Archivi del mese: gennaio 2014

Le note sbagliate e il cuore a nudo di Billie Holiday

Billie Holiday - Lady in Satin

Nelle note di copertina originali, riportate sul retro di questa ristampa Jazz Track a seguire alcuni ricordi di Ray Ellis raccolti nel ’97 in occasione di quella che resta l’edizione definitiva (un Columbia Legacy) di “Lady In Satin”, Irving Townsend mette le mani avanti. Si fa una domanda e si dà delle risposte. È jazz? Certamente e per varie ragioni, essendo la prima che il fraseggio e i ricami attorno alla melodia qualificano come tale qualunque cosa canti la Holiday. Non è allora rilevante che qui la sua voce sia contornata da archi che “non ne alterano lo stile, semmai lo valorizzano”. E prosegue, con qualche ragione in più, lodando gli assoli di trombone qui di Urbie Green e là di J.J. Johnson e la tromba – squisita – di Mel Davis. Saluta sparandola enorme e però contandola giusta: “è il migliore album che abbia mai fatto”. Si può concordare, ma solo alla luce dell’illuminazione d’immenso che ebbe un giorno il responsabile delle pesanti orchestrazioni che tanti jazzofili aborrono ma proprio Lady Day volle, fortissimamente volle, ossia il succitato Ellis, scomparso di recente e quando si registrò, nel febbraio 1958, trentaquattrenne: “Finii per rendermi conto che non aveva importanza che questa o quella nota l’avesse cantata giusta o sbagliata. Se ascolti bene di note ‘sbagliate’ ce ne sono tantissime, ma cosa conta di fronte a un cuore messo a nudo?”. Ed è esattamente questo il punto.

Scrivendo su altre pagine di “Lady In Satin” ebbi qualche anno fa a definirlo “la più gloriosa fotografia di un fallimento che sia mai stata scattata”. Sono ancora d’accordo con me stesso. Sembra tutto sbagliato, dagli arrangiamenti grevi, fra archi che dilagano e cori a contorno quasi altrettanto eccessivi, alla scelta di un repertorio votato in prevalenza al sentimentalismo anche quando alle prese con autori nobili. Ma a impressionare in negativo dapprincipio è soprattutto la voce, indicibilmente sciupata dagli stravizi, un relitto dall’estensione drasticamente limitata di glorie irrimediabilmente passate. Roca, rugosa, traballante. Finché non cogli quanto colse Ellis ed è come se una diga cedesse, le emozioni tempesta, il dolore uno strazio mai provato ascoltando un disco. L’artista nata Eleonora Fagan travasando per intero in dodici canzoni il suo male di vivere già ci parlava dall’oltretomba, sapendo nell’intimo che lo avrebbe raggiunto presto. Ci lascerà da lì a diciassette mesi, quarantaquattrenne, avendo appena subito un ultimo oltraggio: arrestata con le accuse di sempre sul suo letto di morte, si spegneva con un poliziotto a sorvegliarne la stanza di ospedale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.302, giugno 2009. Di più su Billie Holiday qui.

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Pete Seeger (3 maggio 1919-27 gennaio 2014)

Figura controversa quella di Pete Seeger, che se n’è andato ieri alla bella età di novantaquattro anni. Quando già si apprestava a compierne ottantasette il mondo lo riscoprì all’improvviso grazie all’album-tributo di Bruce Springsteen “We Shall Overcome: The Seeger Sessions”. Dalla sera alla mattina, le sue raccolte nei negozi comprensibilmente si moltiplicavano. Mi capitava allora di recensirne una che mi pare resti fra le più valide.

Pete Seeger - Brothers & Sisters

Fino a poche settimane fa, non c’era niente da fare. Per quanto compagno di avventure di Woody Guthrie, punto di riferimento del primo Zimmie, autore di due delle canzoni più amate dai cultori dei Byrds, ossia The Bells Of Rhymney e Turn! Turn! Turn!, al popolo del rock Pete Seeger non stava  simpatico. Certo, chi è colpa del suo mal pianga se stesso, e se a Seeger si pensava come a un vecchio barbogio dogmatico era per l’atto inconsulto di cui a momenti si rese responsabile (non lo portò a compimento solo perché lo bloccarono a forza) al celeberrimo festival di Newport del 1965, quando cercò di troncare a colpi d’ascia i cavi che stavano permettendo a Bob Dylan di svoltare elettrico rivoluzionando il rock e facendo gridare al tradimento una scena folk che condannava a morte. Fino a poche settimane fa. Poi il Boss lo ha sdoganato, incidendo un disco intero di suoi classici, e l’oggi ottantasettenne Seeger (più facile mitizzare Guthrie, che a invecchiare non fece in tempo) si è trovato (si può immaginare con quale stupore) circondato da un baccano mediatico quale non ricordava da quegli anni ’50 in cui in una settimana aveva un disco in classifica e in quella dopo il Ku Klux Klan e l’FBI alle calcagna. Improvvisamente i negozi si sono riempiti di sue antologie e c’è l’imbarazzo della scelta.

Questa appena pubblicata dalla catalana Discmedi è una delle migliori. Nel primo CD il Nostro si accompagna giusto con la chitarra o più spesso il banjo, nel secondo gli fa ampia corte una schiera di amici. L’uno e l’altro ce lo fanno scoprire o riscoprire assai più fresco di un’immagine, quella del militante, vetusta, a suo agio con deliziose robine da asilo di infanzia almeno quanto con questo o quell’inno protestatario. Qui il folk è cosa viva. Incisioni dal ’41 al ’52.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.270, luglio/agosto 2006.

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Tricky – La musica del Diavolo, probabilmente

Tricky - Maxinquaye Deluxe Edition

L’ultimo bluesman del XX secolo? Se si postula che il blues sia innanzitutto una condizione dello spirito e una filosofia di vita e solo in seconda istanza determinate scale appoggiate su dodici battute, nessuno come Adrian Nicholas M. Thaws ha accompagnato l’irrequieto spirito di Robert Johnson fin sulle soglie del 2000 e oltre. Hell Is Round The Corner, “l’inferno è girato l’angolo”, ammoniva il titolo di più istantanea fascinazione (quello costruito sullo stesso campionamento di Isaac Hayes usato pochi mesi prima dai Portishead nella diversamente/egualmente epocale Glory Box; quello che conoscono anche quelli che non sanno chi sia Tricky: potenza della pubblicità) fra i dodici che sfilano in “Maxinquaye”: e non è il blues la musica del diavolo per antonomasia? Aspetto irrimediabilmente luciferino che almeno quanto la biografia ne saboterà sempre la voglia di farsi passare per – in fondo in fondo – un bravo ragazzo, da lì a un anno il Nostro sarà identificabile con la figura che sulla copertina del primo disco dei collaterali Nearly God si contorce in un corridoio lynchiano dinnanzi a una porta con su scritto “Heaven”, “Paradiso”. Naturalmente chiusa.

Come tutti i capolavori veri, il debutto in proprio di Tricky è opera che si regge su equilibri che non è possibile spostare senza far danni. Bene allora che nella nuova edizione di “Maxinquaye” da qualche settimana nei negozi, Deluxe come si usa oggi, il consueto corollario di mix e remix variamente pletorici sia stato sistemato sul secondo CD, salvaguardando sul primo il programma originale. Dei missaggi alternativi d’antan non più di un paio offrono prospettive, se non esattamente diverse, spostate di qualche grado rispetto a quelle da cui abbiamo sempre scrutato questi panorami foschi come il pop quasi mai. Dei tre datati 2009 non uno instilla un surplus di modernità in canzoni che all’uscita fecero alle orecchie l’effetto che aveva fatto agli occhi Blade Runner nell’82: il futuro ci si spalancava davanti e immediata era la consapevolezza che sarebbe rimasto futuro per molto tempo. A dirla per intero pure il libretto di questo Director’s Cut un po’ delude e allora: operazione da bocciare? Ma certo che no, siccome il “di più” viene fatto pagare una cifra modesta, siccome è un’occasione per tornare su un album che sembrò subito enorme e non ha mai smesso di crescere, siccome c’è sempre qualcuno che non c’era e la cui vita sarà cambiata da un disco, povero lui.

Adrian Thaws ha da poco compiuto ventisette anni quando il 20 febbraio 1995, avendolo fatto precedere nell’arco di tredici mesi da tre singoli che lo hanno reso particolarmente atteso, dà alle stampe il primo lavoro griffato con il soprannome che gli hanno appiccicato quando di anni ne aveva diciotto. Ha vissuto una vita piena. Esageratamente. Abbandonato dal padre alla nascita, orfano a quattro anni quando la madre (che faceva Maxine di nome e Quaye di cognome: ecco) si suicida, cresciuto da una nonna che non si scompone se invece che andare a scuola resta a casa a guardare film horror, in seri guai con la legge prima ancora di diventare maggiorenne e a salvarlo, come la Jane di loureediana memoria, è il rock’n’roll. Che nella Bristol al giro di boa degli ’80 è il punk dei Clash e l’avant-noise della massima gloria musicale cittadina, la band dal nome più bugiardo che ci sia mai stato: Pop Group. E poi è funk e soul, jazz e reggae, soprattutto in versione dub, e quel hip hop ancora ragazzino ma che sta crescendo in fretta. Questa la musica che fanno girare sui loro piatti i giovanotti del Wild Bunch, un sound system che dal 1990 i dischi prende a produrseli in proprio, con un’altra ragione sociale: Massive Attack. Annuncio epifanico di un modo inaudito di fare pop, mischiando stilemi frutto di trent’anni di black music a inserti colti e suggestioni di psichedelia, il colossale “Blue Lines” vede la luce nell’aprile 1991 e in “Blue Lines” Tricky c’è e svolge un ruolo che va al di là della firma apposta in calce a tre degli otto brani originali. Che tre anni e mezzo più tardi in “Protection” sia ridotto a ospite per quanto il più importante – suoi testo e voce della trainante Karmacoma – è nell’ordine naturale delle cose: non per una banale questione di troppi galli in un pollaio, benché caratterialmente Adrian sia antipodico all’attitudine cool dei compagni, ma per una volta per genuine divergenze sulle direzioni musicali da prendere. Tricky fa ascoltare ai soci Aftermath e quelli non se la filano. Mal gliene verrà, pur nello sviluppo di una carriera che resta straordinaria, giacché è in quell’istante che il testimone della staffetta della musica più avanti dei ’90 passa di mano. Nel momento in cui “Maxinquaye” si propone come il successore più autentico di “Blue Lines” in quanto sua estensione e metamorfosi. Se a scomporlo gli elementi parrebbero gli stessi, cambiano drammaticamente modi ed esiti della sintesi, e atmosfere. È come se “Hot Buttered Soul” si ritrovasse imprigionato nel “Metal Box” dei P.I.L., è raga del day after, sono i Public Enemy alle prese con il gamelan e gli Specials presi in ostaggio da Mark Stewart, è Miles Davis che nei suoi mari elettrici ci annega, è Marvin Gaye (campionato in Aftermath) sotto lo stesso tetto degli Smashing Pumpkins (campionati in – ahem – Pumpkin). E infine è Billie Holiday che non sa se rinascere come Yoko Ono, Nico o Alice Coltrane e decide di non decidere e di ribattezzarsi Martina Topley-Bird. Una liceale all’epoca dell’incontro con Tricky. Sii il mio Verlaine, sarò il tuo Rimbaud.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.666, gennaio 2010.

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Emozioni da poco (14): Fairport Convention

Di morti premature e capolavori folk e folk-rock.

Bassifondi 14

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L’orgoglio (e il rock) sudista dei Lynyrd Skynyrd

Lynyrd Skynyrd - (Pronounced ’Leh-’Nérd ’Skin-’Nérd)

Quel che si dice un “understatement”: “Non sono niente male, vero?”. Parole di Pete Townshend pronunciate nel 1973 chiacchierando con il DJ Ron O’Brien, mentre da dietro le quinte i due osservavano il pubblico accorso a una delle date del tour americano di “Quadrophenia” tributare ovazioni a scena aperta al gruppo di supporto. Evento raro e reso tanto più rimarchevole dal fatto che di spalla agli Who stessero suonando degli esordienti, forti di una qualche popolarità giusto nella natìa Florida e in Georgia. Curiosa la formazione: voce, tastiere, basso, batteria e ben tre chitarre. Curiosa la ragione sociale, Lynyrd Skynyrd, deformazione del nome di un insegnante di ginnastica solito angariare i ragazzi ai tempi della scuola secondaria. A tal punto curiosa da indurli a chiarirne la pronuncia nel titolo di un primo LP fresco di stampa: “(Pronounced ’Leh-’Nérd ’Skin-’Nérd)”. Canzone portante dell’album, per la disperazione di discografici alla ricerca di un singolo (ripiegavano su Gimme Three Steps), Free Bird: oltre nove minuti e quale radio – si lamentavano alla MCA – l’avrebbe mai programmata? Quarant’anni dopo resta uno dei brani più trasmessi dalle radio statunitensi e il bello è che i DJ di solito preferiscono la versione da album a quella più che dimezzata che, con quell’anno e mezzo di ritardo e il gruppo lanciatissimo, la MCA riusciva infine a pubblicare a 45 giri. A quel punto Ronnie Van Zant e soci già avevano messo fuori un altro LP, “Second Helping”, e un’altra canzone, Sweet Home Alabama, contendeva a Free Bird la palma della più applaudita nei concerti. Chiaramente una risposta al Neil Young di Southern Man e di Alabama, sarà causa di infinite controversie ben al di là delle intenzioni dell’autore del testo e decisiva nel guadagnare ai Lynyrd Skynyrd – soprattutto in Europa, in Italia in particolare – l’immeritata nomea di rednecks ignoranti, razzisti, addirittura un po’ fascistoidi. Formidabile sciocchezza, ma stiamo parlando di un’epoca in cui nel Bel Paese si diceva che Lou Reed (un ebreo!) fosse nazista adducendo come prove il giubbotto borchiato e i ray-ban che sfoggiava in scena. Formidabile sciocchezza, ma il pregiudizio è in parte sopravvissuto e con imbarazzo devo ammettere di esserne rimasto in qualche misura vittima io stesso: ho impiegato tanto a mettermi in casa i dischi dei Lynyrd Skynyrd e poi fortunatamente assai meno ad apprezzarli, a indagare, a rendere mentalmente giustizia (bizzarro: scrivo di rock da trent’anni e mai mi ero trovato a occuparmi di costoro) a questa compagnia di musicisti di grandezza pari alla sfortuna ed è di una sfortuna proverbiale che si parla. Non bastasse che dei sette ragazzi fra i venti e i venticinque anni effigiati nello scatto di copertina del primo 33 giri i sopravvissuti sono solo tre, innumerevoli altri transitati da quelle parti sono scomparsi prematuramente. È come una maledizione che è arrivata a toccare persino i testimoni di una saga tragica come nessuna. Prendendo appunti per scrivere questa pagina ho scoperto che il DJ citato all’inizio ci ha lasciati pur’egli qualche anno fa e non riuscivo a crederci.

Ma non sono qui per compilare un elenco di morti per incidenti (a partire da quello aereo in cui il 20 ottobre ’77 perivano il cantante Ronnie Van Zant, il chitarrista Steve Gaines – unitosi al gruppo appena un anno prima – e sua sorella Cassie) e assortite malattie, bensì per celebrare uno dei debutti più influenti di sempre. Gira da un paio di giorni sul mio Thorens una superba edizione Original Master Recording ed è stata una bellissima scusa per tornare ad ammirare – e a ogni passaggio l’ammirazione cresce – un disco che non soltanto lanciava una carriera ma finiva di definire quel canone di rock sudista di cui un’altra compagine disgraziatissima, la Allman Brothers Band, aveva tratteggiato gli elementi costitutivi all’incrocio fra ’60 e ’70. Ebbi occasione di scriverlo in una puntata di questa rubrica: meglio gli Allman delle canzoni che quelli delle jam ed è come asserire meglio gli Allman che, senza saperlo, somigliavano già abbastanza proprio agli Skynyrd. Più dritti al punto nella loro sapiente miscela di blues e rock’n’roll, di soul, di errebì, di country e pure di jazz, elemento quest’ultimo assente nelle creazioni della banda Van Zant, rimpiazzato da reminiscenze garage e propensioni hard di derivazione Stones. Dice bene Stephen Thomas Erlewine: gli Allman arrivarono prima, ma del rock cosiddetto sudista i Lynyrd Skynyrd restano l’epitome. E se il successivo “Second Helping” rimane nella considerazione generale il loro capolavoro nondimeno “(Pronounced ’Leh-’Nérd ’Skin-’Nérd)” è esordio di eccezionale maturità. Erano d’altronde tre anni che i nostri eroi affinavano intesa e canzoni.

Ciascuna delle otto che scorrono in poco meno di tre quarti d’ora è un piccolo classico e sarebbe un disco notevole persino senza l’epico suggello di Free Bird. Perfetto l’alternarsi sulla prima facciata fra hard sospinti da riff tanto potenti quanto elastici e istantaneamente memorizzabili (I Ain’t The One e Gimme Three Steps) e ballate parimenti immediate e capaci di permanere nel ricordo (Tuesday’s Gone e Simple Man). Laddove il secondo lato sistema il trillante blues rurale Mississippi Kid fra lo shuffle Things Goin’ On e una gioiosamente implacabile Poison Whiskey. La stampa per audiofili di cui sopra rende specialmente bene le tastiere (non soltanto Billy Powell, pure il produttore Al Kooper) e non si tira dietro dinnanzi a chitarre elettriche che sferzano e rimbalzano. Giacché il CD attualmente in commercio aggiunge alcune niente affatto trascurabili demo (particolarmente gustosi un paio di pezzi che vennero usati come retri di singoli) e si trova a due spicci, il suggerimento che vi do è di averlo sia in analogico che in digitale “(Pronounced ’Leh-’Nérd ’Skin-’Nérd)”. Il vinile – questo vinile – vi costerà un botto di più, ma non rimpiangerete un centesimo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.342, aprile 2013.

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Neil Young – Live At The Cellar Door (Reprise)

Neil Young - Live At The Cellar Door

D’accordo che la contrazione del mercato discografico continua e dunque, a parità di unità vendute, un album che esce oggi può salire parecchio più in alto in classifica che non venti, quindici o anche solo dieci anni fa. D’accordo che il pubblico di Neil Young è numeroso, e affezionato, e sempre affamato di novità, e il Canadese nel 2013 lo ha tenuto a digiuno fin quasi sotto Natale dopo che l’anno prima di collezioni di inediti ne aveva dato alle stampe due (coerentemente con una produzione storicamente dai dislivelli qualitativi assurdi: una terribile, “Americana”, e l’altra magnifica, “Psychedelic Pill”). Nondimeno che il suo ennesimo live, il tredicesimo (!) in tutto nonché sesto in ordine di uscita nella collana “Archives”, abbia scalato la graduatoria di “Billboard” fino al ventottesimo posto lascia strabiliati. A maggior ragione considerando che raccoglie nastri di oltre quattro decenni fa. Tanto di più perché a uno sguardo superficiale potrebbe parere un doppione – al di là delle canzoni in comune che sono ben sette, per via dell’analogo formato del concerto acustico in solitario – di quel “Live At Massey Hall 1971” che nel 2007 era addirittura un numero sei USA e primo in Canada. Ma le cose non sono come sembrano, nonostante poche settimane separino le registrazioni originali, quelle contenute nel “Live At The Cellar Door” provenienti da sei spettacoli datati 30 novembre-2 dicembre ’70, quelle del “Massey” del successivo 19 gennaio: poche settimane, ma bastanti a scavare un solco, siccome da un artista intento principalmente a promuovere il fresco di stampa “After The Gold Rush”, facendo nel contempo i conti con il relativamente smilzo catalogo precedente, si passa a uno tutto proiettato su ciò che sarà ma che bisognerà aspettare un po’ per ascoltare: “Harvest”. E poi a me pare sia diversa (c’entreranno naturalmente le differenti dimensioni dei luoghi ove si tenevano i concerti) anche l’atmosfera: più intima e rilassata in questo nuovo disco però più vecchio del vecchio. Che non si possa chiedere a un cavallo pazzo di seguire l’ordine cronologico in questo affascinante svuotamento di cassetti lo si era inteso da un po’. Ce ne si è fatta una ragione.

Un’altra valutazione di primo acchito che, non appena ci si immerge nel “Cellar Door”, cambia: disco da consigliare eventualmente soltanto ai completisti del suo titolare, ammesso esista gente che sul serio conserva in casa tutto il Neil Young ufficiale, dall’imprescindibile all’osceno (ché se possiedi la trilogia dell’Orrore “Re-Ac-Tor” / “Trans” / “Everybody’s Rockin” a non comprarti questo saresti un bel demente). Non è così. Basta averne una manciata di album del Nostro, giusto i più classici (e dunque… be’… quei dodici o quindici), perché questo live diventi, se non indispensabile, molto più che un mero sfizio. Perché questo Neil Young qui è in grado tanto di intrattenere l’ascoltatore relativamente casuale, offrendogli letture squisite di canzoni che probabilmente parvero enormi già all’uscita e che il trascorrere del tempo ha sanzionato come capolavori, che di stupire l’esegeta. Se quegli sarà subito catturato da un trittico iniziale tutto da “After The Gold Rush” – Tell Me Why, Only Love Can Break Your Heart e la traccia omonima (più avanti arriveranno Birds e Don’t Let It Bring You Down) – e apprezzerà magari (facendo mente locale: sorpreso) una Old Man di un tredici mesi in anticipo su “Harvest”, questi godrà di due belle riprese dei Buffalo Springfield – Expecting To Fly e Flying On The Ground Is Wrong – ma soprattutto sobbalzerà a un’inaudita Cinnamon Girl: “Era la prima volta che la suonavo al piano”, ci informa un Neil allora davvero Young e potrò sbagliarmi ma non se ne ricorda una seconda. Laddove a non far strabuzzare… orecchie per la presenza in una scaletta di tredici titoli di una Bad Fog Of Loneliness destinata a restare inedita in studio per trentanove anni e di una See The Sky About To Rain che verrà recuperata solamente su “On The Beach” è giusto che entrambe figuravano pure sul “Massey Hall”.

Al di là di ogni ragioneria spicciola: un concerto coi fiocchi e una delle migliori istantanee di sempre del Neil Young cantautore. Per il rocker, rivolgersi altrove.

 

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Bruce Springsteen – High Hopes (Columbia)

Bruce Springsteen - High Hopes

Diverse estati fa, per la seconda volta in vita mia e per la seconda volta non mia sponte, mi ritrovai ad assistere a un concerto di Pat Metheny. Il problema è che proprio lì mi aveva dato appuntamento il direttore di una nota collana editoriale e che potevo farci? Mentre lo aspettavo annoiandomi a morte, detestando ogni singolo secondo della sbobba fusion scodellata dal chitarrista americano a un pubblico che immensamente se ne beava, all’improvviso successe un qualcosa di totalmente inatteso. Per me, ma soprattutto per quel genere di platea. Quello che accadde è che Metheny attaccò un brano di una violenza pazzesca, cinque minuti di fragorose distorsioni a ruota libera da fare invidia a Merzbow. Ancora rido ripensando alle facce stralunate degli spettatori e al silenzio tombale che salutò la fine del pezzo, interrotto dopo svariati secondi dal clap clap più rado e meno convinto che possiate immaginarvi. Da quel dì ho avuto del sacro rispetto per Metheny, molta simpatia, anche se la sua musica continua naturalmente a farmi cacare. E se vi state chiedendo che diavolo c’entri tutto questo con il diciottesimo album in studio di un artista che ho viceversa sempre adorato, ecco, ci arrivo. Avrei avuto un’altra opinione di “High Hopes” se Springsteen lo avesse suggellato con una Dream Baby Dream non di cinque minuti ma di quindici, possibilmente venticinque. E non “questa” Dream Baby Dream inopinatamente arrangiata, bensì una scarnissima come l’originale dei Suicide e, oltre che scarnissima, foschissima come la versione che lo stesso Springsteen ha avuto il meraviglioso ardire di proporre tante volte dal vivo negli ultimi anni. Se, come Pat Metheny in quella indimenticabile sera, avesse sfidato il suo pubblico storico – di qualunque era di una storia ultraquarantennale – con un qualcosa di inaudito. “High Hopes” sarebbe rimasto un lavoro scadente ma con alla fine a redimerlo, o quasi, un incompromissorio guizzo di benvenuta follia. Sarebbe stato lo stesso un fallimento, ma glorioso. Perché quando sbagli un disco dopo l’altro, quando un disco dopo l’altro abbassi la media di un catalogo che fu fino a un certo punto immacolato, fallire per fallire dovresti almeno farlo lasciando stupefatti, come il Neil Young che pubblicava “Trans” e subito dopo “Everybody’s Rockin’”. Stupiscici, Bruce, cazzo. Fai un disco di duetti con Drake. Dai alle stampe un tuo “Arc” composto da un’ora di assoli di Tom Morello – mi raccomando: i più sguaiati – in cui non canti una parola. Sarebbe merda, ma perlomeno una merda epica, meno avvilente dell’ennesimo album peggio che inutile. Del quale manco si può dire che sia il tuo peggiore di sempre, a partire dalla copertina, perché “Working On A Dream” resta auspicabilmente insuperabile in tal senso oltre che per la pochezza dei contenuti. E per quanto sia ora “High Hopes” a contenere la canzone più orrenda di un repertorio che ne conta centinaia, Outlaw Pete scalzata dal gradino più alto (o più basso, fate voi) del podio da un’improvvida rilettura di The Ghost Of Tom Joad. Non dovrebbe toccare a un recensore di giudicare i due minuti e sei secondi conclusivi di complessivi sette e mezzo, Morello talmente senza freni da far sembrare sobri un Malmsteen o uno Steve Vai, bensì al Tribunale dell’Aia. Non chiamiamo musica quelli che sono crimini contro l’umanità.

Ci fu un tempo, ormai lontano, in cui ogni minimo dettaglio in ogni album di Bruce Springsteen era studiatissimo, dalle immagini scelte per la copertina alle tracce che andavano a comporlo e all’ordine nel quale erano sistemate. Ci fu un tempo in cui canzoni anche stupende – per assurdo magari più belle di alcune di quelle sopravvissute a una selezione spietata – venivano scartate perché non funzionali alla narrazione, perché lo stile e/o l’atmosfera non erano consoni al contesto in cui avrebbero dovuto collocarsi. Metaforici cassetti si colmavano fino a straboccare e che razza di festa fu quando, nel 1998, il Boss decise di svuotarli, rinvenendoci dentro abbastanza roba da riempirci i quattro CD di “Tracks”: sessantasei brani di cui cinquantasei ufficialmente mai sentiti prima e sarebbero stati “scarti” ma a doverne buttare via anche uno ti saresti sentito male. Ci fu un tempo, ma quel tempo è andato e difficilmente tornerà se è vero come è vero che, con la grossa differenza che questa volta i brani prescelti sono stati reincisi in tutto o in parte, “High Hopes” vorrebbe essere un “Tracks” in piccolo, composto per la più parte di outtakes recuperate da un arco di tempo molto ampio (1998-2008) e per il resto da cover. Quattro queste ultime, volendo contare come tale la The Ghost Of Tom Joad citata dianzi per quanto è diversa da quella che nel ’95 battezzò il piccolo classico (più letterario che musicale, a dire il vero) che sapete. A dare il titolo a questo di disco è High Hopes degli Havalinas, rilettura danzabile, festosa e alquanto fedele così come fedele è Just Like Fire Would dei Saints, fiati squillanti compresi che la fanno ancora più So You Want To Be A Rock’n’Roll Star. Di Dream Baby Dream ho riferito e quale il senso allora? A parte rimpinguare i conti presumibilmente non troppo floridi di chi questi pezzi li scrisse e che anche soltanto per questo a Springsteen sarà eternamente grato.

E poi ci sono i brani con accanto scritto, fra parentesi, “Bruce Springsteen”. E poi c’è la “questione Tom Morello”, molto dibattuta ultimamente fra gli appassionati. Con questa me la sbrigo in fretta: con la musica dell’uomo del New Jersey l’ex-Rage Against The Machine e Audioslave c’entra meno di zero, in “High Hopes” fa danni pressoché ovunque – persino dove ci sarebbe poco da danneggiare: nella di suo rutilante Heaven’s Wall, in quella Philadelphia di serie B che è American Skin, in quella Dancing In The Dark di serie C che è Harry’s Place – e non sarà un caso se nei pochi brani decenti non c’è. Nondimeno: l’ha mica obbligato lui il padrone di casa ad aprirgli la porta e a farlo accomodare nel salotto buono. La tragedia è che, per quanto con i suoi assoli metallari il chitarrista ci si metta d’impegno, quest’album più di tanto non si può peggiorarlo. Salvo una Frankie Fell In Love tagliata dalla stoffa di Brothers Under The Bridges. Salvo soprattutto una The Wall che scaglia un ponte fra “Nebraska” e “Tunnel Of Love” e lì immagina un nuovo Meeting Across The River. E basta. Ma basta in tutti i sensi.

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Emozioni da poco (13): Iron Butterfly, Vanilla Fudge, Pavlov’s Dog

In cui scrivevo fra il resto di uno dei cento, se non dei dieci, dischi da portarsi sulla famosa isola deserta: “Pampered Menial”.

Bassifondi 13

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Presi per il culto (40): Bobby Charles – Bobby Charles (Bearsville, 1972)

Bobby Charles - Bobby Charles

In un’intervista del 2007, una delle pochissime concesse in vita sua, Robert Charles Guidry ricordava che razza di epifania fosse stato, da ragazzino, scoprire nel giro di pochi giorni prima Hank Williams e poi Fats Domino: “Cominciai a pregare: ‘Dio, fa che un giorno io riesca a scrivere delle canzoni belle come le loro’. Suppongo mi abbia esaudito”. Immodestia? Se ad Hank Williams non si può chiedere un’opinione in merito, rivolgere la medesima domanda a Fats Domino – che, dieci anni più anziano del nostro eroe, gli è sopravvissuto – sarebbe pletorico. Il suo autorevole parere lo esprimeva implicitamente sin dal 1960, quando registrava, iscrivendola nel grande libro dei classici del suono di Crescent City, Walking to New Orleans. Carta di “Billboard” canta: numero due nella classifica R&B, sei in quella pop. Due anni dopo ci avrebbe riprovato con Before I Grow Too Old, con meno fortuna ma entrando in ogni caso nei Top 100 generalisti. Lunghissimo l’elenco dei successi firmati per altri da uno il cui nome dirà probabilmente poco o nulla pure al lettore più esperto. Ma certe sue canzoni risulteranno invece familiari a tanti. See You Later Alligator, un superhit per Bill Haley nel 1956. (I Don’t Know Why I Love You) But I Do, con cui Clarence “Frogman” Henry faceva furore nel ’61 e che è rimasta un sempreverde (molto usata al cinema, da Forrest Gump in poi). Jealous Kind, che ingrassava un pochino il conto corrente di Joe Cocker nel 1976 e moltissimo quello di Delbert McClinton cinque anni dopo. Altri che hanno inciso brani di uno di cui Bob Dylan si è sempre dichiarato il primo degli ammiratori (essendo Neil Young il secondo): Bo Diddley, Ray Charles, Etta James, Tom Jones, Kris Kristofferson, gli UB40. In proprio il Nostro – scomparso il 14 gennaio 2010 in quella stessa Abeville, Louisiana, nella quale era nato il 21 febbraio 1938 – le classifiche importanti non è mai riuscito a frequentarle. Non che si sia mai impegnato, tranne che nella prima giovinezza, perché andasse altrimenti.

Mito vuole che fosse cantando al telefono See You Later Alligator a uno stupefatto Leonard Chess che il diciassettenne Bobby si procurava un contratto con la quasi omonima etichetta, con la sola condizione che lasciasse cadere un cognome troppo localizzante. Chess organizzava prontamente una seduta di registrazione ai celeberrimi Cosimo’s di New Orleans e contestualmente prenotava un volo per Chicago per il ragazzino. Immenso lo sconcerto di chi andava a prenderlo all’aeroporto e lo scopriva… bianco. L’equivoco ingenerato dalla negritudine della voce farà in ogni caso comodo per qualche anno a Charles, consentendogli di frequentare quegli ambiti errebì che se no, in un’era ante-Stax, gli sarebbero stati probabilmente preclusi. Non che fossero solo rose e fiori, eh? In tour con carovane di gente per il resto tutta di colore, si ritrovava paradossalmente a patire delle discriminazioni. Comunque nulla a confronto delle pistolettate con cui nel più profondo Sud lo salutava qualche razzista ariano.

Ma quelli erano gli anni ’50. “Bobby Charles”, esordio a 33 giri alla matura età di anni trentaquattro dopo avere pubblicato parecchi 45 per una successione di diverse etichette, è l’approdo di un percorso lungo il quale il rock’n’roll è stato lasciato quasi del tutto alle spalle, in rhythm’n’blues è blues la metà sulla quale bisogna porre l’accento, il recupero delle radici cajun ha assunto un peso sempre maggiore e il country idem. Se vi confidassi che è il disco che avrebbe fatto The Band se fosse stata un gruppo della Louisiana e avesse avuto come pianista Dr. John? Direste forse che sono il solito esagerato. Be’, si dà il caso che in quest’album Dr. John ci suoni e così Rick Danko, Levon Helm, Garth Hudson e Richard Manuel. Fidatevi di loro, se non di me. Disco stupendo in toto, da una felpata Street People in scia ai Little Feat alla ripresa a mo’ di dondolante bluesone di Grow Too Old; da una ballata come I Must Be In A Good Place Now, che l’avesse fatta James Taylor avrebbe venduto milioni di copie, al funkeggiare assorto spruzzato di gospel e di jazz di He’s Got All The Whisky; dalla dinoccolata cantilena punteggiata dall’organo di Small Talk a una squillante I’m That Way. Disco che magari impiega un po’ a prendere dimora nella testa e nel cuore, ma poi non ne sloggerà mai più. Disco troppo elegante, pur con un costante sentore di terra bagnata, e garbato perché potesse venire premiato da altro che non fosse una critica a corto di superlativi.

Felicemente rassegnatosi a continuare a delegare ad altri il lavoro sporco delle classifiche, Charles si prenderà il suo tempo per dargli un successore. Quindici anni! A “Clean Water” andranno dietro “Wish You Were Here Right Now” (1995), “Secrets Of The Heart” (1998) e “Homemade Songs” (2008). Nel 1976 gli amici della Band inviteranno Bobby al loro ultimo giro di valzer. Nel triplo album registrato nell’occasione canta Down South In New Orleans. Non figura invece nel The Last Waltz di Martin Scorsese, tagliato all’ultimo in fase di montaggio. Ritroso com’era, probabilmente non se ne dispiacque.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.668, marzo 2010. Adattato.

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La vita spericolata, la vita esagerata di Steve Earle

Steve Earle - Copperhead Road Deluxe Edition

“Copperhead Road” è il ritratto di un uomo che scruta dentro l’abisso e ci vede un cielo stellato. “Copperhead Road” è il messaggio al mondo di un uomo troppo orgoglioso per chiedere aiuto, persino per capire di doverlo fare, e che allora dice “vaffanculo”: voglio una vita spericolata, io. Ne aveva già avuto una più che esagerata, Steve Earle, e siccome a desiderare troppo una cosa il destino può punirti concedendotela di guai ne avrà, dopo quest’album, fin quasi a morirne. Più Marlon Brando che Steve McQueen, più James Dean che Marlon Brando, più Jessie James che James Dean, che d’altra parte non fece in tempo a mettere su pancia e rughe e a scoprire che la vita può pure essere… sì… meravigliosa. Anche se nel 1988 gli anni per il nostro uomo erano ormai trentatré e a quella età ogni James Dean fa la figura del Peter Pan e difficilmente è un bel vedere. Non che ci sia prossimità stilistica alcuna, e nemmeno di atmosfere, ma “Copperhead Road” fu un po’ come “Forever Changes” dei Love, pur’esso un terzo album: un guardare in faccia l’evenienza di una tragedia ricavandone la forza per conquistare altrimenti l’eternità, raggiungendo la trascendenza.

Terzo album, a trentatré anni: poca roba, no? Quando nel conto delle mogli sei invece arrivato a cinque e soprattutto considerando che a venti ancora da compiere questo nativo della Virginia cresciuto, senza diventare adulto, in Texas era considerato la “Next Big Thing” a Nashville, Tennessee. Capitale del country presa d’assalto all’epoca da pattuglie di guastatori decisi a restituire al popolo la musica del popolo. Guy Clark, ad esempio, nel cui seminale debutto “Old No. 1” Steve faceva una comparsata da corista (accreditato) e (sembra) una da bassista (non accreditato). Era il 1975, il ragazzo era arrivato in città da poco ma di lui si parlava molto. Continuerà a essere chiacchierato, ma per le intemperanze piuttosto che per gli sviluppi di una carriera dall’andatura bradipica. Solo nell’82 un paio di sue canzoni facevano capolino nella classifica di settore, ai posti più bassi e in interpretazioni di altri. Solo nell’83, in forza delle ottime recensioni ottenute da un mini uscito per una minuscola indipendente, LSI, un’etichetta di peso quale Epic lo metteva sotto contratto, salvo scaricarlo a fine ’84 dopo avere cassato un LP in stile prevalentemente rockabilly proprio su indicazione della casa discografica stessa. Troppo rock per il mercato del country, troppo country per il mercato del rock: se l’era già sentito dire Gram Parsons. E così non è che nell’86, a trentun’anni quando il suo idolo Hank Williams se n’era andato prima di compierne trenta, che Earle arriva finalmente a pubblicare un LP, per i tipi della MCA. Significativo che nel tour che promuove “Guitar Town” si ritrovi una sera a dividere il cartellone con Dwight Yoakam, quella dopo a fare di spalla ai Replacements. Nessuno ha ancora sentito parlare di alt-country e se il disco vende bene è soprattutto fra la platea del rock. Idem per il successivo di un anno e  meno brillante (ma con dentro un brano che diventerà la Born To Run di Earle: I Ain’t Ever Satisfied) “Exit O”. Dovrebbe essere contento, Steve, ma non lo è e il livello di polveri sottili nel suo organismo è tornato ad alzarsi pericolosamente, come quando aveva cominciato a pensare che non ce l’avrebbe fatta. Dovrebbe essere soddisfatto ed è inquieto. Musicalmente, se non umanamente, è un’inquietudine che paga. Fatto da un altro “Copperhead Road” sarebbe un compromesso al ribasso, un dare alla gente ciò che la gente dimostra di gradire, e cioè del roots-rock in scia a Springsteen e a John Mellencamp. Un accodarsi a degli stereotipi. Fatto da Earle è l’ennesimo guanto di sfida a un country che di stereotipi si pasce e che più di una generazione di fuorilegge, da Willie Nelson a Guy Clark passando per Townes Van Zandt, ha invano cercato di riformare. “Copperhead Road” a Nashville farà l’effetto di un “Never Mind The Bollocks”, con il suo convocare i Pogues per declinare gighe elettriche nella traccia omonima ed epicità sudista in Johnny Come Lately, con il suo omaggiare Jerry Lee Lewis facendo finta di essere Eddie Cochran in Snake Oil, con il suo emulare il Boss in The Devil’s Right Hand e il suo evocare il fantasma tenero e smargiasso di un Angelo Caduto in Once You Live come in Nothing But A Child. È il capolavoro di un artista perfettamente “in controllo” proprio mentre l’uomo il controllo di sé lo va perdendo. Viaggerà fino al termine di una notte oscurissima e, miracolosamente, uscendone vedrà di nuovo le stelle. Un altro uomo e però sempre duro, onesto.

A due decenni al prossimo ottobre dall’uscita, Universal riporta nei negozi questa pietra miliare non per modo di dire in una Deluxe Edition che sul primo CD riprende la scaletta originale lucidandone i suoni senza eccessi e su un secondo dischetto sistema un live con registrazioni dell’anno prima e dell’anno dopo, parimenti eccitanti se non eccezionali. Parte verso la fine una cover di Dead Flowers, dai Rolling Stones più tossici, e un brivido corre lungo la schiena. Il Nostro la canta come se stesse scrivendo un biglietto d’addio. Strafottente anziché lamentoso, trattandosi di un biglietto d’addio di Steve Earle.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.648/649, luglio/agosto 2008.

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