A mesi saranno vent’anni che la Allman Brothers Band è insieme – cioè: insieme di nuovo – e se è di reunion che si parla, e sorvolando sulle numerose e non tutte obbligate assenze che fanno sì che la formazione sia assai diversa da quella scolpita nel Grande Libro del Rock, devo dire che non me ne vengono in mente altre che siano durate tanto e, soprattutto, con una visibilità lontanamente paragonabile. Lungi dall’essere una faccenda per canuti nostalgici gli Allman in questa loro “second life” continuano a riempire teatri, palasport, stadi: posti davanti ai quali difficilmente appendi il cartello “sold out” se non hai una congrua percentuale di giovani nel tuo pubblico. Non se il tuo pubblico non è composto addirittura in maggioranza da gente che manco era nata quando davi alle stampe il primo album e bisogna risalire indietro nel tempo di vent’anni ancora. Fra le tradizionali attrazioni live del circuito nordamericano i Nostri hanno finito per rimpiazzare i Grateful Dead, benché da sempre si tratti di platee solo marginalmente contigue. Benché filosoficamente prima ancora che musicalmente, e nonostante tante radici in comune, si trattasse di esperienze opposte fino a essere antipodiche. Comunque certamente non è un caso che, dopo quel “Seven Turns” che nel 1990 sorprendeva assemblando il programma nettamente migliore dal giurassico “Brothers And Sisters”, di dischi in studio gli Allman ne abbiano pubblicato appena tre e di live una dozzina. D’altronde: è di un gruppo che prima di porre mano al 33 giri d’esordio perfezionò il suo sound con mesi filati di concerti che stiamo parlando. Un gruppo che entrava in un colpo nelle zone alte delle classifiche USA e nella storia della musica popolare del Novecento con un doppio dal vivo: “At Fillmore East”. C’è un singolo lettore che non sappia di cosa sto parlando? Devo averlo da poco prima di quando la gloriosa sigla tornò in pista. E una volta all’anno lo metto su e – una rarità assoluta! – per quell’ora e un quarto gli dedico un’attenzione esclusiva. Cerco di farmelo piacere sul serio. In due abbondanti decenni non ci sono ancora riuscito.
Chilometrico preambolo per arrivare a dire che sugli Allman Brothers ho opinioni decisamente eterodosse. Credo, e lo so che pochi saranno d’accordo, che esattamente come i Cream divennero famosi per la ragione sbagliata: per le estenuanti (per me: causa mancanza di quell’attitudine psichedelica che mi fa al contrario adorare i Dead) improvvisazioni; non per la capacità che pure avevano di distillare in brani relativamente succinti blues e soul, country, jazz e rock’n’roll. Idiomi che per ovvie ragioni – Macon, Georgia, la città che chiamavano casa: la stessa di Little Richard e Otis Redding – padroneggiavano con una naturalezza che il trio britannico non ebbe mai. Datemi tutta la vita la Whipping Post dell’omonimo debutto, cinque minuti e sedici secondi senza una nota più di quelle “giuste” e teneteveli voi, se li preferite, i ventidue e cinquantasei del Fillmore. Datemi tutta la vita le due facciate in studio di “Eat A Peach” e tenetevi le due in concerto e in particolare i quasi trentaquattro minuti (cazzo! neanche il Miles Davis coevo riusciva a restare interessante per trentaquattro minuti) di Mountain Jam. Ma proponetemi persino “Brothers And Sisters”, che a livello di scrittura non è proprio una roba dell’altro mondo e per quanto riguarda lo stile vira country, e ineditamente eccede in carineria, in cambio del doppio di cui sopra e un pensierino ce lo farò. Naturalmente, rifiuto la permuta fra i sette minuti della In Memory Of Elizabeth Reed inclusa in “Idlewild South” e i tredici della versione in scaletta al Fillmore.
Ecco: se con “At Fillmore East” flirto da più di vent’anni ma non mi sono mai avvicinato a concludere, con “Idlewild South” non dico che fu folle amore a primo ascolto ma il rapporto si è fatto presto solido ed è rimasto soddisfacente. Magari non me lo porterei sull’isola deserta, però sono contentissimo che sia nelle librerie e mi ha fatto piacere tornare a frequentarlo. Uscito in origine per Capricorn nel 1970, il secondo LP in studio del sestetto resterà l’ultimo a schierare la formazione-tipo, giacché il 29 ottobre 1971, due settimane dopo il superamento della soglia delle cinquecentomila copie vendute negli Stati Uniti dal live e a tre da quando avrebbe compiuto venticinque anni, il maggiore degli Allman, Duane, periva in un incidente motociclistico. Posso dirlo? Il chitarrista bianco più negro che ci sia mai stato. Immagino che i più conoscano il seguito della storia. Un anno e quindici giorni dopo e sulla medesima strada, a poche centinaia di metri, ad ammazzarsi in moto era il bassista Berry Oakley, lui pure non ancora venticinquenne. Primo lavoro registrato in larga parte senza Duane, “Eat A Peach” rimarrà l’ultimo a includere Oakley e logicamente nulla sarebbe più stato lo stesso. Ma in “Idlewild South” gli Allman ci sono tutti e in uno stato di grazia irripetibile. Praticamente una Experience con aggiunto un organista in una roboante Hoochie Coochie Man e il migliore concentrato concepibile di Profondo Sud in un resto di programma tutto autografo: da una Revival aromatizzata gospel a una Don’t Keep Me Wonderin’ che sculetta blues, per arrivare alla ballatona soul Please Call Home e a una Leave My Blues Alone che a dispetto del titolo funkeggia. Quando però i capolavori veri sono una Midnight Rider di pigra innodia e la già menzionata In Memory Of Elizabeth Reed, elegia turbinosa dal groove inarrestabile.
La vostra copia è usurata dai troppi passaggi? Non la sostituirei con un CD ma con la favolosa, recente ristampa in vinile di Mobile Fidelity: garantito che degli Allman Brothers così… vivi non li avete sentiti mai.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.298, febbraio 2009.
Effettivamente sono opinioni eterodosse. Non solo su “Idlewild South” (che secondo me è inferiore al primo omonimo e se la gioca con il debutto di Gregg Allman), ma anche su “Seven Turns” (“Good Clean Fun” è puro copia-incolla di “Long Live Rock ‘n’ Roll” dei Rainbow e la title-track è country stile “Brothers And Sisters”, non disprezzabile ma oggettivamente distante dal classico sound ABB), che a me pare inferiore all’ultimo, eccellente “Hittin’ The Note”. O forse sono eterodosse le mie, di opinioni.
eterodosse o meno sono opinioni intriganti. Pur continuando a preferire il live al Fillmore rispetto agli sforzi in studio devo dire che a volte mi è capitato di trovarlo pesante, estenuante, finanche noioso, cosa che non mi è mai successa con i Dead. Inoltre gli ABB “storici” avevano questo “difetto”: una scaletta pressochè immutabile, gira che ti rigira pur con tutte le jam (più tecniche ma decisamente meno fantasiose di quelle dei dead) i pezzi erano sempre i soliti. Cambieranno dopo il ritorno dell’89, e specialmente ora mescolano sempre più pezzi di altri artisti nelle loro scalette. Penso comunque che un bel giro d’ascolto al live del 31/12/73 (con garcia e kreutzman + boz scaggs) e a quello del 06/10/73 al JFK con i Dead valga ancora la pena. certo sono show, lunghetti….5 ore tonde tonde quello con i dead, ma se uno si attrezza…
Concordo inoltre con Orgio su Hittin the Note, decisamente buono, una vera sorpresa a parte l’orrenda copertina.
Condivido qualcosa, in modo particolare quel ”I Cream divennero famosi per la ragione sbagliata”. Dei Cream tenetevi tutto ma datemi il bootleg storico ”Steppin’ Out”.
Ore 17,43: Ar gabbio?
(Nel caso, “Mountain jam” a rotazione tutto il giorno dietro le sbarre. Nun te sarverebbe manco Dudù).
Io ho celebrato con l’eloquente (e, indovino, qui aborrita) “Decadence Dance” degli Extreme.