Nelle note di copertina originali, riportate sul retro di questa ristampa Jazz Track a seguire alcuni ricordi di Ray Ellis raccolti nel ’97 in occasione di quella che resta l’edizione definitiva (un Columbia Legacy) di “Lady In Satin”, Irving Townsend mette le mani avanti. Si fa una domanda e si dà delle risposte. È jazz? Certamente e per varie ragioni, essendo la prima che il fraseggio e i ricami attorno alla melodia qualificano come tale qualunque cosa canti la Holiday. Non è allora rilevante che qui la sua voce sia contornata da archi che “non ne alterano lo stile, semmai lo valorizzano”. E prosegue, con qualche ragione in più, lodando gli assoli di trombone qui di Urbie Green e là di J.J. Johnson e la tromba – squisita – di Mel Davis. Saluta sparandola enorme e però contandola giusta: “è il migliore album che abbia mai fatto”. Si può concordare, ma solo alla luce dell’illuminazione d’immenso che ebbe un giorno il responsabile delle pesanti orchestrazioni che tanti jazzofili aborrono ma proprio Lady Day volle, fortissimamente volle, ossia il succitato Ellis, scomparso di recente e quando si registrò, nel febbraio 1958, trentaquattrenne: “Finii per rendermi conto che non aveva importanza che questa o quella nota l’avesse cantata giusta o sbagliata. Se ascolti bene di note ‘sbagliate’ ce ne sono tantissime, ma cosa conta di fronte a un cuore messo a nudo?”. Ed è esattamente questo il punto.
Scrivendo su altre pagine di “Lady In Satin” ebbi qualche anno fa a definirlo “la più gloriosa fotografia di un fallimento che sia mai stata scattata”. Sono ancora d’accordo con me stesso. Sembra tutto sbagliato, dagli arrangiamenti grevi, fra archi che dilagano e cori a contorno quasi altrettanto eccessivi, alla scelta di un repertorio votato in prevalenza al sentimentalismo anche quando alle prese con autori nobili. Ma a impressionare in negativo dapprincipio è soprattutto la voce, indicibilmente sciupata dagli stravizi, un relitto dall’estensione drasticamente limitata di glorie irrimediabilmente passate. Roca, rugosa, traballante. Finché non cogli quanto colse Ellis ed è come se una diga cedesse, le emozioni tempesta, il dolore uno strazio mai provato ascoltando un disco. L’artista nata Eleonora Fagan travasando per intero in dodici canzoni il suo male di vivere già ci parlava dall’oltretomba, sapendo nell’intimo che lo avrebbe raggiunto presto. Ci lascerà da lì a diciassette mesi, quarantaquattrenne, avendo appena subito un ultimo oltraggio: arrestata con le accuse di sempre sul suo letto di morte, si spegneva con un poliziotto a sorvegliarne la stanza di ospedale.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.302, giugno 2009. Di più su Billie Holiday qui.