Questa volta non ci sono santi. Per una questione di abbondanza e non di suono, che è fantastico in entrambi i casi (siamo su un livello certamente superiore, e non di poco, alla media dei dischi rock dell’epoca), vince il CD. Fatto è che di “Who’s Next” Universal metteva in circolazione un due anni fa la “Deluxe Edition” e per i fans era una festa da non credere ai propri occhi (bellissimo il libretto) e alle proprie orecchie: sul primo dei due compact la scaletta nota seguita da sei fra inediti e versioni diverse, sul secondo il leggendario concerto al londinese Young Vic Theatre con il quale nel febbraio 1971, qualche settimana prima di trasferirsi ai Record Plant per porre infine mano a un album la cui gestazione si sarebbe rivelata decisamente difficile, invano Pete Townshend cercava di mettere ordine nella grande confusione che aveva in testa. La storia è nota: alle prese con l’arduo compito di dare un seguito a “Tommy”, e dopo avere piacevolmente per noi tergiversato con il micidiale “Live At Leeds”, il nostro uomo si gingillava con un secondo concept. Titolo di lavorazione: “Lifehouse”. Problemuccio: nemmeno lui aveva ben chiaro che storia raccontassero le canzoni che continuava a buttar giù. Fallimentari le sedute newyorkesi, anche per colpa di un Keith Moon completamente fuori controllo, e dopo un passaggio appena meno infruttuoso presso Stargroves, la casa di campagna di Mick Jagger, ci pensava il produttore Glyn Johns, agli Olympic di Barnes, a tagliare il nodo gordiano persuadendo Townshend e compagni a registrare una scelta di brani a quel punto ormai collaudati. Avrebbe provveduto poi lui a ordinarli in forma di album. E che album ne sarebbe venuto fuori! Per taluni l’ultimo classico degli Who, per quasi tutti il capolavoro della band, “Who’s Next” riesce nell’impresa di unire a un’irriverenza (esemplificata in maniera deliziosamente puerile dalla celeberrima copertina) e a un’energia ancora da pieni ’60 un’attitudine progressiva nel giusto modo. Mirabile l’equilibrio e fa il resto una manciata di canzoni superbe, da quella Baba O’Riley dall’inconfondibile introduzione tastieristica omaggiante l’autore di A Rainbow In Curved Air all’innodica Won’t Get Fooled Again, passando fra il resto per l’hard di Bargain, una tumultuosa My Wife (pregevole contributo di Entwistle) e gemme di inaudito romanticismo quali The Song Is Over e Behind Blue Eyes.
La nuovissima stampa Classic Records naturalmente non regala alcuno dei supplementi di inchiesta offerti dalla succitata edizione digitale, limitandosi a replicare esattamente il 33 originale sebbene con una presenza mai così vivida su vinile. Il problema è che costa più questa del doppio CD e bisogna essere un po’ matti per preferirgliela. Cioè: un po’ più matti che ad averle in casa entrambe. Oltre a quell’altra copia, comprata tanti, tanti anni fa e consunta dai troppi passaggi su stereo della mutua. Ehi! Si vive una volta sola…
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.254, febbraio 2005.
My wife, my wife VM, io ne ho una simile per cui “apprezzo” la storia..
Ops! Thank you.