Archivi del mese: novembre 2013

Meglio tardi che mai: quel gran genio di Bill Withers

Bill Withers - Just As I Am

Se c’è più gusto a sudarsela, la pagnotta, nessuno deve essersi mai goduto un lauto pasto quanto Bill Withers. Per perseveranza e sacrifici, oltre che per talento, pochi hanno meritato come lui di salire sul tetto del mondo e ancora meno hanno avuto la saggezza di scenderne, loro sponte, al momento giusto. Il prossimo 4 luglio compirà settant’anni e ne saranno trascorsi ventitre dall’uscita del suo ultimo album non antologico. La sua carriera discografica in tutto ne durò quindici. Altri numeri? Tredici gli anni che aveva quando il padre minatore moriva, lasciando la numerosa famiglia ancora più povera di quanto non fosse mai stata e dunque un po’ oltre l’immaginabile. A diciassette salutava la natìa West Virginia e si arruolava nella marina militare, dalla quale si sarebbe congedato quasi ventisettenne. I successivi cinque anni li trascorrerà di giorno assemblando gabinetti (sempre meglio che pulirli, no?) alla catena di montaggio della Boeing, la notte esibendosi nei peggio bar di Los Angeles. Con i primi due singoli e l’album d’esordio alti e saldi nella graduatoria R&B (il debutto a 45 giri altissimo pure in quella generalista) per qualche mese nell’anno di grazia per davvero 1971 si rifiuterà di lasciare il lavoro in fabbrica, convinto che il successo si sarebbe rivelato effimero. Svariati milioni di diritti d’autore dopo per la sola Ain’t No Sunshine, una delle canzoni più coverizzate e in seguito una delle più campionate di sempre, probabile che se la rida ancora, come nella bella foto sul retro di copertina di “Just As I Am”, per essersi sbagliato tanto clamorosamente. Bill Withers è più di un genio: è un eroe.

Non si finisce mai di imparare e per fortuna. Sai la noia, se no? Però a scoprire di punto in bianco e per caso, dopo trent’anni che faccio girare dischi, che razza di capolavoro sia il suddetto LP quasi ci sono rimasto male. Come potevo non avere una conoscenza diretta – a parte tre canzoni (un quarto del programma) incluse nel 2000 nella raccolta “Lean On Me” (un Columbia Legacy) – di un album di simile levatura? Mi sono trovato costretto a rimodellare una visione della storia del soul disegnata attraverso i decenni e l’ascolto di parecchie centinaia di dischi, e non a livello di minuzie. Insomma uno shock, sebbene piacevole. Ho cercato una giustificazione per la mia ignoranza e almeno non ho faticato a trovarla e più che valida. Fatto è che “Just As I Am” è rimasto per lunghissimo tempo fuori catalogo e quando ci è rientrato stabilmente una prima volta, nel 2005 (in precedenza una riedizione digitale vista solo in foto che lo accoppiava a “Still Bill”), bizzarramente lo ha fatto non come un normale CD ma in forma di dual disc. Mai incrociato e, mi fosse capitato, pur sapendo di cosa si trattava non l’avrei preso proprio per via dell’abominevole supporto. Mai gradito così tanto una ristampa – Speakers Corner – in santo e obsoleto vinile e, a meno di rivolgervi al mercato dei collezionisti, pure voi per averlo non avrete che queste due possibilità. Quale credete che vi consigli? L’immagine stereofonica è ineccepibile (una follia pasticciarla aggiungendo canali), i suoni sono magnifici per naturalezza, calore e colore, dettaglio. Finissima una filigrana che consente di assaporare ogni intarsio di arrangiamenti sofisticati quanto la scrittura, magistrale una dinamica che esalta l’elasticità e la fluidità di una ritmica che al basso vede ora Donald “Duck” Dunn e ora Chris Ethridge e alternarsi alla batteria Al Jackson e Jim Keltner. Impressionati? In questo LP figurano anche Booker T. Jones, che ne curò pure – assai sapientemente – la regia, e Stephen Stills. Particolari di scarsa se non nessuna rilevanza a fronte di una scrittura stellare e originalissima.

Non conoscendo “Just As I Am”, del suo artefice mi ero formato un’opinione in base a quel paio di decine di canzoni mandate in classifica nell’arco di un quindicennio. Mi aveva sempre dato l’idea di un Bobby Womack bravo ma ovviamente minore rispetto al modello. Sfacciato nella seduzione melodica, raffinato nelle orchestrazioni ma talvolta un po’ eccessivo, con dunque un rischio di patinatura costantemente in agguato. Levigato nella sua funkitudine, abile nell’inserire qui e là un tocco di jazz. Un valente intrattenitore occasionalmente capace di un guizzo di poesia autentica, ma più roba da lounge, da discoteca che non da juke joint. Che equivoco. Che madornale sottovalutazione e dire che, a parte una Ain’t No Sunshine che naturalmente non vi racconto perché vorrebbe dire insultarvi, almeno con Harlem e Grandma’s Hands avevo familiarità. Ma fuori contesto mi era sfuggito il loro racchiudere tutto il Gil Scott-Heron che sarà, altro che Womack o – peggio – Luther Vandross. Sono i primi tre brani che sfilano nel disco. Dopo, migliora. Con gli incroci dolcemente stordenti di chitarra acustica e organo di Sweet Wanomi, con una resa esaltantemente ed esultantemente funk della Everybody’s Talkin’ di Fred Neil, con una Do It Good che parte marziale e arriva festante. È la prima facciata. La seconda contorna la più peculiare Let It Be mai uditasi (in generale una delle più ardite rivisitazioni beatlesiane di sempre e chiunque) con la solennità al limitare del liturgico di Hope She’ll Be Happier, una I’m Her Daddy rotolante e slanciata, una Moanin’ And Groanin’ che fa sistemare nella stessa frase le parole “eleganza” e “tribale”, una sculettante Better Off Dead. La mia preferita è però In My Heart: così avrebbe suonato Nick Drake fosse nato a Memphis. Siete ancora qui?

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.289, aprile 2008. “Just As I Am” è stato poi nuovamente ristampato in digitale, nel 2012 su BBR.

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Good Rockin’ Tonight – L’educazione sentimentale del Boss

Il prossimo 14 gennaio Bruce Springsteen pubblicherà il suo diciottesimo album in studio, “High Hopes”. La copertina è terribile e sul disco le cattiverie già si sprecano, fomentate anche dal singolo che lo ha preceduto due giorni fa e che è la traccia che inaugura e battezza il lavoro: una cover degli Havalinas, una delle tre canzoni non firmate dal nostro uomo essendo le altre due riletture di Just Like Fire Would e Dream Baby Dream, che furono rispettivamente di Saints e Suicide. Mi è sembrata una buona scusa per ripescare un articolo che scrissi ben diciotto anni fa nel quale auspicavo che prima o poi Bruce pubblicasse una raccolta tutta di cover.

Bruce Springsteen 1973

Ricordava Springsteen in un’intervista del ’74: “Per diversi anni non ho avuto un giradischi. Più o meno da quando i miei si trasferirono ad ovest a quando sono venuto a New York. Di conseguenza, si può dire che io non abbia ascoltato davvero alcun album uscito dopo il 1967”. È lecito chiedersi, dunque, come sarebbe stata la musica del Nostro se avesse avuto quell’esposizione alla psichedelia (conosciuta solo per breve contatto diretto, al tempo del soggiorno californiano degli Steel Mill) e all’ondata di cantautori intimisti dei primi anni ’70, che invece non ebbe. Ma dopo averci riflettuto un po’ si giunge alla conclusione che probabilmente nulla sarebbe cambiato. Non – come qualcuno potrebbe pensare – per incompatibilità del Nostro con – per dire – i Quicksilver Messenger Service o James Taylor, giacché ha sempre dimostrato un eclettismo negli ascolti e un’apertura mentale notevoli, bensì perché nel ’67 (aveva allora diciotto anni) la sua formazione musicale era completata e tutta o quasi orientata verso suoni neri o dai neri fortemente influenzati, e non molta psichedelia e pochissimi cantautori saranno sensibili a quelle influenze. Soprattutto, perché l’arte di Springsteen è proustianamente volta alla ricerca/ricostruzione del tempo perduto e nella memoria nulla resta impresso indelebilmente come il primo giorno di scuola, una festa più speciale di altre, una gita o un litigio con i genitori, il primo bacio. E le canzoni che di tutto ciò sono state colonna sonora, inseguite alla radio, suonate su un impianto da poco o abbozzate, incespicando ed esaltandosi, sulla prima chitarra.

I musicisti possono essere divisi, grossomodo, in due categorie. Della prima fanno parte i Peter Buck (per chi è vissuto su un altro pianeta negli scorsi dieci anni: il chitarrista dei R.E.M.) e gli Elvis Costello: fans che sono diventati musicisti per caso. Gente con collezioni di dischi sterminate e una conoscenza del genere che suonano (ma non solo) enciclopedica. Gente che se l’intervistatore di turno cita un oscuro singolo che soltanto loro due conoscono e posseggono si illumina come un albero di Natale. Gente che per quell’altro singolo di quello stesso sconosciuto gruppetto, quello mancante all’appello, sarebbe pure disposta a commettere un reato o due. Permettetemi il paradosso: critici mancati.

Sono una minoranza costoro, e perdipiù esigua. Per quanto strano possa sembrare tanti musicisti non ascoltano musica che di rado e senza metodo, accendendo la radio o la TV o mettendo su i promo passati loro dalla casa discografica. Altri conoscono la scena in cui si muovono ma da lì non si scostano mai. Molti si sono fermati agli ascolti dei quindici anni, quelli che li spinsero a imbracciare uno strumento. A tutti difetta la curiosità di investigare a fondo su passato e presente, variamente giustificata, il più delle volte con l’aspirazione a una peraltro impossibile originalità, che l’ascolto di troppa musica d’altri comprometterebbe.

Bruce Springsteen non appartiene né alla prima schiera né tantomeno alla seconda, da cui lo distanziano assai l’interesse per l’opera altrui e la consapevolezza di suonare musica popolare, per la quale l’originalità è un falso problema. Cosciente di non inventare nulla, nello stesso tempo sa che ciò non lo sminuisce, perché perpetuare la tradizione in termini non di pura nostalgia equivale a mantenerla vitale e non è impresa da poco. Dalla prima lo separa invece un approccio alla musica più istintivo, vissuto con cuore e visceri prima che con la mente, che interviene semmai, per spiegare la passione, a posteriori. E se non è titolare di una ricca discoteca nondimeno il Nostro conosce benissimo le radici della sua arte e l’humus culturale in cui affondano. Può magari non possedere il disco che contiene una certa canzone, ma quella canzone l’ha fatta sua in altra, più profonda maniera, ascoltandola alla radio innumerevoli volte e poi suonandola in giro per il New Jersey o per il mondo.

Ecco, l’educazione musicale di Springsteen, dipanatasi attraverso le consuete quattro tappe, così può essere schematizzata: le canzoni ascoltate alla radio sono la scuola elementare; quelle stesse canzoni fatte proprie imparando a suonarle alla chitarra, le medie inferiori; ancora quelle canzoni suonate con un gruppo, il liceo; le nuove canzoni che a quelle si ispirano, l’università. Come sempre accade, avere una buona preparazione di base smussa le difficoltà di passaggio da un grado d’istruzione al successivo.

Per gli aspiranti a una laurea in rock’n’roll fra il ’58 e il ’69-’70 circa non vi era corso di studi migliore di quello offerto dalle radio americane in AM. Il giovane Bruce ne fece tesoro, innamorandosi via via di Elvis e del rock’n’roll più classico tutto, del sanguigno soul sudista di scuola Stax/Atlantic, di quello venato di pop della Motown e del suo controaltare, il pop venato di soul delle produzioni di Phil Spector, struggentemente adolescenziali. E poi dei gruppi della British Invasion e di quelli americani che da quel fenomeno furono ispirati. E infine di Dylan. Praticamente tutte le sue influenze ricadono in uno di questi cinque filoni: rock’n’roll dei primordi; soul e rhythm’n’blues; pop orchestrale; il rock inglese della prima metà dei ’60; Bob Dylan, che fa categoria a parte.

Lo si evince chiaramente – oltre che dall’ascolto dei suoi dischi e dalla lettura delle interviste, va da sé – dal chilometrico elenco di cover che Dave Marsh pone in appendice a Born To Run, biografia esemplare perché, al contrario della successiva Glory Days, non scade mai nell’agiografia e dipingendo un ritratto d’artista di straordinaria vivacità e accuratezza narra nel contempo un quarto di secolo di storia, non solo musicale ma anche sociale e politica, degli Stati Uniti, tanto da potere risultare avvincente persino per chi non abbia alcun interesse particolare per Springsteen. Sono canzoni, sovente, che il Boss ancora in erba suonò centinaia di volte nei set dei Castiles e degli Steel Mill, in licei, cinema, bar, e in quei club dove toccava fare dai due ai quattro concerti a notte (palestra durissima ma proficua quella dei club negli anni ’60: si pensi ai Beatles e ai loro soggiorni in quel di Amburgo), e sono poi passate nel sempre mutevole repertorio della E-Street Band. A volte presenti in scaletta una sera e basta, a volte in lista per intere tournée, quando non per anni, come è il caso del travolgente Detroit Medley, che metteva in sequenza alcuni successi rock’n’roll del biennio ’65-’66 di Mitch Ryder ed è immortalato nei solchi del triplo antologico di autori vari “No Nukes”.

È un gran peccato che Bruce non abbia mai confezionato un album a base di cover, magari proprio assemblando registrazioni dal vivo, e che soltanto una manciata di queste sia finita su vinile CBS: il succitato Detroit Medley; Santa Claus Is Coming To Town del binomio Crystals/Phil Spector; l’altro classico natalizio Merry Christmas Baby, della coppia Baxter/Moore; Chimes Of Freedom di Bob Dylan e This Land Is Our Land del di lui maestro Woody Guthrie; il formidabile funky War, che fu di Edwin Starr prima e dei Temptations poi; il rovente errebì Raise Your Hand, già di Eddie Floyd. Tutte rigorosamente in versioni live, come anche due “fuoriserie” come Jersey Girl di Tom Waits e Trapped di Jimmy Cliff. Il resto è affidato al ricordo di quanti hanno assistito ai concerti e, naturalmente, alle centinaia di LP “pirata” presenti sul mercato. Ma chissà, prima o poi…

Sarebbe invero cosa buona e giusta potere inserire negli scaffali, registrate finalmente come si deve, le canzoni che hanno plasmato infanzia e adolescenza del Nostro nelle versioni che ne ha dato dieci, quindici, vent’anni dopo. Che emozione sarebbe ascoltarlo ringraziare Elvis (Can’t Help Falling In Love, Follow That Dream, Good Rockin’ Tonight e tante altre) e Chuck Berry (troppi i titoli perché li si possa citare tutti), Little Richard (Lucille, Ready Teddy) ma anche Jerry Lee Lewis (High School Confidential) e Buddy Holly (Not Fade Away, Rave On); scoprirlo romanticissimo con Sam Cooke (Cupid, Soothe Me), Phil Spector (Baby I Love You, Be My Baby, Then She Kissed Me) e Ben E. King (Spanish Harlem) e danzerino con Wilson Pickett (In The Midnight Hour) e Martha And The Vandellas (Dancing In The Street). E ancora: sentirlo omaggiare giganti dell’altra sponda dell’Atlantico come i Rolling Stones (The Last Time, Street Fighting Man) e i Beatles (Twist And Shout), gli Animals (It’s My Life, We Gotta Get Out Of This Place), i Them (Gloria, Mystic Eyes), i Kinks (You Really Got Me) e gli Who (My Generation), e subito dopo ammirarlo mentre rilegge un gruppo americanissimo come i Creedence Clearwater Revival (Travellin’ Band, Who’ll Stop The Rain, Proud Mary, Fortunate Son) di quel John Fogerty che di Bruce frequentò, precedendolo di un paio di anni, le stesse classi. I soli affacciatisi alla ribalta fuori tempo massimo: Springsteen potè conoscerli perché, unici nel post-’67, si concentravano sui 45 giri piuttosto che sugli album, sulla tradizione rock’n’roll invece che sulla psichedelia dominante ed erano perfetti per radio e, soprattutto, autoradio.

Sarebbe proprio un bellissimo viaggio, alla ricerca del 4/4 perduto.

Pubblicato per la prima volta su “Satisfaction”, n.4, maggio 1995. In parte riutilizzato in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

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Opinioni decisamente eterodosse sulla Allman Brothers Band

The Allman Brothers Band - Idlewild South

A mesi saranno vent’anni che la Allman Brothers Band è insieme – cioè: insieme di nuovo – e se è di reunion che si parla, e sorvolando sulle numerose e non tutte obbligate assenze che fanno sì che la formazione sia assai diversa da quella scolpita nel Grande Libro del Rock, devo dire che non me ne vengono in mente altre che siano durate tanto e, soprattutto, con una visibilità lontanamente paragonabile. Lungi dall’essere una faccenda per canuti nostalgici gli Allman in questa loro “second life” continuano a riempire teatri, palasport, stadi: posti davanti ai quali difficilmente appendi il cartello “sold out” se non hai una congrua percentuale di giovani nel tuo pubblico. Non se il tuo pubblico non è composto addirittura in maggioranza da gente che manco era nata quando davi alle stampe il primo album e bisogna risalire indietro nel tempo di vent’anni ancora. Fra le tradizionali attrazioni live del circuito nordamericano i Nostri hanno finito per rimpiazzare i Grateful Dead, benché da sempre si tratti di platee solo marginalmente contigue. Benché filosoficamente prima ancora che musicalmente, e nonostante tante radici in comune, si trattasse di esperienze opposte fino a essere antipodiche. Comunque certamente non è un caso che, dopo quel “Seven Turns” che nel 1990 sorprendeva assemblando il programma nettamente migliore dal giurassico “Brothers And Sisters”, di dischi in studio gli Allman ne abbiano pubblicato appena tre e di live una dozzina. D’altronde: è di un gruppo che prima di porre mano al 33 giri d’esordio perfezionò il suo sound con mesi filati di concerti che stiamo parlando. Un gruppo che entrava in un colpo nelle zone alte delle classifiche USA e nella storia della musica popolare del Novecento con un doppio dal vivo: “At Fillmore East”. C’è un singolo lettore che non sappia di cosa sto parlando? Devo averlo da poco prima di quando la gloriosa sigla tornò in pista. E una volta all’anno lo metto su e – una rarità assoluta! – per quell’ora e un quarto gli dedico un’attenzione esclusiva. Cerco di farmelo piacere sul serio. In due abbondanti decenni non ci sono ancora riuscito.

Chilometrico preambolo per arrivare a dire che sugli Allman Brothers ho opinioni decisamente eterodosse. Credo, e lo so che pochi saranno d’accordo, che esattamente come i Cream divennero famosi per la ragione sbagliata: per le estenuanti (per me: causa mancanza di quell’attitudine psichedelica che mi fa al contrario adorare i Dead) improvvisazioni; non per la capacità che pure avevano di distillare in brani relativamente succinti blues e soul, country, jazz e rock’n’roll. Idiomi che per ovvie ragioni – Macon, Georgia, la città che chiamavano casa: la stessa di Little Richard e Otis Redding – padroneggiavano con una naturalezza che il trio britannico non ebbe mai. Datemi tutta la vita la Whipping Post dell’omonimo debutto, cinque minuti e sedici secondi senza una nota più di quelle “giuste” e teneteveli voi, se li preferite, i ventidue e cinquantasei del Fillmore. Datemi tutta la vita le due facciate in studio di “Eat A Peach” e tenetevi le due in concerto e in particolare i quasi trentaquattro minuti (cazzo! neanche il Miles Davis coevo riusciva a restare interessante per trentaquattro minuti) di Mountain Jam. Ma proponetemi persino “Brothers And Sisters”, che a livello di scrittura non è proprio una roba dell’altro mondo e per quanto riguarda lo stile vira country, e ineditamente eccede in carineria, in cambio del doppio di cui sopra e un pensierino ce lo farò. Naturalmente, rifiuto la permuta fra i sette minuti della In Memory Of Elizabeth Reed inclusa in “Idlewild South” e i tredici della versione in scaletta al Fillmore.

Ecco: se con “At Fillmore East” flirto da più di vent’anni ma non mi sono mai avvicinato a concludere, con “Idlewild South” non dico che fu folle amore a primo ascolto ma il rapporto si è fatto presto solido ed è rimasto soddisfacente. Magari non me lo porterei sull’isola deserta, però sono contentissimo che sia nelle librerie e mi ha fatto piacere tornare a frequentarlo. Uscito in origine per Capricorn nel 1970, il secondo LP in studio del sestetto resterà l’ultimo a schierare la formazione-tipo, giacché il 29 ottobre 1971, due settimane dopo il superamento della soglia delle cinquecentomila copie vendute negli Stati Uniti dal live e a tre da quando avrebbe compiuto venticinque anni, il maggiore degli Allman, Duane, periva in un incidente motociclistico. Posso dirlo? Il chitarrista bianco più negro che ci sia mai stato. Immagino che i più conoscano il seguito della storia. Un anno e quindici giorni dopo e sulla medesima strada, a poche centinaia di metri, ad ammazzarsi in moto era il bassista Berry Oakley, lui pure non ancora venticinquenne. Primo lavoro registrato in larga parte senza Duane, “Eat A Peach” rimarrà l’ultimo a includere Oakley e logicamente nulla sarebbe più stato lo stesso. Ma in “Idlewild South” gli Allman ci sono tutti e in uno stato di grazia irripetibile. Praticamente una Experience con aggiunto un organista in una roboante Hoochie Coochie Man e il migliore concentrato concepibile di Profondo Sud in un resto di programma tutto autografo: da una Revival aromatizzata gospel a una Don’t Keep Me Wonderin’ che sculetta blues, per arrivare alla ballatona soul Please Call Home e a una Leave My Blues Alone che a dispetto del titolo funkeggia. Quando però i capolavori veri sono una Midnight Rider di pigra innodia e la già menzionata In Memory Of Elizabeth Reed, elegia turbinosa dal groove inarrestabile.

La vostra copia è usurata dai troppi passaggi? Non la sostituirei con un CD ma con la favolosa, recente ristampa in vinile di Mobile Fidelity: garantito che degli Allman Brothers così… vivi non li avete sentiti mai.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.298, febbraio 2009.

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Emozioni da poco (3): Everly Brothers, Bill Haley, Chuck Berry, Little Richard, Fats Domino, Chubby Checker

Consigli per gli acquisti da un’epoca in cui i dischi in serie economica costavano, fatte le debite proporzioni, quanto i dischi a prezzo pieno oggi.

Bassifondi 3

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Presi per il culto (39): Thundertrain – Teenage Suicide (Jelly, 1977)

Thundertrain - Teenage Suicide

Registrato in una singola notte, su un due piste: l’alta fedeltà è un’altra cosa, per quanto il suono abbia un bell’impatto, nitidezza e dinamica non da demo. Il rock’n’roll invece è, o dovrebbe essere, precisamente questa roba qui, o anche questa roba qui, o almeno qualche volta questa roba qui: pose da bullo, testosterone a mille, un riff contundente, un assolo tipo eiaculazione, basso e batteria a passo di carica. La prima canzone si chiama Hot For Teacher! e no, non è quella quasi omonima (un punto esclamativo in meno) e lunga quasi il doppio (4’44” contro 2’40”) che i Van Halen porteranno in classifica nel 1984, a dispetto del boicottaggio del famigerato PMRC. Tanti lettori avranno probabilmente presente il video, ilarmente esplicito. Temo siano invece pochini a conoscere la Hot For Teacher! quantomeno in un senso originale: che i Van Halen se ne fecero “ispirare”. Ma quanto si può essere sfigati? Il punk ti ha sorpreso alle spalle mentre eri ancora alle prese con il glam, il tuo pezzo più “famoso” è omonimo di un altro cento volte più popolare, nel tuo unico LP ci ha suonato uno dei Velvet Underground ma dei Velvet Underground senza più Lou Reed (gli appestati per antonomasia della storia del rock) e l’unico membro del gruppo che si avvicinerà a un qualche tipo di stardom lo farà da cantante – nel disco più brutto e meno venduto – del progetto solista del chitarrista di un’altra band di Boston. Accantonato poco dopo quando costui, tal Joe Perry, tornava alla base, tali Aerosmith. In realtà manco erano proprio di Boston, che fa comunque fico, i Thundertrain, bensì di un sobborgo il cui nome alle orecchie di un italiano suona piuttosto ridicolo: Natick. Dev’essere però una bella cittadina, a giudicare da quel paio di foto che ne corredano la scheda su Wikipedia. I Thundertrain naturalmente su Wikipedia non ci sono e ormai bisogna veramente essere dei signor Nessuno per non esserci. Loro, modestamente, lo nacquero. Lo sono rimasti.

Non fatevi fuorviare da titolo e copertina, da quel polso con le vene tagliate che lugubremente sporge dall’angolo in basso a sinistra: “Teenage Suicide” è un party record le cui nove tracce conoscono solo due marce, veloce e più veloce. Niente lenti qui sopra, niente ballate, niente canzoni d’amore. Hot For Teacher! inaugura e stabilisce il tono e c’è chi l’ha descritta come “due terzi di Slade e un terzo di Rolling Stones”, chi come gli Slade alle prese con Chuck Berry e insomma gli Slade sembrerebbero entrarci sempre. Io qui ce li sento sì e no – molto di più in quell’altro inno, Hell Tonite, che apre la seconda facciata. Per me invece Hot For Teacher! sono gli Aerosmith all’apice del festaiolo ma, ancora di più e quintessenzialmente, le New York Dolls: pensatela come una Personality Crisis più lubrica e meno isterica. La categoria è quella e quello il torto: che è brano di tale levatura che al confronto il resto del repertorio assemblato dal cantante Mach Bell, dai chitarristi e autori Steven Silva e Gene Provost, dal bassista Ric (fratello di Gene) e dal batterista Bobby Edwards (con un piccolo aiuto al piano ma soltanto in due pezzi da Willie “Loco” Alexander) non direi che scompaia ma certamente ne viene sminuito. Oltre che dalla già menzionata Hell Tonite il meglio del resto è rappresentato da una Let’Er Rip che non fa prigionieri, da una Cheater tesa e malevola prima di deflagrare teatrale, da una I Gotta Rock (suggello inciso in concerto) sulla quale la dice lunga il titolo. Ma soprattutto da Modern Girls, che se ce la immaginiamo da Meat Loaf diventa indigeribile Wagner’n’roll e una hit sicura ma così sottoprodotta risulta irresistibile.

Stampato in un numero di esemplari presumibilmente modesto da una piccola etichetta locale, “Teenage Suicide” non cambiava se non in peggio (portandoli con il suo insuccesso a sciogliersi) le fortune dei Thundertrain, eroi di un anno o due nel Massachusetts, perfetti sconosciuti altrove. È stato riedito in digitale un’unica volta, nel 2003, ma fossi in voi cercherei un originale in vinile, sfizio che non vi costerà più di una trentina di euro. Io la mia copia, completa di poster (mi raccomando!), non l’ho pagata nulla. Me la regalò nel 1986 o forse nell’87 Federico Guglielmi (insieme a questo disco qui): piccola consolazione per non avere potuto approfittare, non trovandomi in loco, della gigantesca svendita fallimentare di un noto negozio romano.

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Il giorno che John Kennedy morì e Billy perse la sua innocenza

John e Jacqueline Kennedy

Andavo proprio d’accordo con le donne lì alla Katie Gibbs, donne irlandesi cattoliche, e con tutte le cuoche, fino al giorno in cui spararono a John F. Kennedy e io esagerai un po’. Le trovai tutte ammucchiate in un angolo che piangevano. Dissi: ‘Andiamo, che succede? Non sarà una piccola sparatoria a scombinarci la cena!’. Mi ci volle del bello e del buono per farmele di nuovo amiche.” (Spalding Gray, Sesso e morte fino a 14 anni)

Sia stato l’uomo senza macchia dipinto da Oliver Stone nell’agiografico “JFK” o il gangster contro cui scaglia boccetta su boccetta di vetriolo James Ellroy, una cosa è certa: John Fitzgerald Kennedy ha esercitato un’influenza senza pari sull’immaginario americano (e di riflesso dell’Occidente tutto) degli anni ’60. Per come visse e per cosa rappresentò, tanto per cominciare: mai era stato eletto un presidente così giovane e mai prima di lui un cattolico, un non W.A.S.P., era entrato alla Casa Bianca. La sua carica di ottimismo e il suo appellarsi agli ideali, troppo spesso negletti, espressi dalla carta costituzionale statunitense, il suo appoggio alle lotte per i diritti civili, persino il semplice fatto che avesse una moglie maledettamente desiderabile e che fosse notoriamente un cacciatore di gonnelle rappresentarono per gli U.S.A uno stacco sconvolgente rispetto al grigiore dell’era di Eisenhower. Ma furono soprattutto le tragiche circostanze della sua morte a colpire al cuore la generazione dei baby boomers, che proprio allora si stava approssimando all’adolescenza, e a farne per sempre un’icona, il santino del sogno di un mondo migliore.

John Fitzgerald Kennedy morì un attimo prima che i Beatles conquistassero l’America (“All You Need Is Love” avrebbe potuto essere uno slogan perfetto per la sua seconda campagna presidenziale), un attimo prima che il rock’n’roll diventasse rock e assumesse, involontariamente ma non casualmente, potenti valenze politiche. La nazione hippie che manifesterà contro Johnson e Nixon si dimenticherà, convenientemente, che nella guerra del Vietnam gli Stati Uniti erano stati trascinati proprio da Kennedy.

Da quel fatale 22 novembre 1963 il mondo del rock non ha mai smesso di celebrare il presidente assassinato. Con effetti a volte involontariamente esilaranti (l’impagabile John Fitzgerald Kennedy dei Renegades), altre volte profondamente toccanti (He Was A Friend Of Mine dei Byrds, The Day John Kennedy Died di Lou Reed). Chi nel suo omaggio ha volutamente cercato l’effetto comico, cogliendo in pieno l’obiettivo, è stato Jim Carroll, che chi sa di rock ricorderà titolare negli anni ’80 di tre splendidi album, fra Lou Reed e Patti Smith, e che anche l’Italia ha di recente scoperto (meglio tardi che mai) nei panni di adolescente sensazionalmente dotato per la scrittura, grazie alla pubblicazione dei suoi diari dei primi ’60 (Jim entra nel campo di basket). Nel 1991 Carroll diede alle stampe, per i tipi della Giant (una sottomarca della Reprise), “Praying Mantis”, un disco registrato quasi interamente dal vivo e solo parlato il cui quarto d’ora più memorabile è rappresentato da un monologo intitolato The Loss Of American Innocence. È la narrazione di un episodio di “vita vissuta”, uno sfortunato esperimento nel campo del sesso fai-da-te, di un compagno d’infanzia del Nostro, tale Billy. Riassumendo ciò che non è riassumibile – ché bisogna sentire Carroll come tiene in pugno il pubblico – la storia è quella che segue. Al buon Billy, che va scoprendo le gioie della pugnetta, gli amici suggeriscono che qualche rivista con foto sconce può essere propedeutica a tale esercizio. Ma sono i primi anni ’60 e la pornografia non si trova a ogni angolo di strada nemmeno a New York, e poi Billy non vuole rischiare che la madre scopra giornali compromettenti. Il massimo che trova in casa è una foto, sul rispettabilissimo “Time Magazine”, di Barbra Streisand in bikini, il davanzale particolarmente prominente, e con quella decide di aggiustarsi. Il secondo consiglio dei soliti amici è decisamente più perfido: pare (sembra, si dice) che due fettine di filetto di vitello accostate riproducano particolarmente bene le parti intime di una ragazza. Facendola breve: un bel giorno (indovinate quale), Billy scopre in frigo una confezione di bistecche di quelle che si possono aprire e richiudere senza rompersi e, in assenza della madre, si accomoda sulla tazza, fettine farcite in una mano, “Time Magazine” nell’altra. Naturalmente, mammà rientra in anticipo e comincia a mettere a posto la spesa. Il rumore che fa in cucina un po’ disturba la concentrazione di Billy, ma la faccenda si sta facendo piacevole e dunque il nostro eroe prosegue con foga il dolce su e giù. Senonché… La madre accende la TV. Billy la sente che si precipita ad alzare il volume. Sempre più innervosito, la ascolta gridare e piangere. E un attimo dopo la porta del bagno si spalanca: “Hanno sparato a John Kennedy a Dallas, Billy! Pare sia morto. O mioddio! Che stai facendo!?”. Il seguito potete immaginarlo: il povero Billy con in mano due filetti di cui non sa più cosa fare e la madre che si aggira per casa ripetendo ossessivamente “sono accadute due cose tremende oggi, una alla mia famiglia e una alla nazione” e dando spietatamente conto al reprobo dei bollettini medici. Fino all’annuncio finale: “È morto, è ufficiale”.

E Carroll conclude, ineffabilmente: “Molti dicono che l’America ha perso la sua innocenza il giorno che John Fitzgerald Kennedy è stato assassinato. Quello che io so per certo è che il mio amico Billy perse la sua innocenza quel giorno.”.

Scritto per il numero 2 di “Magic Fuzz”, estate 1996. Inedito.

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Jonathan Wilson – Fanfare (Bella Union)

Jonathan Wilson - Fanfare

Un disco di altri tempi a partire da questo: che in un’epoca di musica cotta, mangiata, digerita, espulsa e dimenticata, con un attention span medio che non supera i primi due minuti di un video su YouTube, il secondo oppure terzo album (dipende se si conta “Frankie Ray” e io non lo conto) di Jonathan Wilson domanda concentrazione. La esige. Al di là di una durata da doppio d’antan che è poi la stessa – ballano pochi secondi – di un predecessore, “Gentle Spirit”, che parve in ogni accezione monumentale all’apparire e  improvvisamente nel ricordo si trasforma, quasi un esercizio di economia e concisione quando oltre al minutaggio (settantotto e rotti) risulta identico pure il numero dei brani in scaletta (tredici). Ma è un fatto che lì succedevano meno cose (e già ne succedevano tante) di quante ne accadano nell’ancora più ambizioso seguito: lavoro insieme impossibilmente denso e sfuggente, dalla messa a fuoco costantemente cangiante e talvolta, e a più riprese, all’interno della medesima traccia. Non illudetevi di coglierne a un primo sguardo, o a un decimo, il disegno d’assieme. Io e “Fanfare” sono due mesi che ci frequentiamo. All’inizio c’è stata qualche incomprensione, ma oggi è amore.

Laddove per “Gentle Spirit” fu colpo di fulmine, con questo nuovo disco l’approccio si è rivelato ai limiti del problematico. È che fra un cameo di una leggenda e un altro – David Crosby, Graham Nash e Jackson Browne presenziano fisicamente, Roy Harper ha offerto un apporto autoriale – tutto pare troppo, ogni pezzo uno stratificarsi e un intrecciarsi di idee da cui altri di pezzi ne avrebbero cavati dai due ai cinque, per non dire di arrangiamenti spesso sontuosi oltre e prima che inafferrabili. Facilmente si sarebbe potuto perdere il filo e l’impressione, fermandosi ai primi ascolti, sarebbe quella. Non arrendendosi – a sollecitare all’ostinazione è non solo il rispetto per chi già ha confezionato uno dei pochi capolavori veri del nuovo secolo ma pure la presenza di quei due o tre brani che catturano subito – si arriva a concludere che no, che se nei labirinti di “Fanfare” il visitatore può certamente patire un senso di disorientamento l’architetto ha sempre avuto contezza di destinazione e percorso migliore – non necessariamente il più lineare e anzi di rado – per giungervi. L’epicità dal sommesso al dilagante di All The Way Down ideale chiusura del cerchio aperto da una traccia omonima che con un titolo così non ci si sarebbe potuto attendere sobria. Non lo è.

Sono forse gli episodi nei quali la fervida immaginazione wilsoniana va più vicina nel contempo a deragliare e a costringersi in uno stereotipo di Americana colta post-Van Dyke Parks. Altrove l’estro ha briglia più sciolta: galoppa nei saliscendi dal pigro al vertiginoso di una Dear Friend che si presenta da squisito valzer, trotta sulle trame di chitarra hawaiiana e tastiera chiesastica di Moses Pain, adeguatamente si imbizzarrisce in una Illumination che parte che più Neil Young elettrico non si potrebbe e arriva Crosby. Tornando sui suoi passi, dalle parti di una (meravigliosa) Cecil Taylor che si approssima a ricreare la magia di “If I Could Only Remember My Name” come l’autore stesso mai. Incantesimi più spicci e nondimeno graditi (essendo quelli che inducono a non mollare il colpo, a insistere): il folk-pop chitarre alla Byrds e organo alla Dylan Love To Love, il John Lennon ricreato da Lowell George di Future Vision (ove si dimostra che quando vuole Wilson sa essere epidermico restando geniale), il funk elegante ma mai lezioso di Fazon (che però era dei Sopwith Camel, non vale). Pregi e difetti di un album che magari non tallonerà “Gentle Spirit” negli elenchi dei classici del Duemila ma ne è comunque degno successore potrebbero essere esemplificati da Lovestrong, unione di opposti – la propensione alla jam dei Grateful Dead, il lavorare di cesello fino a un’algida perfezione dei Pink Floyd di “Dark Side Of The Moon” – che a pochi potrebbe venire in mente di conciliare.

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Doug Sahm, il Sir Douglas Quintet e oltre: fino all’ultimo respiro

I Texas Tornados mi tengono talmente impegnato che non ho più il tempo di farmi le canne!”: così Doug Sahm a un amico giornalista pochi mesi prima che un infarto lo stroncasse, il 18 novembre 1999. Un uomo così indaffarato a vivere che deve forse ancora accorgersi di essere morto.

Con il figlio Shawn

Con quel poco di fede nell’aldilà che ho, Doug Sahm da quelle parti mi piace immaginarlo come nella foto sul retro di copertina di quello squisito “And Band” che fu il suo esordio da solista: sorridente e circondato da una folla di altrettanto ilari sodali (guardate Dylan come se la ride, seminascosto proprio dietro il nostro idolo). Hanno appena registrato una canzone e stanno per registrarne un’altra. Che sarà blues o jazz o country o tex-mex o errebì o garage o rock’n’roll o beat o cajun o psichedelica, una o più di queste cose e in ogni caso inconfondibilmente una canzone di Doug Sahm. Un grande a tal punto grande che quando sciolse il Sir Douglas Quintet, e cambiò casa discografica, la vecchia etichetta poté compilare con gli scarti rimasti nei cassetti un album fantastico come “Rough Edges”. Fra coloro che nell’ultimo mezzo secolo hanno calcato i palcoscenici del rock, quanta gente in grado di permettersi tanto? Uno zero virgola qualcosa? Citofonare a casa Costello se non vi fidate di me, essendo l’Elvis uno che a inizio carriera in certi momenti fu mimetico nel suo richiamarsi a questo classe 1941 di San Antonio, Texas. Un posto dove – cito una At The Crossroads sempre citata quando si scrive di costui e tranquillamente mi accodo – non puoi proprio vivere “if you don’t have a lot of soul”. Doug Sahm non aveva problemi in tal senso, anche se a un certo punto dovette rifugiarsi in California e molto più avanti si ritroverà a soggiornare per qualche anno in Svezia, lì riverito per il genio che era. Eppure è un rimosso dalle storie del rock, che comunque mai gli hanno dedicato più di qualche riga, e posso ragionevolmente supporre che siano pochi fra gli under 35 che mi stanno leggendo ad averlo quantomeno sentito nominare. Pronti a farvi convertire?

Mi rendo conto di come l’acquisto sia impegnativo (un buon centinaio gli euri richiesti) ma – fresco di distribuzione sul mercato italiano da parte di Universal, benché sia datato 2005 – il primo sacro testo sul quale studiare questo misconosciuto eroe è da qualche tempo un box, quintuplo addirittura: griffato Hip-O Select, attribuito a Doug Sahm & The Sir Douglas Quintet, esplicativamente intitolato “The Complete Mercury Recordings”. Splendido oggetto – copertina telata, note adeguate, belle foto, un design che riproduce i vecchi contenitori per 78 giri – e il contenuto è anche meglio. Fidatevi e, se vi volete bene, non accontentatevi di nulla di meno. Lo definirei un ottimo punto… di partenza.

Ci credereste? Cinquantatré gli anni nello showbiz per il buon Doug, compositore, arrangiatore, interprete e chitarrista che ci ha lasciati quando di anni ne aveva cinquantotto (e dodici giorni). Figlio di immigrati dalla Germania, esordiva per così dire cinquenne cantando Teardrops In My Heart in un programma della locale KMAC. A undici anni siederà sulle ginocchia di un devastato Hank Williams poche settimane prima della drammatica dipartita di costui. A quattordici darà un chiaro indizio di un futuro da gioioso iconoclasta rifiutandosi di comparire al Grand Ol’Opry e pubblicherà il primo singolo. Rovesciando l’usuale percorso, era solo tre anni più tardi che dava vita al  primo gruppo, tali Pharoahs. I primi ’60 erano costellati di 45 giri di modesto successo a livello regionale. La svolta arrivava nel 1964, per merito di una strampalata figura di discografico tuttofare del posto, Huey P. Meaux, che – narra la leggenda – in una notte di solitari ragionamenti da ubriaco notava una certa somiglianza, per non dire un’identità, fra le scansioni ritmiche dei Beatles e quelle del cajun. Così come Sam Phillips un tondo decennio prima  aveva capito che per sfondare gli sarebbe servito un bianco capace di cantare come i neri, Meaux si persuadeva che la gloria e un bel po’ di dollari erano a portata di mano se fosse riuscito, nel pieno della British Invasion, a fare passare per inglese un gruppo texano. Detto e fatto: ecco a voi – l’innocente truffa partiva dal nome – il Sir Douglas Quintet. In questa sua prima incarnazione formato, con Doug Sahm, da Augie Meyers  – da qui in poi un complice pressoché immancabile – all’organo, Frank Morin al sax, Jack Barber al basso, Johnny Perez alla batteria. Poteva funzionare, fintanto che le foto promozionali riuscivano in qualche modo a celare la chiara discendenza chicana di Perez. Poteva funzionare, fintanto che Sahm si limitava a cantare, riuscendo a nascondere lo spesso accento texano evidente non appena parlava. E dopo la falsa partenza di Sugar Bee funzionava, grazie a una canzone irresistibile come She’s About A Mover: beat spigliato, organo cigolante in anticipo su Seeds e Question Mark & The Mysterians. Dritta nei Top 20 USA e qualche mese dopo The Rains Came faceva quasi il bis entrando nei Top 40, favoloso inizio di carriera che commercialmente non avrebbe avuto seguito che con Mendocino, nel ’69, l’unico altro hit del Quintetto. Il successo di She’s About A Mover portava seco due conseguenze: un primo LP, su Tribe, bizzarramente chiamato “The Best Of” e da non confondere con due successive raccolte, una su Takoma e una su Mercury, intitolate allo stesso modo (arduo comunque sbagliarsi: è da un pezzo che è irreperibile); un tour europeo ed era allora che il Sir Douglas Quintet cominciava a scoprire che la sua America era su questa sponda dell’Atlantico. Brutta sorpresa al rientro in Texas, dove la vita per i capelloni a quel tempo era dura sul serio. All’aeroporto di Corpus Christi i cinque venivano arrestati per possesso di marijuana (un quantitativo ridicolo) e all’uscita dal carcere il leader decideva che l’aria del paesello non faceva più per lui. Che la libertaria California era al contrario una terra promessa. Scioglieva il gruppo e si trasferiva, imitato dal solo Morin. Una nuova incarnazione del complesso prendeva a suonare regolarmente nella Bay Area, mischiandosi alla scena psichedelica in sboccio. Non troverà uno sbocco discografico che nel 1968 ed è da qui che parte la storia raccontata nel box succitato, un’integrale delle incisioni Mercury integrale sul serio, siccome mette in fila non soltanto i sei album realizzati per quella casa dalla banda Douglas ma pure un EP con traduzioni in spagnolo di alcuni cavalli di battaglia, le produzioni di Doug Sahm per Roy Head e Junior Parker e – scelta sfiziosa – un intero CD con le versioni in mono degli undici singoli pubblicati fra il ’68 e il ’72.

Tutt’altro che un brutto disco, “Sir Douglas Quintet + 2 = Honkey Blues”, del luglio 1968, è però poco rappresentativo di quello che sarà uno stile peculiarissimo. Svaria meno degli LP successivi, parcheggiando dalle parti di un latin rock pregno di jazz e appena inacidato, propende alla jam senza concederle lo spazio necessario – fa eccezione la strascicata Whole Lotta Peace Of Mind, nettamente la canzone migliore – affinché si sviluppi. Si sente la mancanza di Augie Meyers e non rimedia la ricca sezione fiati. Sempre meglio del 99% della discografia dei Chicago e del 90% di quelle di Santana e Blood, Sweat & Tears, ognimmodo. Qualche mese e Sahm convince Meyers e Perez a raggiungerlo in California, nel Quintetto ci sono di nuovo quattro dei membri originali e improvvisamente tutto sembra andare a posto. È subito magia. “Mendocino”, dato alle stampe nel marzo ’69, andrebbe ricordato per la pietra miliare che è in toto, mica soltanto per la stupenda canzonetta (no, se non lo sapete nemmeno sotto tortura vi rivelerò chi la rifece in italiano) che lo battezza e inaugura. Torna She’s About A Mover, freschezza intatta e riammodernata da uno schizzato assolo di elettrica distorta. Si iscrivono all’elenco dei classici come minimo l’accorata I Don’t Want, un’evocativa At The Crossroads in cui Meyers letteralmente impazza, l’inno Texas Me. È una lista che in “Together After Five” – a mio giudizio il capolavoro dei ragazzi, ma c’è chi preferisce “The Return Of Doug Saldaña” – si allunga fino a comprendere poco meno che l’intero programma, superlativi vertici l’incalzante Nuevo Laredo e il jump T-Bone Shuffle, una struggente I Don’t Want To Go Home e il valzerino dylaniano Seguin.

Che tempi! Bastano quattordici mesi a Doug Sahm e soci – “Together…” è del dicembre 1969, “1+1+1=4” del maggio seguente – per mettere in fila tre LP da annali, performance degna dei coevi e assai più fortunati Creedence Clearwater Revival. Ecco una Don’t Bug Me funkissima, ecco il country ispanico di Be Real, ecco il trip in sedicesimo di Catch The Man On The Rise. Al confronto per “The Return…” toccherà attendere un’eternità, tredici mesi premiati fra il resto dall’esuberante hippismo da border di Preach What You Live, Live What You Preach, dall’umoristico rock’n’roll di She’s Hugging You, But She’s Looking At Me, dalla rilassata invocazione di Keep Your Soul, dall’alata Stoned Faces Don’t Lie, dal blueseggiare di Wasted Days, Wasted Nights.

Non c’è una vera ragione (non le vendite modeste) alla base dello scioglimento del Sir Douglas Quintet nel 1972, sempre che di scioglimento si possa parlare visto che i musicisti incroceranno frequentemente le loro strade e una reunion frutterà diversi (e non disprezzabili) album nella prima metà degli ’80. È che a Doug ha preso la nostalgia per il Texas e non tutti sono disposti a seguirlo a casa. È che un gruppo non basta più a contenerne la creatività. Ci regalerà musica coi fiocchi sino all’ultimo respiro.

Con Bob Dylan

Da solo, sempre in compagnia 

Esauritosi il contratto con la Mercury, tornato in Texas, sciolto il Quintetto, il nostro eroe firma per la Atlantic e piazza subito, a inizio 1973, un colpo magistrale con “Doug Sahm And Band”, forte della collaborazione del solito Meyers, di uno straordinario schieramento di ospiti che include Flaco Jimenez, Dr. John e Bob Dylan (che regala l’inedita Wallflower) e di un piccolo hit quale (Is Anybody Going To) San Antone. Si gira in prevalenza  dalle parti di un country moderatamente sudista e il disco è ricordato come uno dei classici nell’ambito. “Texas Tornado” arriva entro l’anno ed è appena meno riuscito, così come “Groover’s Paradise” del ’74. A partire dal 1981 e fino all’85 le uscite solistiche lasciano spazio a quelle del riformato Sir Douglas Quintet, apprezzato forse più in epoca new wave (Joe “King” Carrasco un epigono smaccato) che nell’era psichedelica. L’ultima grande avventura a recare impresso il marchio dell’artista di San Antonio sono i Texas Tornados – supergruppo con dentro il solito Meyers, Flaco Jimenez e Freddy Fender – che nei ’90 piazzano diversi brani nella classifica country. Sembrerebbe che con trent’anni di ritardo Doug Sahm sia finalmente premiato da un successo non passeggero quando il cuore – infame – lo tradisce.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.638, settembre 2007.

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Mezzo milione di volte grazie

Venerato Maestro Oppure si è appena lasciato alle spalle il mezzo milione di pagine viste (conteggio che non include i lettori che ne ricevono gli aggiornamenti in automatico). Per essere un insignificante “blogghino” (cit.) non se la sta cavando troppo male, via…

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Emozioni da poco (2): Buddy Holly, Eddie Cochran, Gene Vincent, Jerry Lee Lewis

Nel 1986 se volevi cominciare a imparare i fondamentali (tipo sapere distinguere gli anni ’50 dai ’60) in materia di rock’n’roll, e volevi farlo spendendo poco, i dischi da comprare erano questi qui.

Bassifondi 2

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