
Quel che si dice un classico sin dalla copertina, istantanea di serenità domestica con la titolare del disco seduta su un davanzale in una stanza in penombra, apparentemente meno anni impressi sul volto che accenna un sorriso dei ventotto che aveva, maglione e jeans e posa che fa notare i piedi scalzi e davanti a lei su un cuscino un gatto altrettanto mollemente adagiato: a parte la strepitosa qualità delle canzoni, alcune delle quali erano già state delle hit nelle versioni di altri, un po’ dovette contribuire questo scatto (fateci caso: lei enigmatica come una novella Gioconda) alle fortune di un album che, pubblicato nel febbraio 1971, arrivava al primo posto della graduatoria di “Billboard” il 19 giugno e ci restava per quindici settimane. Trecentodue sarebbero state alla fine quelle di permanenza in classifica, quattordici milioni le copie vendute nei soli Stati Uniti in quei cinque anni e all’altezza del 1997 il Rolling Stone Book Of Women In Rock avrebbe aggiornato il conteggio a ventidue milioni. Trenta in tutto il mondo? Trentacinque? Ai Grammy del 1972 la King veniva premiata per il migliore LP, per la canzone dell’anno (You’ve Got A Friend), per l’incisione dell’anno (It’s Too Late), per la migliore esecuzione vocale pop femminile (Tapestry la canzone): altro record rimasto imbattuto. Molto dovette c’entrarci con un così clamoroso successo che il disco cogliesse benissimo (questione di istintiva sintonia, non progetto impostato a tavolino) l’atmosfera di ritorno al privato di quel passaggio di decennio, in disordinato ripiegamento le truppe hippie che avevano sognato un altro mondo possibile e parimenti in ritirata rabbiosa il movimento per i diritti civili, la tragedia del Vietnam all’acme, il Watergate non lontano ma prima Nixon sarebbe stato rieletto plebiscitariamente, alla faccia degli utopisti del rock. Contemporaneamente un sempreverde e una quintessenziale espressione della propria epoca, “Tapestry” pagherà il fio delle sue formidabili fortune non con l’ostracismo successivo della critica ma con la rimozione e per averne conferma cercate quante più liste vi riesce di “migliori album” e vedete in quante figura. È, come altri dischi che hanno venduto decine di milioni di copie, un grande rimosso ma, al contrario dei più fra quelli, senza meritarlo. È un mezzo decennio che viene rigettato, mica il secondo LP solistico di Carole Klein King. E vi pare giusto?
Confesso tuttavia di non essere io stesso senza peccato. Mai scritto una cattiva parola su questa artista e come avrei potuto? Essendo costei una che ha composto alcune delle canzoni più belle – e qui mi inginocchio prostrato dalla reverenza e appena li sussurro quei santi nomi – di Shirelles e Drifters, Everly Brothers e Animals, Byrds e Aretha Franklin. Però questo piccolo capolavoro l’ho per tantissimo tempo sottovalutato, considerando sempre la sua artefice in primo luogo una straordinaria autrice per altri, la coppia formata con il primo marito Gerry Goffin una delle più duttili e ispirate nella storia della canzone americana, e dopo, molto dopo una cantautrice valida, sì, ma volete mettere Joni Mitchell o Laura Nyro? L’acquisto qualche anno fa di un magnifico doppio CD – “A Natural Woman: The Ode Collection 1968-1976” – mi ha un poco fatto ricredere ma lì di “Tapestry”, sebbene vi sia contenuto integralmente e con i dodici brani nell’ordine giusto (tracce dalla quinta alla sedicesima sul primo compact), finisce per sfuggire quanto sia bene articolato, come abbia un suo peculiare respiro. C’è voluto l’arrivo a casa mia della sontuosa edizione in vinile Classic Records per farmici finalmente “entrare” e dire che mi sono accorto che lo conoscevo a memoria. Fa nondimeno un altro effetto essere introdotti come in origine dallo scintillante intreccio di pop ed errebì, rock(’n’roll) e jazz di I Feel The Earth Move e da lì, in un sapiente gioco di vuoti e pieni, impennate e rallentamenti, passare a una ballata romanticissima come So Far Away, da quella allo scampanellante pop di It’s Too Late e da lì a una Home Again che mostra un’evidente prossimità a Paul Simon, alla zompettante giostrina di Beautiful, allo spiritual laico di Way Over Yonder. Si gira il disco e… pretenderete mica che vi racconti You’ve Got A Friend? Irresistibile tormentone sul lato giusto della melensaggine che l’amico James Taylor (qui alla chitarra acustica) in un certo qual modo scippava a Carole perché era la sua versione (stava registrando a due passi da lì “Mud Slide Slim”) a sfondare per prima. Nel mezzo del cammin della facciata l’intensissima lettura dell’autrice (con lo stesso Taylor e Joni Mitchell ai cori) di quella Will You Love Me Tomorrow? già un numero uno per le Shirelles nel 1960, la King a malapena diciottenne. Come congedo un’asciuttissima (You Make Me Feel Like) A Natural Woman che se non vale l’interpretazione di Aretha è solamente perché quella sconfina nella trascendenza.
Non saprei dire se contò qualcosa per il suo successo, ma resta il fatto che dopo tutti questi anni “Tapestry” suona ancora benissimo, uno di quegli album da far girare per capire se un impianto è valido, incisione di un’essenzialità e un equilibrio mirabili che coglie ogni sfumatura della voce, fotografa il piano e gli archi con una nitidezza rara, fa sentire il legno e il metallo delle percussioni, colloca con precisione ogni esecutore in una plastica immagine sonora che presto svanisce e con il volume giusto puoi dimenticarti che stai ascoltando un disco: il complimento più grande, in materia di alta fedeltà.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.259, luglio/agosto 2005.
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