Suicide: mai nessuno come loro

Suicide

Quando i Suicide vennero fuori da New York non c’era niente, zero. Suicide era il solo gruppo a New York City. Un anno dopo vennero le Dolls e i Ramones. Fummo noi a cominciare tutto. Sento che la situazione attuale è la stessa, non sta accadendo veramente nulla. Possono esserci un mucchio di gruppi in giro, ma non c’è spinta creativa. Sento che questo per i Suicide potrebbe essere il momento giusto per uscire nuovamente allo scoperto.

Parole di Alan Vega raccolte da un cronista del “New Musical Express” nel 1983, con il terzo e migliore degli album da solista del Nostro, “Saturn Strip”, da pochi mesi nei negozi e il figlio bastardo dei Suicide, il techno-pop, all’apice delle sue fortune commerciali. Il sodalizio con Martin Rev era stato sciolto poco più di due anni prima e, benché in musica le rimpatriate raramente siano fruttuose, rifondarlo sembrava essere una buona idea. Non lo fu. Nel 1984 i due si rimettevano insieme per un unico concerto all’ombra della Grande Mela, abortito dopo mezz’ora. Tre anni più tardi, con la carriera di Alan Vega a un punto morto, ci riprovarono con maggior convinzione tornando a calcare quei palchi europei sui quali al primo giro avevano rischiato (non per modo di dire) il linciaggio. Questa volta furono accolti con reverenza ma diedero di sé un ben triste spettacolo. Nel 1989 usciva per un’etichetta inglese il loro terzo e a tutt’oggi ultimo LP in studio, “A Way Of Life”, un lavoro di aurea mediocrità irredenta dalla produzione del solito Ric Ocasek. C’è qualcosa di più irritante dei dischi brutti: i dischi inutili.

1998: i Suicide ci riprovano. Scrivo queste righe all’indomani di due concerti al Garage di Londra dei quali non ho ancora letto resoconti. Forse il futuro più o meno immediato ci riserva un quarto album oppure no, sarà clemente. Sarò cinico, ma sulla carta mi stimola un minimo di più la collaborazione fra Alan Vega e i finnici Panasonic, titolari lo scorso anno di un lavoro, “Kulma”, a suo modo spiazzante quanto lo fu, oltre due decenni fa, l’esordio a 33 giri del duo newyorkese. Qualunque sviluppo abbia la ricostituzione dei Suicide una ricaduta positiva c’è comunque già stata, visto che dopo anni di ardua reperibilità è tornato nei negozi il loro primo, omonimo album, in una stampa perdipiù aumentata, nelle prime copie, da un secondo CD con registrazioni live del 1978, in parte istantanee di un’esibizione casalinga al CBGB’s e per il resto tratte da un celebre concerto a Bruxelles (già immortalato su un raro LP promozionale e su un flexi) in cui l’antagonismo con il pubblico, sempre alto, superò il livello di guardia.

Chi si accosta ai Suicide con orecchie vergini, salti i preliminari e passi subito all’atto. Sarà doloroso dapprincipio ma se, superato lo shock iniziale, piace, il contorno farà poi impazzire. Punti allora quei ventitré furenti minuti in Belgio. Apocalisse ed epifania sonica, due uomini soli alla ribalta e il mondo che li vuole morti. Urla e fischi e bottiglie infrante e sibilare di synth, minacce e sputi. There’s a riot going on, ossì, e quella che canta Alan Vega non è una canzone ma questa vita schifa e per questo fa saltare i nervi. Non basta. Vada al CD in studio e selezioni lì pure Frankie Teardrop, e provi ad arrivare fino alla fine, e un attimo prima a mettere in “repeat”. Ventuno anni dopo essere stata registrata e a forse un quarto di secolo da una prima dal vivo inimmaginabile, la storia dell’operaio Frankie che “è sposato e ha un bambino/e lavora in una fabbrica/lavora dalle sette alle cinque/cercando di sopravvivere” mozza ancora il fiato per esposizione – un recitativo isterico punteggiato da urla agghiaccianti e appoggiato a trame elettroniche che ricreano magistralmente l’atmosfera di alienazione della grande industria – e sviluppo narrativo – Frankie, che non riesce più a guadagnare abbastanza da sfamare la famiglia, un giorno prende un fucile, sopprime moglie e figlio e quindi si spara. “Siamo tutti Frankie”, ci ricorda Alan Vega. Non c’era mai stato un gruppo come i Suicide e mai più ci sarà.

Suicide 1

Cominciò tutto nel 1971 presso il Project Of Living Artists, parte sozza di Manhattan. Alan Vega, artista visuale (sua bizzarra specialità le sculture al neon), incontrò colà Martin Rev, pianista jazz con un debole per il bebop e in special modo per Thelonious Monk, qualche jam con Tony Williams (epocale batterista di Miles Davis) in curriculum e un gruppo di free jazz in pista. Dei Reverend B restò con Rev, una volta che questi fece comunella con il nuovo arrivato, soltanto il chitarrista, presto anch’egli dimissionario. Il gruppo nasceva con un nome provocatorio, Suicidio, e una formazione a due, voce e strumenti elettronici, se non inedita (c’era stato, sempre a New York, il precedente dei Silver Apples) assolutamente insolita. Nemmeno strumenti elettronici all’inizio, a dire il vero: Rev suonava un Farfisa in disarmo che non aveva soldi per far riparare. Nata in povertà e cresciuta nella più abbietta miseria la coppia fece comunque un bel po’ di rumore nella Big Apple underground con canzoni come non se ne erano mai udite, abbeverate alle sorgenti apparentemente inconciliabili del rockabilly e del minimalismo (con la loureediana “Metal Machine Music” come modello ultimo), e spettacoli di una violenza stoogesiana, sia sopra che sotto il palco.

Pericolosi fino a essere immaneggiabili, i Suicide furono non a caso l’ultimo gruppo della nuova onda newyorkese a rimediare un contratto discografico. Lo ottennero quando sulla piazza non c’era rimasto nessun altro e per un’etichetta indipendente, la Red Star dell’ex-manager delle New York Dolls Marthy Thau. Prodotto dallo stesso Thau e da Craig Leon, il primo 33 giri del duo vedeva la luce nel 1977. Fanno da contorno ai 10’24” della lacrima di Frankie sei brani che oscillano fra una lettura iconoclasta della tradizione del rock (il rockabilly cibernetico di Ghost Rider e Johnny) e ipotesi di una sua nuova sintassi (Rocket U.S.A., Girl), erotismo (Cheree) ed elegia (Che). Nulla sarà più lo stesso dopo questo disco, nemmeno i Suicide, che l’anno dopo, in tour in Gran Bretagna e nell’Europa continentale come spalla per Clash ed Elvis Costello se la vedranno parecchio brutta. Ma questo si era già capito, credo, e Alan Vega è uno che non si è mai tirato indietro: novello Iggy Pop, eccolo aggirarsi per il palco a torso nudo e non di rado sanguinante, o in giaccone di pelle nera alla Gene Vincent, una catena di bicicletta roteante in mano, corpo contundente con cui offendere muri o spettatori con disposizione non dialettica al confronto o al contrario apatici. A Berlino nel 1979 aggredì fisicamente, senza sapere con chi aveva a che fare, Ralf Hütter e Florian Schneider, vale a dire i Kraftwerk, con Lester Bangs (che glieli aveva fatti conoscere) gli ammiratori più entusiasti dei Suicide che mai ci siano stati.

Che il primo Suicide vendette poco poco, non stupisce. Viceversa sorprende ancora la scarsa presa commerciale del suo successore, intitolato “Alan Vega-Martin Rev”, datato 1980, uscito per i tipi della Ze di Michael Zihlka e superbamente prodotto da Ric Ocasek dei Cars. Da lì a non molto D.A.F, Soft Cell (Tainted Love è del 1981) e Orchestral Manoeuvres In The Dark replicandone la formula sbancheranno le classifiche. Promozione insufficiente? Destino cinico e baro? A noi resta un LP di splendido pop elettronico, qui perversamente romantico (Sweetheart), altrove solenne (Radiation), più spesso irresistibilmente ritmato e finanche sbarazzino (Diamonds, Fur Coat, Champagne).

Cercatelo. E  cercatevi anche Dream Baby Dream, la più bella serenata sintetica di sempre, passo d’addio a 45 giri (formato 12”) di una storia che sarebbe dovuta restare un atto unico: si può essere rivoluzionari una volta sola nella vita. E infine “Saturn Strip”, perfetta mediazione, complice di nuovo Ocasek, fra il rockabilly postmoderno dei suoi   predecessori “Alan Vega” e “Collision Drive”  (eccellenti) e i Suicide del secondo album. Non si trova facilmente e non l’ho mai visto su CD, ma vale il prezzo che vi chiederanno. I due lavori di Martin Rev, un EP omonimo e “Clouds Of Glory” sono irrilevanti e comunque non li si incrocia quasi mai. Evitate qualunque uscita di Alan Vega posteriore al 1983 e in particolar modo lo squallidamente ruffiano “Just A Million Dreams”: un disco irritante come pochi, ma non alla maniera di “Suicide”.

Pubblicato per la prima volta su “Rumore”, n.75, aprile 1998.

5 commenti

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5 risposte a “Suicide: mai nessuno come loro

  1. Giancarlo Turra

    E per fortuna che poi è uscito “American Supreme”… a me piacque e piace tuttora, stante l’evidenza che dovevano restare meravigliosa faccenda da un disco e stop. Il Maestro come lo vede?

  2. antonio

    non sapevo dell’aggressione ai Kraftwerk, come successe?

    • Ci ho pensato e ripensato ma i particolari esatti non li ricordo. Di fronte a un pubblico apatico Alan Vega aveva la simpatica abitudine di saltare giù dal palco e sollecitare una qualche reazione dal primo malcapitato. E i Kraftwerk quella sera erano in una delle prime file.

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