Naturalmente non è colpa di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” se, oltre a un discutibile gusto sartoriale, proliferarono dopo di esso lavori eccessivi negli arrangiamenti e pretestuosi negli argomenti. Se non era l’apice della psichedelia bensì l’inizio del progressive. Ma se non è giusto che sui figli ricadano le colpe dei padri dovrebbe valere pure per il contrario e così sia. E allora non date la colpa a “Super Session”, che non marchiava il ’68 come il Sergente Pepe il ’67 ma quasi, se dalla sua pubblicazione in poi e per un bel pezzo torme di chitarristi con una conoscenza manualistica delle scale del blues si sentiranno in diritto di infliggere all’universo mondo interminabili divagazioni senza capo né coda. Qui i semini d’ortica del southern rock più fastidioso. Qui il germe di tanta fusion e io sono uno contrario alla pena di morte ma disponibile a un’eccezione: i crimini contro l’umanità. Nondimeno: per quanto la rilevanza storica sopravanzi il valore artistico – in un senso è una pietra miliare, nell’altro no – “Super Session” rimane un bell’album. Figlio al 100% della sua epoca, non invecchiato benissimo (neanche “Sgt. Pepper’s”), ma comunque un bell’album.
La storia dovrebbe essere ben nota a voi vecchi lupi dei mari del rock, ma siccome qualche giovinetto ogni tanto per fortuna si imbarca la ripeterò a suo uso e consumo. Già con il Bob Dylan della svolta elettrica, già con i Blues Project, fresco di dimissioni da quei Blood, Sweat & Tears che si era inventato per “infiltrare in un rock dall’anima psichedelica non solo del rhythm’n’blues ma pure del jazz e persino della musica classica”, il tastierista Al Kooper ha la bella pensata nel maggio 1968 di convocare in uno studio di Los Angeles il chitarrista Mike Bloomfield, che ha provato a fare all’incirca la stessa cosa con gli Electric Flag. I due si conoscono bene, avendo condiviso la rivoluzione dylaniana, e si completano a vicenda. Idem una sezione ritmica composta da Harvey Brooks al basso e Eddie Hoh alla batteria. Ciliegina su una torta che gli ingredienti prospettano gustosa il piano di Barry Goldberg. L’idea è sostanzialmente quella di jammare, come da sempre si usa nel jazz, su temi propri o altrui e vedere l’effetto che fa. Ottimo per buona parte di una prima facciata che raduna i risultati di quel primo giorno, unico suo torto vero quello di comprimere quasi trenta minuti di musica su un lato e per la dinamica non è cosa. Pezzo forte è il più lungo (9’13”), l’autografo His Holy Modal Majesty, valzer d’Oriente iniettato di psichedelia e con tratti di atonalità che si può presumere che a Coltrane sarebbe piaciuto. Del resto del programma, in barba agli intenti, più degli slalom di Albert’s Shuffle e Really convincono le cover: una funkissima Stop (da Howard Tate), una Man’s Temptation (da Curtis Mayfield) alla Blood, Sweat & Tears.
Il giorno dopo Bloomfield non si presenta, con una scusa fantasiosa a celare malamente la realtà: eroinomane perso, è in carenza sparata e non connette. Che fare? La sala è pagata e Kooper convoca al volo un altro chitarrista, Stephen Stills, reduce dai Buffalo Springfield, prossimo a metter su casa con Crosby e Nash. Proprio così: nella session più famosa di sempre i tre protagonisti non furono mai tutti insieme nella medesima stanza. Lo stacco è subito netto, nel Dylan minore reso con splendida vivacità di It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, e le distanze si accentuano con l’epopea acida di Season Of The Witch (da Donovan) e gli hendrixismi dello standard blues You Don’t Love Me. Né sciupa più di tanto il congedo dimesso di Harvey’s Tune. Considerato che è stato occupato giusto due giorni, il conto dello studio è ragguardevole: tredicimila dollari. Un primo mezzo milione di copie vendute più tardi, alla Columbia non se ne lamenteranno più.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.293, settembre 2008.
Io invece lo trovo invecchiato molto bene e comunque a livello di contenuti più importante della rilevanza storica (Kooper , Stills e Bloomfield allafine sono figure “minori” – mille virgolette- del rock).
Insomma rimane in assoluto tra i miei album preferiti di sempre.
Parlando di rilevanza storica mi riferivo proprio all’album in sé. Che certo non è fra i miei preferiti di sempre, ma mi piace eccome.
Anch’io lo trovo invecchiato meglio di tanti suoi contemporanei e ogni tanto un bel giro glielo faccio rifare. ottima la ristampa di qualche anno fa. E non penso neppure che sia il responsabile delle onanistiche divagazioni di improbabili epigoni, semmai questo dubbio “merito” lo lascio a quel palloso di Clapton ed ai suoi Cream,con nefasto assolo di batteria incluso.
e, si, il Sgt Pepe è invecchiato male anche per me.
Oddio, dai, è vero che il “Sgt. Pepper” non è ad oggi smagliante come “Revolver” o il doppio bianco, ma proprio invecchiato male non direi… La partenza (il sound di quella partenza…) e tutto il primo brano sono incredibilmente moderni, e dentro, accanto a cose che risultano effettivamente un po’ datate – ma sarebbe anche bello prima o poi aprire una riflessione sui concetti di “datato” e “invecchiato” -, ci sono delle gemme assolute (anche una “Getting Better”, secondo me, o “Fixing a Hole”).
E’ vero, Clapton è un po’ palloso, già da subito 🙂 (tolto il periodo pre Cream, probabilmente anche qualcosa con essi, qualcosa con i Derek & the D. ma perché c’è Duane Allman, e l’assolo sulla “While My Guitar…” dei Beatles).
Ho scoperto Bloomfield da poco (sono dell’84), uno dei chitarristi più “veri” che mi siano passati dentro i timpani.
Venerato maestro, cosa ne pensa di “A Long Time Comin'” degli Electric Flag? Personalmente lo trovo molto bello, soprattutto quando canta Buddy Miles.
A me Bloomfield piace da morire con il Dylan del 1965: che gli disse di non suonare “quella merda alla B. B. King”, o qualcosa del genere; ossia, di non suonare assoli blues. E infatti il suono della “Maggie’s Farm” di Newport secondo me è già protopunk, anche per l’imprecisione dell’orribile bassista: parte dalla “Milk Cow Blues” di Elvis e arriva dentro gli anni ’70..