Good Rockin’ Tonight – L’educazione sentimentale del Boss

Il prossimo 14 gennaio Bruce Springsteen pubblicherà il suo diciottesimo album in studio, “High Hopes”. La copertina è terribile e sul disco le cattiverie già si sprecano, fomentate anche dal singolo che lo ha preceduto due giorni fa e che è la traccia che inaugura e battezza il lavoro: una cover degli Havalinas, una delle tre canzoni non firmate dal nostro uomo essendo le altre due riletture di Just Like Fire Would e Dream Baby Dream, che furono rispettivamente di Saints e Suicide. Mi è sembrata una buona scusa per ripescare un articolo che scrissi ben diciotto anni fa nel quale auspicavo che prima o poi Bruce pubblicasse una raccolta tutta di cover.

Bruce Springsteen 1973

Ricordava Springsteen in un’intervista del ’74: “Per diversi anni non ho avuto un giradischi. Più o meno da quando i miei si trasferirono ad ovest a quando sono venuto a New York. Di conseguenza, si può dire che io non abbia ascoltato davvero alcun album uscito dopo il 1967”. È lecito chiedersi, dunque, come sarebbe stata la musica del Nostro se avesse avuto quell’esposizione alla psichedelia (conosciuta solo per breve contatto diretto, al tempo del soggiorno californiano degli Steel Mill) e all’ondata di cantautori intimisti dei primi anni ’70, che invece non ebbe. Ma dopo averci riflettuto un po’ si giunge alla conclusione che probabilmente nulla sarebbe cambiato. Non – come qualcuno potrebbe pensare – per incompatibilità del Nostro con – per dire – i Quicksilver Messenger Service o James Taylor, giacché ha sempre dimostrato un eclettismo negli ascolti e un’apertura mentale notevoli, bensì perché nel ’67 (aveva allora diciotto anni) la sua formazione musicale era completata e tutta o quasi orientata verso suoni neri o dai neri fortemente influenzati, e non molta psichedelia e pochissimi cantautori saranno sensibili a quelle influenze. Soprattutto, perché l’arte di Springsteen è proustianamente volta alla ricerca/ricostruzione del tempo perduto e nella memoria nulla resta impresso indelebilmente come il primo giorno di scuola, una festa più speciale di altre, una gita o un litigio con i genitori, il primo bacio. E le canzoni che di tutto ciò sono state colonna sonora, inseguite alla radio, suonate su un impianto da poco o abbozzate, incespicando ed esaltandosi, sulla prima chitarra.

I musicisti possono essere divisi, grossomodo, in due categorie. Della prima fanno parte i Peter Buck (per chi è vissuto su un altro pianeta negli scorsi dieci anni: il chitarrista dei R.E.M.) e gli Elvis Costello: fans che sono diventati musicisti per caso. Gente con collezioni di dischi sterminate e una conoscenza del genere che suonano (ma non solo) enciclopedica. Gente che se l’intervistatore di turno cita un oscuro singolo che soltanto loro due conoscono e posseggono si illumina come un albero di Natale. Gente che per quell’altro singolo di quello stesso sconosciuto gruppetto, quello mancante all’appello, sarebbe pure disposta a commettere un reato o due. Permettetemi il paradosso: critici mancati.

Sono una minoranza costoro, e perdipiù esigua. Per quanto strano possa sembrare tanti musicisti non ascoltano musica che di rado e senza metodo, accendendo la radio o la TV o mettendo su i promo passati loro dalla casa discografica. Altri conoscono la scena in cui si muovono ma da lì non si scostano mai. Molti si sono fermati agli ascolti dei quindici anni, quelli che li spinsero a imbracciare uno strumento. A tutti difetta la curiosità di investigare a fondo su passato e presente, variamente giustificata, il più delle volte con l’aspirazione a una peraltro impossibile originalità, che l’ascolto di troppa musica d’altri comprometterebbe.

Bruce Springsteen non appartiene né alla prima schiera né tantomeno alla seconda, da cui lo distanziano assai l’interesse per l’opera altrui e la consapevolezza di suonare musica popolare, per la quale l’originalità è un falso problema. Cosciente di non inventare nulla, nello stesso tempo sa che ciò non lo sminuisce, perché perpetuare la tradizione in termini non di pura nostalgia equivale a mantenerla vitale e non è impresa da poco. Dalla prima lo separa invece un approccio alla musica più istintivo, vissuto con cuore e visceri prima che con la mente, che interviene semmai, per spiegare la passione, a posteriori. E se non è titolare di una ricca discoteca nondimeno il Nostro conosce benissimo le radici della sua arte e l’humus culturale in cui affondano. Può magari non possedere il disco che contiene una certa canzone, ma quella canzone l’ha fatta sua in altra, più profonda maniera, ascoltandola alla radio innumerevoli volte e poi suonandola in giro per il New Jersey o per il mondo.

Ecco, l’educazione musicale di Springsteen, dipanatasi attraverso le consuete quattro tappe, così può essere schematizzata: le canzoni ascoltate alla radio sono la scuola elementare; quelle stesse canzoni fatte proprie imparando a suonarle alla chitarra, le medie inferiori; ancora quelle canzoni suonate con un gruppo, il liceo; le nuove canzoni che a quelle si ispirano, l’università. Come sempre accade, avere una buona preparazione di base smussa le difficoltà di passaggio da un grado d’istruzione al successivo.

Per gli aspiranti a una laurea in rock’n’roll fra il ’58 e il ’69-’70 circa non vi era corso di studi migliore di quello offerto dalle radio americane in AM. Il giovane Bruce ne fece tesoro, innamorandosi via via di Elvis e del rock’n’roll più classico tutto, del sanguigno soul sudista di scuola Stax/Atlantic, di quello venato di pop della Motown e del suo controaltare, il pop venato di soul delle produzioni di Phil Spector, struggentemente adolescenziali. E poi dei gruppi della British Invasion e di quelli americani che da quel fenomeno furono ispirati. E infine di Dylan. Praticamente tutte le sue influenze ricadono in uno di questi cinque filoni: rock’n’roll dei primordi; soul e rhythm’n’blues; pop orchestrale; il rock inglese della prima metà dei ’60; Bob Dylan, che fa categoria a parte.

Lo si evince chiaramente – oltre che dall’ascolto dei suoi dischi e dalla lettura delle interviste, va da sé – dal chilometrico elenco di cover che Dave Marsh pone in appendice a Born To Run, biografia esemplare perché, al contrario della successiva Glory Days, non scade mai nell’agiografia e dipingendo un ritratto d’artista di straordinaria vivacità e accuratezza narra nel contempo un quarto di secolo di storia, non solo musicale ma anche sociale e politica, degli Stati Uniti, tanto da potere risultare avvincente persino per chi non abbia alcun interesse particolare per Springsteen. Sono canzoni, sovente, che il Boss ancora in erba suonò centinaia di volte nei set dei Castiles e degli Steel Mill, in licei, cinema, bar, e in quei club dove toccava fare dai due ai quattro concerti a notte (palestra durissima ma proficua quella dei club negli anni ’60: si pensi ai Beatles e ai loro soggiorni in quel di Amburgo), e sono poi passate nel sempre mutevole repertorio della E-Street Band. A volte presenti in scaletta una sera e basta, a volte in lista per intere tournée, quando non per anni, come è il caso del travolgente Detroit Medley, che metteva in sequenza alcuni successi rock’n’roll del biennio ’65-’66 di Mitch Ryder ed è immortalato nei solchi del triplo antologico di autori vari “No Nukes”.

È un gran peccato che Bruce non abbia mai confezionato un album a base di cover, magari proprio assemblando registrazioni dal vivo, e che soltanto una manciata di queste sia finita su vinile CBS: il succitato Detroit Medley; Santa Claus Is Coming To Town del binomio Crystals/Phil Spector; l’altro classico natalizio Merry Christmas Baby, della coppia Baxter/Moore; Chimes Of Freedom di Bob Dylan e This Land Is Our Land del di lui maestro Woody Guthrie; il formidabile funky War, che fu di Edwin Starr prima e dei Temptations poi; il rovente errebì Raise Your Hand, già di Eddie Floyd. Tutte rigorosamente in versioni live, come anche due “fuoriserie” come Jersey Girl di Tom Waits e Trapped di Jimmy Cliff. Il resto è affidato al ricordo di quanti hanno assistito ai concerti e, naturalmente, alle centinaia di LP “pirata” presenti sul mercato. Ma chissà, prima o poi…

Sarebbe invero cosa buona e giusta potere inserire negli scaffali, registrate finalmente come si deve, le canzoni che hanno plasmato infanzia e adolescenza del Nostro nelle versioni che ne ha dato dieci, quindici, vent’anni dopo. Che emozione sarebbe ascoltarlo ringraziare Elvis (Can’t Help Falling In Love, Follow That Dream, Good Rockin’ Tonight e tante altre) e Chuck Berry (troppi i titoli perché li si possa citare tutti), Little Richard (Lucille, Ready Teddy) ma anche Jerry Lee Lewis (High School Confidential) e Buddy Holly (Not Fade Away, Rave On); scoprirlo romanticissimo con Sam Cooke (Cupid, Soothe Me), Phil Spector (Baby I Love You, Be My Baby, Then She Kissed Me) e Ben E. King (Spanish Harlem) e danzerino con Wilson Pickett (In The Midnight Hour) e Martha And The Vandellas (Dancing In The Street). E ancora: sentirlo omaggiare giganti dell’altra sponda dell’Atlantico come i Rolling Stones (The Last Time, Street Fighting Man) e i Beatles (Twist And Shout), gli Animals (It’s My Life, We Gotta Get Out Of This Place), i Them (Gloria, Mystic Eyes), i Kinks (You Really Got Me) e gli Who (My Generation), e subito dopo ammirarlo mentre rilegge un gruppo americanissimo come i Creedence Clearwater Revival (Travellin’ Band, Who’ll Stop The Rain, Proud Mary, Fortunate Son) di quel John Fogerty che di Bruce frequentò, precedendolo di un paio di anni, le stesse classi. I soli affacciatisi alla ribalta fuori tempo massimo: Springsteen potè conoscerli perché, unici nel post-’67, si concentravano sui 45 giri piuttosto che sugli album, sulla tradizione rock’n’roll invece che sulla psichedelia dominante ed erano perfetti per radio e, soprattutto, autoradio.

Sarebbe proprio un bellissimo viaggio, alla ricerca del 4/4 perduto.

Pubblicato per la prima volta su “Satisfaction”, n.4, maggio 1995. In parte riutilizzato in Bruce Springsteen: strade di fuoco, Giunti, 1998.

5 commenti

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5 risposte a “Good Rockin’ Tonight – L’educazione sentimentale del Boss

  1. Gian Luigi Bona

    Mi piacciono molto le cover perché mettono alla prova le capacità interpretative di un artista, capacità che non vanno date per scontate. Si capisce moltissimo di un artista dalle cover che interpreta ma anche dalle scelte che opera.
    Ho un bootleg di sole cover di Bruce e l’audio è quello che è per cui un disco di sole cover per me sarebbe una bella sorpresa.

  2. Beta

    Sono un fan di springsteen e sempre lo sarò.
    Onestamente però, è dai tempi di “the rising” (the seeger session a parte) che non ascolto più Bruce. La vecchiaia non gli ha portato consiglio, e “l’errore” fatto con i due dischi consecutivi del 1992 gli è servito a poco.
    Mi ricordo un tuo libretto sul Boss, dove raccontavi che fu Landau a darci un taglio alle registrazioni di born to run. Perchè la mania di perfezionismo di Springsteen stava ritardando troppo l’uscita dell’album.
    Se Bruce avvesse ancora un pizzico di quella mania, da the rising (sempre seeger session a parte) ad ora avremmo forse un paio di ottimi album del nostro eroe (quello in uscita compreso).

  3. paolo scotto

    c’è del genio, forse.
    anche con una una cover dei saints (i saints!!!) che sarebbe valsa a chiunque uno statuto definitivo di coolness (vedi anzitempo johnny cash) riesce a far casino

  4. Indipendentemente da cosa pensi uno di Springsteen (e io ne penso bene), questo per me è uno degli articoli più completi che lei abbia scritto, Venerato Maestro.

    • alfonso

      Perfettamente d’accordo. Una spiegazione perfetta e concisa. Mi sa che VMO è l’unico in Italia ad aver capito e spiegato le profondissime radici nere della musica di Bruce, e la cruciale influenza delle produzioni di spector. E poi è scritto dannatamente bene. Da mandare a memoria.

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