Un disco di altri tempi a partire da questo: che in un’epoca di musica cotta, mangiata, digerita, espulsa e dimenticata, con un attention span medio che non supera i primi due minuti di un video su YouTube, il secondo oppure terzo album (dipende se si conta “Frankie Ray” e io non lo conto) di Jonathan Wilson domanda concentrazione. La esige. Al di là di una durata da doppio d’antan che è poi la stessa – ballano pochi secondi – di un predecessore, “Gentle Spirit”, che parve in ogni accezione monumentale all’apparire e improvvisamente nel ricordo si trasforma, quasi un esercizio di economia e concisione quando oltre al minutaggio (settantotto e rotti) risulta identico pure il numero dei brani in scaletta (tredici). Ma è un fatto che lì succedevano meno cose (e già ne succedevano tante) di quante ne accadano nell’ancora più ambizioso seguito: lavoro insieme impossibilmente denso e sfuggente, dalla messa a fuoco costantemente cangiante e talvolta, e a più riprese, all’interno della medesima traccia. Non illudetevi di coglierne a un primo sguardo, o a un decimo, il disegno d’assieme. Io e “Fanfare” sono due mesi che ci frequentiamo. All’inizio c’è stata qualche incomprensione, ma oggi è amore.
Laddove per “Gentle Spirit” fu colpo di fulmine, con questo nuovo disco l’approccio si è rivelato ai limiti del problematico. È che fra un cameo di una leggenda e un altro – David Crosby, Graham Nash e Jackson Browne presenziano fisicamente, Roy Harper ha offerto un apporto autoriale – tutto pare troppo, ogni pezzo uno stratificarsi e un intrecciarsi di idee da cui altri di pezzi ne avrebbero cavati dai due ai cinque, per non dire di arrangiamenti spesso sontuosi oltre e prima che inafferrabili. Facilmente si sarebbe potuto perdere il filo e l’impressione, fermandosi ai primi ascolti, sarebbe quella. Non arrendendosi – a sollecitare all’ostinazione è non solo il rispetto per chi già ha confezionato uno dei pochi capolavori veri del nuovo secolo ma pure la presenza di quei due o tre brani che catturano subito – si arriva a concludere che no, che se nei labirinti di “Fanfare” il visitatore può certamente patire un senso di disorientamento l’architetto ha sempre avuto contezza di destinazione e percorso migliore – non necessariamente il più lineare e anzi di rado – per giungervi. L’epicità dal sommesso al dilagante di All The Way Down ideale chiusura del cerchio aperto da una traccia omonima che con un titolo così non ci si sarebbe potuto attendere sobria. Non lo è.
Sono forse gli episodi nei quali la fervida immaginazione wilsoniana va più vicina nel contempo a deragliare e a costringersi in uno stereotipo di Americana colta post-Van Dyke Parks. Altrove l’estro ha briglia più sciolta: galoppa nei saliscendi dal pigro al vertiginoso di una Dear Friend che si presenta da squisito valzer, trotta sulle trame di chitarra hawaiiana e tastiera chiesastica di Moses Pain, adeguatamente si imbizzarrisce in una Illumination che parte che più Neil Young elettrico non si potrebbe e arriva Crosby. Tornando sui suoi passi, dalle parti di una (meravigliosa) Cecil Taylor che si approssima a ricreare la magia di “If I Could Only Remember My Name” come l’autore stesso mai. Incantesimi più spicci e nondimeno graditi (essendo quelli che inducono a non mollare il colpo, a insistere): il folk-pop chitarre alla Byrds e organo alla Dylan Love To Love, il John Lennon ricreato da Lowell George di Future Vision (ove si dimostra che quando vuole Wilson sa essere epidermico restando geniale), il funk elegante ma mai lezioso di Fazon (che però era dei Sopwith Camel, non vale). Pregi e difetti di un album che magari non tallonerà “Gentle Spirit” negli elenchi dei classici del Duemila ma ne è comunque degno successore potrebbero essere esemplificati da Lovestrong, unione di opposti – la propensione alla jam dei Grateful Dead, il lavorare di cesello fino a un’algida perfezione dei Pink Floyd di “Dark Side Of The Moon” – che a pochi potrebbe venire in mente di conciliare.
decisamente sì.
il problema è che 7:15 è minutaggio insostenibile, mica è dark star. wilson è bravo, l’ho visto suonare di spalla a tom petty a lucca tra una serie di 40/50enni panzuti (mi ci metto anch’io), “guarda: i pink floyd!”, “toh, neil young!” e si sono tutti ben prediposti. sono quasi tentato di comprarne i dischi – li ho già scaricati – ma da qui ad ascoltarli…
Fortunati i miei studenti perché correggevo i loro compiti in classe la terza e quarta volta che l’ho ascoltato…
Bene…da quanto ne scrivi è un disco che abbisogna d’essere ruminato a lungo. Per quanto mi riguarda sono i dischi che preferisco. Pensa che un colosso come TAGO MAGO l’ho preso e ripreso per decenni prima d’apprezzarlo per l’enorme valore che ha.
Io ho avuto bisogno di ruminare anche Gentle Spirits… all’inizio non mi convinceva poi ho cominciato ad apprezzarlo sempre di più. Di Fanfare aspetto il vinile già ordinato per valutarlo meglio.
da ruminare. io l’ho preso sull’onda dell’entusiasmo per Gentle Spirit e dopo aver visto Wilson dal vivo. ancora non ci sono arrivato a capo, ma visto quanto c’ho messo ad apprezzare live/dead..pesno che le sensazioni sopra descritte siano comuni a molte persone che incontrano questo mammouth
Solo io in ”Dear Friend” sento chili e chili di ‘The end of the game’ di Green? Saluti.
Che ne pensi di Rare Birds? E’ indubbio il cambiamento e l’impressione di stare in mezzo tra una approccio più pop e uno più intimistico o comunque personale, la voglia di mantenere una propria originalità e nello stesso tempo il desiderio di aprirsi.
Temo e in qualche modo attendo il seguito a questo.
M’hanno persino regalato un biglietto del concerto dei Roger Waters a Lucca, che non avrei mai comprato (e qualche volta sono stato tentato di rivendere), e scopro che Jonathan suona in diversi concerti con lui e magari chissà suonasse anche in quel concerto. Non so, forse ormai sono solo carrozzoni e Jonathan ci suona solo per calvare la scena; probabilmente è così, anche se è indubbia l’influenza dei Pink sulle composizioni di Wilson. Qualche volta però mi domando se sia davvero la stessa persona o se queste anime si concilino sempre bene.
Però ecco diciamolo, a me questo Rare Birds piace pur nella diversità rispetto a Fanfare e soprattutto a Gentle Spirit.
Che ne pensi Eddy?
Non l’ho ancora ascoltato quanto basta per potere dare un giudizio ponderato. Di certo non mi è piaciuto quanto i predecessori.
Per me è la delusione massima del 2018. Poi magari col prossimo disco recupera, chi lo sa.