Se c’è più gusto a sudarsela, la pagnotta, nessuno deve essersi mai goduto un lauto pasto quanto Bill Withers. Per perseveranza e sacrifici, oltre che per talento, pochi hanno meritato come lui di salire sul tetto del mondo e ancora meno hanno avuto la saggezza di scenderne, loro sponte, al momento giusto. Il prossimo 4 luglio compirà settant’anni e ne saranno trascorsi ventitre dall’uscita del suo ultimo album non antologico. La sua carriera discografica in tutto ne durò quindici. Altri numeri? Tredici gli anni che aveva quando il padre minatore moriva, lasciando la numerosa famiglia ancora più povera di quanto non fosse mai stata e dunque un po’ oltre l’immaginabile. A diciassette salutava la natìa West Virginia e si arruolava nella marina militare, dalla quale si sarebbe congedato quasi ventisettenne. I successivi cinque anni li trascorrerà di giorno assemblando gabinetti (sempre meglio che pulirli, no?) alla catena di montaggio della Boeing, la notte esibendosi nei peggio bar di Los Angeles. Con i primi due singoli e l’album d’esordio alti e saldi nella graduatoria R&B (il debutto a 45 giri altissimo pure in quella generalista) per qualche mese nell’anno di grazia per davvero 1971 si rifiuterà di lasciare il lavoro in fabbrica, convinto che il successo si sarebbe rivelato effimero. Svariati milioni di diritti d’autore dopo per la sola Ain’t No Sunshine, una delle canzoni più coverizzate e in seguito una delle più campionate di sempre, probabile che se la rida ancora, come nella bella foto sul retro di copertina di “Just As I Am”, per essersi sbagliato tanto clamorosamente. Bill Withers è più di un genio: è un eroe.
Non si finisce mai di imparare e per fortuna. Sai la noia, se no? Però a scoprire di punto in bianco e per caso, dopo trent’anni che faccio girare dischi, che razza di capolavoro sia il suddetto LP quasi ci sono rimasto male. Come potevo non avere una conoscenza diretta – a parte tre canzoni (un quarto del programma) incluse nel 2000 nella raccolta “Lean On Me” (un Columbia Legacy) – di un album di simile levatura? Mi sono trovato costretto a rimodellare una visione della storia del soul disegnata attraverso i decenni e l’ascolto di parecchie centinaia di dischi, e non a livello di minuzie. Insomma uno shock, sebbene piacevole. Ho cercato una giustificazione per la mia ignoranza e almeno non ho faticato a trovarla e più che valida. Fatto è che “Just As I Am” è rimasto per lunghissimo tempo fuori catalogo e quando ci è rientrato stabilmente una prima volta, nel 2005 (in precedenza una riedizione digitale vista solo in foto che lo accoppiava a “Still Bill”), bizzarramente lo ha fatto non come un normale CD ma in forma di dual disc. Mai incrociato e, mi fosse capitato, pur sapendo di cosa si trattava non l’avrei preso proprio per via dell’abominevole supporto. Mai gradito così tanto una ristampa – Speakers Corner – in santo e obsoleto vinile e, a meno di rivolgervi al mercato dei collezionisti, pure voi per averlo non avrete che queste due possibilità. Quale credete che vi consigli? L’immagine stereofonica è ineccepibile (una follia pasticciarla aggiungendo canali), i suoni sono magnifici per naturalezza, calore e colore, dettaglio. Finissima una filigrana che consente di assaporare ogni intarsio di arrangiamenti sofisticati quanto la scrittura, magistrale una dinamica che esalta l’elasticità e la fluidità di una ritmica che al basso vede ora Donald “Duck” Dunn e ora Chris Ethridge e alternarsi alla batteria Al Jackson e Jim Keltner. Impressionati? In questo LP figurano anche Booker T. Jones, che ne curò pure – assai sapientemente – la regia, e Stephen Stills. Particolari di scarsa se non nessuna rilevanza a fronte di una scrittura stellare e originalissima.
Non conoscendo “Just As I Am”, del suo artefice mi ero formato un’opinione in base a quel paio di decine di canzoni mandate in classifica nell’arco di un quindicennio. Mi aveva sempre dato l’idea di un Bobby Womack bravo ma ovviamente minore rispetto al modello. Sfacciato nella seduzione melodica, raffinato nelle orchestrazioni ma talvolta un po’ eccessivo, con dunque un rischio di patinatura costantemente in agguato. Levigato nella sua funkitudine, abile nell’inserire qui e là un tocco di jazz. Un valente intrattenitore occasionalmente capace di un guizzo di poesia autentica, ma più roba da lounge, da discoteca che non da juke joint. Che equivoco. Che madornale sottovalutazione e dire che, a parte una Ain’t No Sunshine che naturalmente non vi racconto perché vorrebbe dire insultarvi, almeno con Harlem e Grandma’s Hands avevo familiarità. Ma fuori contesto mi era sfuggito il loro racchiudere tutto il Gil Scott-Heron che sarà, altro che Womack o – peggio – Luther Vandross. Sono i primi tre brani che sfilano nel disco. Dopo, migliora. Con gli incroci dolcemente stordenti di chitarra acustica e organo di Sweet Wanomi, con una resa esaltantemente ed esultantemente funk della Everybody’s Talkin’ di Fred Neil, con una Do It Good che parte marziale e arriva festante. È la prima facciata. La seconda contorna la più peculiare Let It Be mai uditasi (in generale una delle più ardite rivisitazioni beatlesiane di sempre e chiunque) con la solennità al limitare del liturgico di Hope She’ll Be Happier, una I’m Her Daddy rotolante e slanciata, una Moanin’ And Groanin’ che fa sistemare nella stessa frase le parole “eleganza” e “tribale”, una sculettante Better Off Dead. La mia preferita è però In My Heart: così avrebbe suonato Nick Drake fosse nato a Memphis. Siete ancora qui?
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.289, aprile 2008. “Just As I Am” è stato poi nuovamente ristampato in digitale, nel 2012 su BBR.