Un po’ anche per emendarmi dalle emerite fesserie scritte su di lui in gioventù mi è poi capitato non una ma ben due volte di firmare autentiche apologie, di robusta consistenza, dell’artista un tempo noto come Prince e oggi invece pure. Una appariva su “Blow Up” ed è stata poi ripresa nel volume Scritti nell’anima. Da lì a qualche anno firmerò un altro pezzo – un po’ meno lungo e dettagliato – sulle pagine del “Mucchio”. La scusa era un 2006 che prometteva di essere l’anno del grande e definitivo ritorno dell’uomo nato Roger Nelson. Arrivati al 2014 siamo punto e a capo: si attendono nuove eccitanti da costui e per intanto “Mojo” sul numero di aprile lo ha messo in copertina.
Griffato Universal, esordio per quella casa e secondo consecutivo album di Prince a uscire per una major dalla fine del volontario esilio indipendente, “3121” sarà nei negozi dal 21 marzo. Mentre andiamo in stampa sono noti solo la lista dei titoli, dodici, e la copertina: orrenda. Visti certi precedenti, dovrebbe portar bene. E peparatevi dunque a una primavera in cui il signor Roger Nelson potrebbe essere ovunque come non accadeva da quattordici anni, vale a dire dacché un mastodonte di disco variamente chiamato – “Symbol”, “The Love Symbol Album”, “Prince And The New Power Generation” – strappava ovazioni alla critica e non sarebbe più accaduto, in un decennio in transito dal dileggio all’indifferenza. Se non da diciassette, ossia da quando la sciatta colonna sonora di Batman firmata dal Nostro (abbastanza brutta da ritrovarsi nella lista dei “100 album da evitare” di “Extra”) lo portava per l’ultima volta al numero uno della classifica statunitense. Se non da ventidue, cioè da quel 1984 che per Prince era tutt’altro che un orwelliano incubo, siccome il suo “Purple Rain” soggiornava in cima alla suddetta graduatoria per ventiquattro settimane, nel mentre due singoli tratti da quella pietra miliare andavano pur’essi al primo posto e un terzo si fermava uno scalino sotto. Fatto è che in data imprecisata (era previsto per il 14 marzo ma è stato rinviato) vedrà la luce per Warner un rimasterizzato doppio antologico, “Ultimate” (figurarsi!), che promette di fare scoprire a chi magari ancora non era nato quando “Purple Rain” era dappertutto uno degli artisti più geniali che rock e musica nera – insieme – ricordino. Sia il benvenuto, anche se la scaletta è discutibile e con quello che di fondamentale è rimasto fuori si potrebbe confezionare un altro doppio altrettanto bello o addirittura di più. Suggella in ogni caso una vicenda di resurrezione in primo luogo artistica, quella del Prince degli anni 2000, che fa concorrenza al Neil Young di “Freedom” e al Lou Reed di “New York”, ai Rolling Stones di “A Bigger Bang” e al Paul McCartney di “Chaos And Creation In The Backyard”. Per non diventare blasfemo azzardando antecedenti biblici, mi limito ad affermare che per scovarne un’altra ancora più sensazionale tocca rivolgersi al Miles Davis colto da afasia dopo “On The Corner”, con la differenza che al contrario Prince non ha mai smesso, anche quando quasi più nessuno gli dava retta, di essere un caso clinico, terminale di logorrea.
A proposito dell’Uomo con la Tromba: che tragedia che non si siano mai concretizzati due album, quello che fantasticò di realizzare con Jimi Hendrix e giustappunto quello con Prince di cui vagamente si chiacchierò. Per sopravvenute morti di uno dei due aspiranti sodali. Minuscola quanto sublime consolazione il fatto che in un disco di Prince, “Sign O’ The Times”, dell’87, Davis ci sia sebbene non accreditato, essendo sua la tromba che guizza e ricama nella lenta e supersexy Adore. Il titolare dell’opera lo aveva contattato mandandogli un biglietto in cui, con la modestia che da sempre gli è usuale, si firmava “Dio”.
Ma mi sa che sto già divagando. È che sono così tante le cose che ha combinato Prince e così multiforme, moderno Proteo la sua personalità che non si sa da dove partire per affrontarlo e, non appena inizi un discorso, ti scappano dieci subordinate. Perfettamente in tema con il personaggio, ti perdi. Ebbi a scriverne diffusamente su altre colonne tempo fa e lì cominciai da Kiss, la canzone che nel 1986 mi persuase di averlo in precedenza – distratto dalle pacchiane apparenze e dalla sovraesposizione mediatica – enormemente sottovalutato. Era uscito da un po’ “The Rainbow Children” ed era con quel lavoro che l’uomo che non da molto aveva ripreso a farsi chiamare Prince ricatturava me e tanti altri rinascendo, paradossalmente per un ex-campione di vendite, come nome “di culto”. Frutto del passaparola la fama guadagnata piano piano da un album reperibile dapprincipio, prima che un marchio oscuro quale Redline Entertainment gli procurasse qualche distribuzione, soltanto in Internet, siglato NPG, l’etichetta personale del nostro eroe. Tutto sommato modesti i riscontri commerciali, nondimeno bastanti a fare drizzare le antenne alla Columbia che difatti da lì a tre anni, nel 2004, pubblicherà il “vero” successore in studio, “Musicology”. Avendo nel frattempo Mister Nelson licenziato una quadrilogia live da appiccicare al muro i pochi che l’hanno frequentata. Ecco, prima che sui dischi storici e storicizzati e finiti nelle enciclopedie e in innumerevoli elenchi del “meglio di”, vorrei concentrarmi su quelli che hanno segnato il nuovo secolo. Procedendo à rebours.
“Musicology”, allora. Una meraviglia di compromesso giacché è un album in cui Prince rinuncia alle sperimentazioni – felici, felicissime a volte e talaltre scombiccherate mattane – delle ultime cose che rifilò alla Warner e dell’altalenante produzione NPG, per concentrarsi di nuovo sulla forma “canzone”. Con eccellenti risultati: a partire dalla traccia che inaugura e intitola, tastiere petulantemente ’80 innestate/innescate in un superbo funk di pura scuola James Brown; proseguendo con il gusto da hip hop primigenio di Illusion, Coma, Pimp & Circumstance, la squisita seduzione soul (dalle parti di Purple Rain) di Call My Name, il rotolante basso wave e la chitarra hard di Cinnamon Girl, il blueseggiare di On The Couch. Non male per uno affacciatosi alla ribalta un abbondante quarto di secolo prima e quanto è bastato a fare ricordare, in un momento in cui in quanto a influenza l’uomo di Minneapolis è centrale persino più di quanto non fosse nella sua Età dell’Oro, visto il peso degli eredi (D’Angelo, OutKast, Felix Da Housecat, Cody ChesnuTT, N.E.R.D., per non citarne che alcuni), a chi appartenga il brevetto. Di nuovo Maestro e non vale lamentarsi (sono due lati di una medaglia, l’uno non brilla più dell’altro) che a “Musicology” manchino i vertiginosi guizzi e quel frenetico, a momenti zorniano rimbalzare fra generi all’interno di uno stesso brano di “The Rainbow Children”, esemplare in tal senso pure lì il pezzo primo e omonimo, un incrocio fra i Booker T. & The MGs di Green Onions e il Dave Brubeck di Time Out, con arzigogoli vocali alla Manhattan Transfer, uno zompettante sax che distilla errebì e pare King Curtis e chitarre incredibilmente indecise fra Hendrix, Santana e i Black Sabbath. A raccontarlo un insensato guazzabuglio, a gustarselo una roba che di continuo ti sorprendi ad applaudire. Come Muse 2 The Pharaoh che fra gospel e rap lancia un ponte pop-jazz, o Digital Garden che frulla assieme exotica e hard (Last December mischia i DNA di Marvin Gaye e Ozzy Osbourne, ascoltare per credere), o ancora Everywhere, che è funk-latin-jazz come non se ne udiva dai tempi delle Fania All-Stars. Siete andati a indagare e avete scoperto di desiderarne ancora di questa follia con un metodo ferreo come cuore pulsante? Accomodatevi, “One Nite Alone” vi attende.
Sono quattro CD, un triplo in cofanetto (non proprio economico il prezzo), un clandestino singolo riservato – credo – ai membri del Fan Club. L’indispensabile – sì, ho scritto proprio indispensabile, pochi spettacoli documentati nella storia memorabili come questo e dire che le canzoni famose sono una minoranza: When U Were Mine, Raspberry Beret, Adore, Diamonds & Pearls, Nothing Compares 2 U, Sometimes It Snows In April – è il concerto immortalato sui primi due dischetti. È come se sullo stesso palco ci fossero contemporaneamente Duke Ellington, il Miles Davis elettrico, i Parliament, Sly & The Family Stone, Jimi Hendrix, Curtis Mayfield, Gil Scott-Heron e Frank Zappa, con il non ininfluente dettaglio che Zappa a swingare non è mai stato capace e Prince invece sì. Letteralmente inenarrabile, mentre a spiegare il terzo compact, “The Aftershow: It Ain’t Over!”, bastano due parole, una è “James” e l’altra è “Brown”. Un’irrefrenabile bestia funk che vi lascerà stremati e pronti, se vi riesce di procurarvelo, per le deliziose smancerie di un – titolo programmatico – “Solo Piano And Voice”. Farò una figura da estremista, ma al neofita totale che mi chiedesse da quale articolo del corposo catalogo iniziare per farsi un’idea di chi sia Prince non consiglierei uno fra la mezza dozzina di conclamati capolavori – “1999”, “Purple Rain”, “Parade”, “Sign O’ The Times”, “Diamonds And Pearls”, “Prince And The New Power Generation” – bensì proprio “One Nite Alone… Live!”, che in un certo qual modo tutti li racchiude. Non potrà poi fare a meno di catturare i classici e saltabecchi allora liberamente lungo la linea temporale, oppure segua l’ordine di uscita, magari facendosi guidare dalla succinta storia – più discografia commentata – a seguire.
(Apro una parentesi per ammonire gli entusiasti a essere cauti nell’approccio ai tanti altri materiali indie del Nostro, eccentrici all’estremo, si tratti del rock flamencato di “The Truth” o del lunare post-jazz di “Xpectation” e di “N.E.W.S.”)
Come potete leggere su ogni enciclopedia dabbene, Prince Roger Nelson nasce a Minneapolis il 7 giugno 1958. Non è un ininfluente dettaglio segnalare il luogo dove vede la luce, poiché è quella una delle città degli USA in cui la presenza di afroamericani è tanto ridotta da non giustificare l’esistenza di una stazione radio a essi specificamente indirizzata. È a motivo di ciò che il ragazzino viene su ascoltando sì gospel, soul e jazz (John Coltrane il primo eroe) ma soprattutto cantautorato bianco (Joni Mitchell gli è particolarmente cara) e tanto rock (Carlos Santana ed Eric Clapton chitarristi a suo stesso dire più influenti che non Jimi Hendrix). Bisogna fidarsi delle biografie che descrivono ciò nonostante come inequivocabilmente black la musica dei primi gruppi che allestisce ancora impubere (Grand Central, Champagne, 94th East i nomi ammantati di mito), visto che toccare con orecchio non si può (forse qualche traccia – gli ultimi incisero dei demo – è finita su questo o quel bootleg ma personalmente non ho mai avuto occasione di ascoltarne, né fremo dalla voglia). Di rock se ne scova ad ogni buon conto pochissimo e del meno pregiato, giusto delle scale di chitarra burina, in quel “For You” con il quale nel 1978 esordisce per la Warner, che ha vinto una vera e propria asta con A&M e Columbia più che con i soldi con la promessa di un completo controllo artistico, concessione inaudita per uno sconosciuto debuttante. Arduo capire all’ascolto cosa abbiano scorto in quel ventenne mulatto minuto ed efebico. Non più di un paio di dettagli annunciano ciò che sarà: la scritta “Produced, arranged, composed and performed by Prince” (il Nostro si circonderà sempre di musicisti notevoli sul palco ma in studio spesso preferirà fare da solo); la foto interna che ahilui immortala l’artista trino e nudo, una chitarra a mascherare le vergogne, immagine di per sé ridicola ma è un anticipo di sessualità tanto ambigua quanto disinvoltamente esibita. È certo meno… indimenticabile la musica, funk troppo flemmatico, soul da boudoir e a peggiorare il tutto le sonorità sintetiche tipiche dell’epoca. Fatene a meno e saltate altresì a pie’ pari il successivo “Prince”, che è appena meglio e di cui un paio di episodi si possono salvare: una I Feel For You che per scoprire quanto sia magnifica bisognerà aspettare la versione di Chaka Khan e il secco funk-rock Sexy Dancer. Epperò: con il fondamentale supporto di un’intensa attività concertistica, l’esordio vende centomila copie, il seguito addirittura un milione, il ben più maturo “Dirty Mind” poco di meno. Decisamente soddisfatti, quelli della Warner rinnovano il contratto. Ancor più dei promettenti riscontri mercantili a fare loro intuire di essere seduti su una miniera d’oro sono stati due brani: quello che intitola il terzo LP con ricordi di Sly Stone e presagi dei Living Colour e una When You Were Mine, sempre sul quel 33, dal riffeggiare invincibile. Hanno capito di trovarsi fra le mani il primo nero in grado di conquistare la nazione rock da Hendrix in avanti e perseverano.
Dovette essere una grande emozione assistere allora allo sbocciare tanto rigoglioso di un talento e anche ad ascoltarli oggi in successione dopo le prime zoppicanti prove “Controversy” (1981) e il doppio (un singolo compact è bastato in seguito a contenerlo) “1999” (di due anni dopo) colpiscono per lo stacco qualitativo rispetto ai predecessori: rimarchevole nel primo, stilisticamente compreso via una Let’s Work degna dei Famous Flames e una rockista Sexuality fra gli estremi rappresentati da una Do Me, Baby da Isaac Hayes voglioso di coccole e una Annie Christian palesemente influenzata da certa new wave; incommensurabile nel secondo, che annerisce i Cars in Little Red Corvette e in Let’s Pretend We’re Married, gli Human League in Automatic e i Devo in Something In The Water, non dimenticandosi nel frattempo né di funkeggiare fino al delirio, come accade per larga parte della cospicua scaletta e in particolare (guarda caso) in Delirious, né di far colare miele e sperma nei solchi ed ecco International Lover, sigillo che più ammiccante non si potrebbe. “1999” regala a Prince la copertina di “Rolling Stone” e, a proposito di Pietre Rotolanti, nell’82 il nostro ometto ha aperto alcune date di un tour USA di Jagger e soci: la prima investitura, anche se ci vorrà ancora un po’ perché l’accettazione da parte della platea bianca sia completa.
Chi non c’era non può lontanamente immaginare quanto fosse onnipresente nell’84 “Purple Rain”, colonna sonora di un film men che modesto (null’altro che una sfilata di stereotipi da rock movie) e a dispetto di ciò pur’esso trionfatore al botteghino (settanta milioni di dollari nei soli Stati Uniti ed era costato quanto un videoclip). Il disco, che sta in piedi benissimo senza immagini, è un indiscutibile capolavoro, una “West Side Story” negra idealmente scritta in collaborazione da Marvin Gaye e George Clinton, Stevie Wonder e Jimi Hendrix facendo trasparire ascolti dall’hard al techno-pop e divertendosi occasionalmente a sovvertire ancora di più le regole della black music, ad esempio rinunciando al basso in una When Doves Cry che fu la prima canzone a spingere l’album in classifica e saranno qualcosa come dieci milioni le copie totalizzate. Questo è quanto penso oggi. All’epoca, e lo rammento con imbarazzo, dissi e scrissi emerite sciocchezze che il fastidio che finisce per indurre pure il più pregiato degli album quando lo senti ovunque non può giustificare. Una volta di più vado a Canossa. A parte lo stratosferico livello dei materiali in questione avrebbe dovuto farmi squillare un campanello nella capa, prima dell’epifania di Kiss, la mossa commercialmente suicida, e difatti per niente apprezzata ai piani alti della casa discografica, di dare un seguito a un simile campionissimo di vendite con un LP ai suoi antipodi. Non fosse bastato, spedito nei negozi appena nove mesi dopo. Continuo a ritenere che “Around The World In A Day” – una prima facciata di pura psichedelia con influssi di jazz e persino di cameristica, una seconda che cede a qualche tentazione hard e vaghe parentele con i lavori prima le fa scorgere – non sia un album totalmente riuscito. Pochi “fallimenti” sono stati tuttavia così grandiosi e da applaudire, applaudire, applaudire. Per inciso: quadruplo platino negli Stati Uniti, non male per un disastro annunciato. È con “Parade”, che esce nell’aprile 1986 e riesce nel miracolo di unire il meglio degli immediati predecessori nel mentre li scarnifica, che la parabola commerciale del Nostro si inverte, benché le vendite si contino ancora in milioni di esemplari e l’alieno, minimale funk di Kiss vada al numero uno. Ma al contrario che nel caso di “Purple Rain” il film cui è collegato, Under A Cherry Moon, è spernacchiato dalla critica e ignorato dal pubblico, un flop colossale, e quando Prince se ne salta fuori, con i consueti tempi ravvicinatissimi, con un album triplo alla Warner – gli ingrati! – pongono il veto. Il progettato “Crystal Ball” diventa nel marzo 1987 il doppio “Sign O’ The Times” e forse è andata bene così, poiché pare perfetto e dunque non perfettibile, variegato ma coeso e coerente come senza i tagli non sarebbe magari stato. C’è una Kiss più veloce (Play In The Sunshine), c’è della electro (Housequake, Hot Thing), c’è del blues abbastanza canonico (Slow Love) e dell’altro a bagno nell’LSD (The Cross), ci sono una strizzata d’occhio a Barry White (If I Was Your Girlfriend), una ai Parliament (It’s Gonna Be A Beautiful Night), un lento da urlo (la già menzionata Adore). Ottanta minuti e che butti via? Niente.
Fra qualche rara gemma (le più luccicanti la ballata Anna Stesia e il forsennato uptempo Can’t Stop This Feeling I Got) molto vi è viceversa di francamente dispensabile in “Lovesexy”, messo insieme in fretta e furia all’indomani di un abortito (e superpiratato fino alla pubblicazione ufficiale diversi anni dopo) “The Black Album”, e nelle colonne sonore “Batman” e “Graffiti Bridge”. Sicché sembra miracoloso il ritorno in quota nel settembre 1991 con “Diamonds And Pearls”, che aggiorna il funky-soul-rock psichedelico del nostro uomo all’era dell’hip hop e convince appieno sia nel complesso che con una manciata di titoli da antologia, dall’errebì a rotta di collo di Thunder a una canzone omonima languidissima, dal jazzetto da balera di Strollin’ al rap prima maniera di Jughead e Push, dal funk-blues di Willing And Able agli scampoli go-go di Get Off. Osserva qualcuno che, incorporando nella sua musica elementi di quel hip hop a lungo guardato con diffidenza, Prince per la prima volta insegue i tempi invece di provare ad anticiparli. Vero, ma di che lamentarsi di fronte all’ispirazione ritrovata? Da lì a poco più di un anno “Prince And The New Power Generation” confermerà quanto sia felice il momento a livello di scrittura sintetizzando in un’ora e un quarto quindici anni di Prince e trenta di musica nera, fra rap mozzafiato e archetipi di modern soul, musical in sedicesimo ed elegantissime quanto vigorose ballate, riffarama e assoli rockisti, organi e cori da chiesa e schizzi di jazz e scratching e sitar e quant’altro. Chi potrebbe immaginarlo, e dire che gli indizi al riguardo si sono sprecati, che sia alle viste una crisi drammatica?
Perenne lo stato di tensione con la Warner sin dacché “Crystal Ball” è stato cassato, si giunge alla rottura quando nel febbraio 1994 la casa discografica decide di chiudere la succursale, Paisley Park, che al Nostro era stato concesso di aprire come ringraziamento per i favolosi incassi di “Purple Rain”. Prince – che bizzarramente ha adottato a pseudonimo un simbolo che sintetizza in sé l’essenza del maschile e del femminile, dimenticandosi però di rendere noto come si dovrebbe pronunciare – la prende malissimo, fonda un’etichetta questa volta tutta sua, la succitata NPG, e come prima uscita dà alle stampe una canzone che la Warner ha rifiutato, The Most Beautiful Girl In The World, cogliendo quello che resterà l’ultimo successo vero da lì a “Musicology”. Bella rivincita che suscita una simpatia prontamente azzerata dalla successione di album che The Artist Formerly Known As Prince consegna a un’etichetta dai cui lacciuoli non vede l’ora di liberarsi: il pornografico “Come”, un alquanto raffazzonato “The Gold Experience”, un “Chaos And Disorder” su cui la dice lunga il titolo. La faida approda all’unica conclusione logica possibile, il divorzio, nel 1996. Peccato che Roger Nelson approfitti della libertà riconquistata per dare il colpo di grazia a quanto resta delle un tempo oceaniche schiere di fans rifilando loro il triplo… triplo!… “Emancipation”, che qualcosa di buono e financo di ottimo contiene ma confuso fra allucinazioni, seghe e ciarpame.
Ulteriore indizio cronache che riferiscono di una vita (tolti i concerti) da recluso in stile Howard Hughes, si direbbe che la megalomania che da sempre caratterizza Prince abbia definitivamente preso il sopravvento e costui non sia più in grado di avere un dialogo sensato con il mondo – musicale e non – che lo circonda, abitandone uno suo proprio. Sono gli anni dei riordini di archivi e dei dischi venduti solo in Internet, ai fedelissimi. Prince sembra essersi irrimediabilmente perso. Ma si ritroverà, eccome se si ritroverà.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.621, aprile 2006.
Comunque, un genio 🙂
Premetto che la mia conoscenza di Prince si limita ai 4 album che vanno dal 1984 (Purple Rain) al 1987 (Sign o’ the Times) non avrei dunque diritto di parola, non conoscendo la sua opera al completo. Comunque, ho sempre apprezzato le canzoni di quei album, anche se ora…nel 2014, faccio fatica a riascoltarli per via degli arrangiamenti tipicamente anni ’80 (la stessa cosa mi capita con “Born in the USA” di Springsteen).
Secondo me sono invecchiati male (gli arrangiamenti), come compositore era (è? chiedo a voi) straordinario!
Io non riesco proprio a scrivere male di Come, The Gold Experience, Chaos and Disorder e Emancipation…ci sono momenti di puro genio dentro questi album. Persino New Power Soul lo trovo un album fantastico…Se vogliamo l’unico veramente prescindibile della sua discografia è l’ultimo, quel 20TEN che ancora non riesco a digerire (nonostante un guizzo finale con il brano Laydown)…
Come Springsteen danneggiato dal successo immane di un album che non era il suo migliore, per quanto fenomenale, e che lo ha fatto fermare agli occhi del pubblico ai tempi di quell’exploit. Così per tanta gente che dice di capire di musica Bruce è un tamarro in canottiera e Prince un Michael Jackson con più chitarre (comunque vabbe’, off the wall thriller e un po’ pure bad dischi eccezionali)
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Il capolavoro di Prince è “Lovesexy” ed è davvero bizzarro che se ne siano accorti in pochi. In nessun altro caso (a parte, parzialmente in “1999” e in “Rainbow Children”) è stato così innovativo, ermeticamente affascinante, seducente, inarrivabile. Posso ascoltare la title-track e “Positivity” per ore, pensando alla aliena genialità di chi le ha pensate, prima ancora di comporle e suonarle.Diamonds and Pearls”, invece, è il suo lavoro più sopravvalutato, anche se non disprezzabile (perché nulla di Prince è disprezzabile).
Quando si leggono articoli come questo, che sfocia nella pura grande letteratura, non si può che restarne ammirati (indipendentemente da ciò che scrive). Un commosso grazie può bastare, V. M.?