente bene) i Fugs, timorosi dei condizionamenti dell’industria discografica e decisi a non piegarsi a compromesso alcuno, si sciolsero. Un atto coraggioso e tutto sommato inevitabile. I tempi stavano cambiando (era entrato alla Casa Bianca un certo Richard Nixon) e l’utopia hippie andava mostrando i suoi limiti.

Degli anni trascorsi fra il primo scioglimento della band e la rimpatriata di cui si è detto non vi è da ricordare che un paio di album di Ed Sanders di più che discreta caratura, “Sanders’ Truckstop” del ’71 e “Beer Cans On The Moon”, di due anni successivo. Soprattutto il primo, selvaggia presa per i fondelli, a tempo di country, della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, tenne vivo il ricordo dei Fugs.

Piacerebbe che le prossime notizie di loro le si abbia non dal solito coccodrillo ma dagli elenchi dei dischi nuovi in uscita. Ma sarebbe forse chiedere troppo a due anziani signori che già tanto ci hanno dato: la convinzione che fra le pieghe dell’America imperialista e capitalista ve ne fosse e ve ne sia un’altra, generosa e libertaria. E vi pare poco?

Pubblicato per la prima volta sul numero 0 di “Magic Fuzz”, primavera 1995.

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Non ricadano sui padri le colpe dei figli: la “Super Session” di Mike Bloomfield, Al Kooper e Stephen Stills

Mike Bloomfield Al Kooper Steve Stills - Super Session

Naturalmente non è colpa di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” se, oltre a un discutibile gusto sartoriale, proliferarono dopo di esso lavori eccessivi negli arrangiamenti e pretestuosi negli argomenti. Se non era l’apice della psichedelia bensì l’inizio del progressive. Ma se non è giusto che sui figli ricadano le colpe dei padri dovrebbe valere pure per il contrario e così sia. E allora non date la colpa a “Super Session”, che non marchiava il ’68 come il Sergente Pepe il ’67 ma quasi, se dalla sua pubblicazione in poi e per un bel pezzo torme di chitarristi con una conoscenza manualistica delle scale del blues si sentiranno in diritto di infliggere all’universo mondo interminabili divagazioni senza capo né coda. Qui i semini d’ortica del southern rock più fastidioso. Qui il germe di tanta fusion e io sono uno contrario alla pena di morte ma disponibile a un’eccezione: i crimini contro l’umanità. Nondimeno: per quanto la rilevanza storica sopravanzi il valore artistico – in un senso è una pietra miliare, nell’altro no – “Super Session” rimane un bell’album. Figlio al 100% della sua epoca, non invecchiato benissimo (neanche “Sgt. Pepper’s”), ma comunque un bell’album.

La storia dovrebbe essere ben nota a voi vecchi lupi dei mari del rock, ma siccome qualche giovinetto ogni tanto per fortuna si imbarca la ripeterò a suo uso e consumo. Già con il Bob Dylan della svolta elettrica, già con i Blues Project, fresco di dimissioni da quei Blood, Sweat & Tears che si era inventato per “infiltrare in un rock dall’anima psichedelica non solo del rhythm’n’blues ma pure del jazz e persino della musica classica”, il tastierista Al Kooper ha la bella pensata nel maggio 1968 di convocare in uno studio di Los Angeles il chitarrista Mike Bloomfield, che ha provato a fare all’incirca la stessa cosa con gli Electric Flag. I due si conoscono bene, avendo condiviso la rivoluzione dylaniana, e si completano a vicenda. Idem una sezione ritmica composta da Harvey Brooks al basso e Eddie Hoh alla batteria. Ciliegina  su una torta che gli ingredienti prospettano gustosa il piano di Barry Goldberg. L’idea è sostanzialmente quella di jammare, come da sempre si usa nel jazz, su temi propri o altrui e vedere l’effetto che fa. Ottimo per buona parte di una prima facciata che raduna i risultati di quel primo giorno, unico suo torto vero quello di comprimere quasi trenta minuti di musica su un lato e per la dinamica non è cosa. Pezzo forte è il più lungo (9’13”), l’autografo His Holy Modal Majesty, valzer d’Oriente iniettato di psichedelia e con tratti di atonalità che si può presumere che a Coltrane sarebbe piaciuto. Del resto del programma, in barba agli intenti, più degli slalom di Albert’s Shuffle e Really convincono le cover: una funkissima Stop (da Howard Tate), una Man’s Temptation (da Curtis Mayfield) alla Blood, Sweat & Tears.

Il giorno dopo Bloomfield non si presenta, con una scusa fantasiosa a celare malamente la realtà: eroinomane perso, è in carenza sparata e non connette. Che fare? La sala è pagata e Kooper convoca al volo un altro chitarrista, Stephen Stills, reduce dai Buffalo Springfield, prossimo a metter su casa con Crosby e Nash. Proprio così: nella session più famosa di sempre i tre protagonisti non furono mai tutti insieme nella medesima stanza. Lo stacco è subito netto, nel Dylan minore reso con splendida vivacità di It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, e le distanze si accentuano con l’epopea acida di Season Of The Witch (da Donovan) e gli hendrixismi dello standard blues You Don’t Love Me. Né sciupa più di tanto il congedo dimesso di Harvey’s Tune. Considerato che è stato occupato giusto due giorni, il conto dello studio è ragguardevole: tredicimila dollari. Un primo mezzo milione di copie vendute più tardi, alla Columbia non se ne lamenteranno più.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.293, settembre 2008.

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Nello zenit i semi della decadenza: i Jethro Tull di “Aqualung”

Jethro Tull - Aqualung

Sarà che il loro primo LP che ascoltai, quando da poco la musica aveva preso a occupare tutto il tempo lasciatomi libero dagli studi liceali e da un’altra attività tipicamente (ma non solamente) adolescenziale, era il più stereotipato e compositivamente piatto pubblicato da Ian Anderson e compagnia fino a quel punto. Sarà che per una sfortunata combinazione il mio secondo incontro con costoro avvenne, la musica a quel punto non solo una ragione per vivere ma anche un modo per guadagnarsela la vita, quando erano al loro nadir. E sarà infine perché il flauto non è mai stato esattamente uno dei miei strumenti preferiti. Fatto è che – annoiato da “Heavy Horses”, disgustato da “The Broadsword And The Beast” – per un sacco di anni non ho mai nemmeno considerato l’idea di riprovarci sul serio con un gruppo che avevo liquidato collocandolo fra i detestati dinosauri del progressive. Avevo una raccolta, la storica “M.U.”, pubblicata prima che punk e new wave li rendessero irrimediabilmente obsoleti, e tanto mi bastava dei Jethro Tull. E, a dirla tutta, consideravo quell’antologia uno di quei piaceri peccaminosi e inconfessabili (oggi non mi faccio simili problemi: ebbene sì, mi piace Shakira e, se siete onesti, piace pure a voi) che ogni appassionato si concede. Credo di essere arrivato alle soglie del nuovo millennio prima di decidermi, più che altro per scrupolo professionale, a riprendere in mano il caso, ad ascoltare o riascoltare e di conseguenza rivalutare, approfondire. Credo di parlare infine con cognizione di causa quando dico che da un certo punto in poi la produzione della banda Anderson degenerò bruscamente in compiaciuta autoparodia. Però fino ad allora era stata degna di nota, il successo riscosso assolutamente meritato. Un po’ paradossalmente, nello zenit creativo i semi della susseguente decadenza.

Ci sono dei Jethro Tull prima di “Aqualung”, ancora alquanto devoti a quel blues elettrico da cui erano partiti e magistrali nel dissolverlo in un tessuto di suggestioni folk e classicheggianti. Concentrati sulla forma canzone. E ci sono, già a partire da “Thick As A Brick”, dei Jethro Tull per un verso inclini, fra questa e quella piccola oleografia pseudo-tradizionale, a un riffeggiare hard sempre più banale e meccanico e per un altro a impegolarsi in estenuanti dischi “a tema”, con ogni singolo brano parte di un disegno più vasto. In mezzo, in miracoloso equilibrio, “Aqualung”, che non è un concept ma due: una prima facciata incentrata sulla vita del clochard effigiato in copertina, una seconda sul rapporto fra uomo e Dio e sul come le Chiese, ponendosi in mezzo, lo corrompano. Non proprio roba da hit parade e nondimeno a oggi quello che per Anderson e soci fu il quarto album ha venduto quei sette milioni di copie, principalmente in forza di due classici dell’heavy più nobile quali la traccia omonima e Locomotive Breath. Belle, ma per quanto mi riguarda preferisco il mirabile trittico di folk-(ba)rock formato sul primo lato da Cheap Day Return, Mother Goose e Wond’ring Aloud e, in apertura del secondo, una My God che in un formidabile profluvio di tempi dispari tiene in qualche modo assieme schizzi di Spagna trasposti nella Canterbury di Chaucer e una solista a briglie sciolte, un pianoforte di brillantezza estrema, canti gregoriani da taverna piuttosto che da convento e un flauto che inquieta più che blandire. Sintesi perfetta – e dunque imperfettibile – di un sound che da lì in avanti non potrà che ripetersi, avvitandosi sempre più su se stesso.

Ci furono molte polemiche all’epoca (1985, mi pare) della prima stampa in CD, ricavata (sembra) da un master di seconda generazione, dinamicamente piatta e caratterizzata da sonorità innaturalmente sottili. Con le successive riedizioni digitali, ultima nel ’96 quella rimasterizzata in occasione del venticinquennale, la situazione è migliorata ma non quanto sarebbe stato auspicabile. Lo evidenzia oggi una splendida ristampa in vinile Classic Records, superba nel fotografare al meglio gli impasti elettroacustici di grande raffinatezza di “Aqualung”, i giochi multipli di chiamata e risposta, gli improvvisi cambi di passo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.287, febbraio 2008.

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Songs The Stones Taught Us (1)

Irma Thomas – Time Is On My Side (lato A di un singolo, Imperial, 1964; inclusa in “Wish Someone Would Care” e ripresa in “The Rolling Stones No. 2”)

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Bob Is Just A Three Letter Word: Joan Baez canta Dylan

Joan Baez - Any Day Now

Ho due aneddoti da raccontarvi riguardo a Love Is Just A Four Letter Word, una delle canzoni con le quali viene maggiormente identificata Joan Baez, per costei singolo natalizio del 1968 oltre che, in quegli stessi giorni, apertura di terzo lato di quello che resterà il suo lavoro più consistente, ambizioso e uno dei – diciamo tre – album classici, “Any Day Now”. Devo entrambi non a dei biografi di Bob Dylan, bensì a due grandi registi. Il primo a D.A. Pennebaker, che nel 1965 immortalava uno storico tour britannico del giovane Bardo in Don’t Look Back. In una stanza d’albergo Zimmie accenna una strofa del brano di cui sopra. La Baez si sporge verso di lui: “Ehi! Questa se la finisci la metto su un disco”. Il secondo a Martin Scorsese: da lui intervistata per il monumentale No Direction Home (2005) Joan riferisce che, per puro caso, era con Bob quando il protetto e a sua volta mentore, già amante e ancora amico la ascoltò per la prima volta cantare il pezzo in questione, alla radio. “Grande questa canzone!”, esclamava, in tutta evidenza completamente dimentico di averla scritta lui. Non c’è due senza tre? E sia. Di “Any Day Now” questo ancora si racconta: che per assemblarne il programma l’interprete copriva il pavimento di una stanza di spartiti di Dylan e ne tirava poi su sedici a caso, a occhi chiusi. Se non è vero, e a crederci un po’ si stenta notando come ben otto delle canzoni prescelte vengano da due soli LP, è quantomeno una bella favola. Di sicuro non vi era nulla di casuale in una scaletta che pare soppesatissima, sapiente nell’alternare argomenti e atmosfere come nel posizionare strategicamente gli episodi-chiave, quasi immancabilmente a inaugurare o suggellare prima, seconda e quarta facciata, con la terza occupata interamente da due soli brani.

Chissà che effetto incredibile dovette fare ai seguaci del Vate di Duluth anche soltanto girare la caratteristica (Joan aggraziata grafica per se stessa) copertina e cominciare a far di conto. A eccitare maggiormente, naturalmente, non erano i quattro titoli in origine su un “The Times They Are A-Changin’” che, vecchio appena quattro anni, già sembrava giurassico e gli altrettanti da un “John Wesley Harding” al contrario fresco nella memoria, di esattamente un anno prima. Non Love Minus Zero/No Limit, dal 33 che aveva chiuso con il folk per aprire al rock, “Bringing It All Back Home” del 1965, e nemmeno la Sad Eyed Lady Of The Lowlands unico prelievo dal doppio di Bob, “Blonde On Blonde”, del ’66. Ben altra curiosità suscitavano You Ain’t Going Nowhere, Tears Of Rage e I Shall Be Released, ascoltate in quello stesso 1968 dai Byrds (una) e dalla Band (le altre) ma dall’autore non ancora, e tuttavia il tesoro erano le tre composizioni del tutto inedite. Importava poco agli esegeti che con il loro countreggiare giocoso e modesto The Walls Of Redwing e Walkin’ Down The Line si segnalassero come i soli articoli in fondo prescindibili in un catalogo perlopiù favoloso. Con la fame di Dylan che c’era – dopo il silenzio che era parso interminabile seguito all’incidente in moto; dopo un riaffacciarsi alla ribalta spiazzante quasi quanto lo era stata la svolta elettrica – sembrarono probabilmente appetitose. Che razza di leccornia vera però era e resta, e non solamente al confronto ma in assoluto, Love Is Just A Four Letter Word, un ossimoro di canzone con il suo essere insieme vivace e languida, giocosa ma con al centro un nucleo di malinconia. Joan se la pigliava per sempre e né il distratto autore né terzi oseranno mai toccarla.

Il segreto del trionfo artistico di “Any Day Now” – che per inciso era pure commerciale: mezzo milione le copie vendute nei soli Stati Uniti in pochi mesi, per l’epoca un risultato strepitoso per un doppio – risiedeva nel suo essere un modello ideale di tributo, l’interprete magistrale nell’appropriarsi dei brani affrontati senza spingersi fino a stravolgerli: esempi sommi un North Country Blues con piglio da raga e una Tears Of Rage rabbrividentemente a cappella, tallonati da una You Ain’t Goin’ Nowhere più prossima alla Band che ai Byrds e da una Dear Landlord dagli accenti latini vistosamente sottolineati. Nel preciso istante in cui scolpiva uno dei più sentiti e felici omaggi a Dylan di sempre e chiunque, e tanto più significativo perché sporto da chi con Dylan aveva a lungo vissuto in simbiosi, la Baez usciva definitivamente dal suo cono d’ombra: magari tardiva ma appropriata, fiera e stupenda risposta alla It’s All Over Now, Baby Blue che a Newport 1965 aveva sancito divorzi multipli e il più amaramente catartico dei nuovi inizi.

Ricordo nitidamente che avrei potuto fare mio “Any Day Now” – costava così poco da essere alla portata anche di un liceale squattrinatissimo come il sottoscritto – quei tre buoni (buoni?) decenni fa. Ma io – io innamoratissimo di Zimmie – e la Joan ci eravamo presi di punta e non si è fatto pace, come un lettore davvero attento di questa rubrica potrebbe ricordare, che in pieni anni 2000. Non avevo dunque in casa altre stampe, né analogiche né digitali, da porre a confronto con la fresca edizione Pure Pleasure di cui mi ha gentilmente omaggiato Sound And Music. Per certo suona assai bene, valorizzando al meglio tanto il soprano purissimo (qui, come di rado altrove, mai esangue) della Baez che la compattezza d’assieme e il contemporaneo lavoro di ricamo su una stoffa prevalentemente country-rock (oggi la diremmo piuttosto “Americana”) di quelli che erano i migliori turnisti giovani della Nashville AD 1968. Non un “tac” né un fantasma di fruscio hanno sciupato l’incanto in innumerevoli passaggi, alcuni dei quali addirittura (non si dovrebbe, lo so) consecutivi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.302, giugno 2009.

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Songs The Stones Taught Us (2)

Robert Johnson – Love In Vain (lato B di un 78 giri postumo, Vocalion, 1939; ripresa in “Let It Bleed”)

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Songs The Stones Taught Us (3)

The Temptations – Ain’t Too Proud To Beg (lato A di un singolo, Gordy, 1966; poi inclusa in “Gettin’ Ready” e ripresa in “It’s Only Rock’n’Roll”)

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The Strypes – Snapshot (Virgin)

The Strypes - Snapshot

Ho visto il passato remoto del rock’n’roll e il suo nome è The Strypes. In giorni nei quali avevo bisogno di ridare un senso a una vita dedicata a recensire dischi, mentre la vita stessa mi sfuggiva dalle mani, irrimediabilmente, mi hanno fatto sentire come se stessi ascoltando musica per la prima volta. E finalmente c’è di nuovo qualcuno di cui posso scrivere come un tempo, senza riserve di alcun tipo, senza preoccuparmi se avrà o meno un domani, se si confermerà, deluderà o diventerà magari una farsa e lo dice uno che di esistenze farsesche se ne intende. Finalmente c’è di nuovo qualcuno che non mi fa sentire vecchio facendo il mestiere che faccio, ricordando come tutto fosse diverso quando cominciai, il futuro una pagina bianca sulla quale qualcuno ha poi scritto “abbiamo scherzato”.

Sulla copertina del loro primo album mostrano le facce pulite e malandrine degli anni che hanno, che a sommarli sono pochi più di quelli che totalizza da solo Keith Richards, questi quattro giovincelli di Cavan, Irlanda, che paiono usciti da una capsula temporale. Eppure per tanti versi figli di un’epoca, che è la nostra, che consente di avere sulla punta delle dita (naturalmente le due che cliccano sul mouse) tutto quanto accaduto al rock da quando rock ancora non era, dacché Robert Johnson incontrò a un crocicchio il suo destino. E che può permettere a dei perfetti sconosciuti di ritrovarsi a capeggiare la classifica blues di iTunes il giorno dopo avere diffuso un video (impagabile: regia di una loro ex-babysitter) con una loro versione dell’immortale classico di Willie Dixon (via Bo Diddley) You Can’t Judge A Book By The Cover. Un libro no che non lo puoi giudicare dalla copertina, ma una band dalle cover che fa un po’ sì e gli Strypes sono compresi più o meno per intero fra quella festosa e imperiosa rievocazione di blues elettrico chez Chess e una rilettura che è poco dire all’anfetamina di Heart Of The City di Nick Lowe, capolavoro di un pub-rock che si avviava a diventare punk-rock. Le altre – un’ustionante I’m A Hog For You Baby, una Rollin’ And Tumblin’ travolgente e una Beautiful Delilah di più, tutte in studio, mentre C.C. Rider e I Can Tell provvedono a certificare che anche dal vivo i ragazzi sono una forza della natura – ci ribadiscono che i testi sacri sono stati mandati a memoria, ma è sottolineatura pressoché superflua. Per coglierlo basta arrendersi senza condizioni (l’unica maniera nella quale si può godere di un disco così: innocentemente) a otto brani autografi “in stile” uno più formidabile dell’altro. Si tratti del beat di ruvidezza garage Mystery Man o di una stentorea What The People Don’t See, del blues elettrico di improvvisa pesantezza hard Angel Eyes, con il quale per qualche istante si lascia il perimetro Amburgo ’62-Londra ’64, o di una What A Shame che avrebbero potuto chiamarla What A Shake e le Hometown Girls avrebbero senz’altro gradito.

È solo rock’n’roll. Banale ed entusiasmante, bello, sporco e cattivo, già sentito un’infinità di volte e nondimeno freschissimo, figlio di una congerie di ieri e suonato come non ci fosse un domani. È solo rock’n’roll. Mi ha rovinato la vita, ma me l’ha salvata.

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