Sarà che un altro apparentemente indistruttibile ci lasciava proprio nella settimana in cui questo disco vedeva la luce. Sarà che lo scorso agosto è successo l’inconcepibile, quando il penultimo Iron Man vero del rock’n’roll ha dovuto interrompere uno spettacolo dopo poche canzoni, arrendendosi per la prima volta – e oltretutto in pubblico, e davanti alla classica platea oceanica da festival – agli oltraggi del tempo e agli effetti collaterali di una vita spericolata. Fatto è che il ventunesimo album in studio dei Motörhead sta collezionando recensioni fuori dal tradizionale ambito di riferimento della band come non accadeva da minimo vent’anni, fors’anche trenta. Tutte uniformemente elogiative, più o meno tutte con un retrogusto di elogio funebre che starà probabilmente solleticando il perverso sense of humour del destinatario di tante e tanto sperticate lodi, il sessantasettenne Ian Lemmy Kilmister. Registrato in febbraio e dunque, a dispetto del titolo, prima e non dopo lo shock procurato al líder máximo dallo scoprirsi fragile (della mortalità siamo consapevoli, non è quella che fa paura), il nuovo Motörhead non si distingue affatto in realtà, per come suona, dal paio di decine che lo hanno preceduto e come la maggior parte di essi – siamo onesti, su! – sarebbe passato inosservato presso certa stampa senza il prologo di cui sopra. Ma… qualitativamente?
Naturalmente non millanterò di avere ascoltato tutto quanto prodotto in precedenza da Lemmy e soci. Figurarsi. Non l’ho fatto più di chi ne ha scritto, per dire, su “Pitchfork”, che questi biker brutti, sporchi e cattivi non se li era mai filati e oggi improvvisamente li scopre e li sdogana presso la nazione hipster. Naturalmente, come ogni amante del rock degno di tal nome ho un culto per i loro primi quattro-cinque dischi e considero “No Sleep ’Til Hammersmith” uno dei più grandi live di sempre e chiunque. Però come i più fra i cultori di non stretta osservanza io pure ammetto di essermi fermato poco dopo “Iron Fist” – “Orgasmatron” non era male, via, e assaggiati a casa di amici “Bastards” e “Overnight Sensation” mi piacquero abbastanza da farmene restare in testa i titoli – e dunque di non essere in grado di collocare “Aftershock” in una scala qualitativa che, fatti salvi i classici, parta dalla metà degli ’80. È il miglior Motörhead da allora? Sa il cazzo. È un ottimo Motörhead, questo sì, fedele a uno stile inimitabile ma anche con un paio di pezzi abbastanza sorprendenti fra i quattordici che ne compongono il programma. Tipo Lost Woman Blues, che per essere una canzone dei Nostri è romantica forte e arriva a regalare una pausa quasi subito, dopo la serratissima cavalcata inaugurale di Heartbreaker (echi di Highway Star) e una Coup de grace ancora più incalzante e stentorea. Tipo Dust And Glass, che incastona una sorta di Layla ma come suonata dai Led Zeppelin fra una definitiva estremizzazione di Train Kept A Rollin’ chiamata Death Machine e quasi una piccola, novella Ace Of Spades di nome Going To Mexico. L’ultima canzone si chiama Paralyzed ed è ovviamente ipercinetica. Grandiosa come uscita di scena. Per ora, che avevate capito?
più che altro è bella la copertina….
Da rocchettaro quasi cinquantenne che ne ha sentite di tutti i colori, il loro live del 2011 l’ho archiviato come uno dei migliori in circolazione: potenti, tecnici, ancora grintosi il giusto, divertenti. La testa non la finiva di scuotersi. Chi vuole altro, ascolti altro senza sparlarne. Grazie per la recensione, misurata e degna del Venerato Maestro.
Con Aftershock mi si incasina la vita…… alzo troppo il volume, non resisto….. e la signora rompe le palle….Lost woman Blues. Bel articolo come sempre.