Levataccia ieri mattina per consegnare, in colpevole ritardo ma in un orario ancora decente, la rubrica del vinile ad “Audio Review”, la numero centosedici (non è che le abbia contate, è che per salvarle da subito le numerai) da quando nel marzo di undici anni fa quelle due pagine divennero un appuntamento fisso con il lettore. Non ricordo esattamente come andò. Suppongo che parlai dell’idea con Federico Guglielmi, e per certo non faticai a convincerlo, che a sua volta ne discusse con l’editore, incontrando probabilmente lui pure zero resistenza. È che già allora il prepotente ritorno in auge del più nobile dei supporti fonografici era sotto gli occhi di tutti (come raccontavo nella lunga introduzione al primo articolo), anche se nemmeno i più entusiasti del fenomeno, fra le cui fila si poteva naturalmente annoverare il sottoscritto, avrebbero potuto immaginare quali trionfali dimensioni avrebbe assunto negli anni Dieci del nuovo secolo. In calce alle due pagine si scriveva che “questa rubrica sarà presente d’ora in avanti ogni mese”, precisando che“Eddy Cilìa scriverà di rock, pop, jazz e musica nera, mentre della classica si occuperà Marco Cicogna”. Mai mancato un appuntamento da allora.

Esattamente vent’anni fa di questi tempi (scrivo intorno alla metà di febbraio) avevo due eccellenti ragioni per essere eccitato: avevo appena pubblicato, giovanissimo, il mio primo articolo di argomento musicale, e potevo dunque fantasticare di una luminosa carriera di critico rock (avrei poi ottenuto quanto mi attendevo da essa, a parte un reddito dignitoso e intense frequentazioni femminili: esiste altro?), e avevo appena letto, sulle gloriose pagine di “Stereoplay”, la prima prova mai pubblicata (“Anteprima mondiale” si strillava orgogliosamente) dei due primi lettori CD commercializzati in Europa, l’Aurex XR-Z90 (Toshiba il costruttore) e il Sony CDP-101. Per uno come me, che ha sempre detestato il frusciare del vinile (e vi garantisco che vent’anni fa i vinili, perlomeno quelli pressati in Italia, mediamente frusciavano assai già da nuovi), un supporto fonografico che prometteva il silenzio era una panacea da non dirsi. Vero che nella lunga disamina dei due mammuttoni (non venivano neppure chiamati lettori CD ma giraDAD e l’Aurex aveva il caricamento verticale, come una piastra a cassette) il recensore Sandro Ruggieri evidenziava, fatto salvo il limitatissimo software a disposizione per un confronto con l’LP (la “Prima Sinfonia” di Mahler e “Wish You Were Here” dei Pink Floyd), prestazioni sonore non proprio impeccabili e addirittura per certi versi sconcertanti, ma l’entusiasmo per la nuova creatura digitale era tanto diffuso che pochi ci badarono.
In quel 1983 negli Stati Uniti si vendettero trentamila lettori e ottocentomila compact disc. Nel 1986 sarebbero stati, rispettivamente, tre e cinquantatré milioni. Nel 1990, nove e duecentottantotto (un miliardo complessivamente nel mondo). Mentre la massa abbracciava entusiasticamente il nuovo supporto che, da subito imbattibile per praticità d’uso lo sarebbe diventato anche per riproducibilità, i pochi che avanzavano dubbi su come suonasse, e persino osavano sostenere che il vecchio vinile gli fosse largamente superiore, venivano guardati come patetici luddisti. E in ogni caso il disco in vinile spariva man mano dai negozi, riducendosi a quote di mercato insignificanti. Ora si può serenamente dirlo: per un abbondante lustro, fin quando cioè i tecnici del suono non hanno imparato sul serio a padroneggiare il nuovo mezzo, il CD ha dato più dolori che gioie agli amanti della musica riprodotta. La situazione è poi enormemente migliorata, soprattutto nell’ambito delle ristampe di materiali d’epoca pre-digitale, ma ancora capita di imbattersi (vedasi recenti rimasterizzazioni degli hit di Presley) in autentici obbrobri. E nel frattempo è accaduto quello che nessuno si aspettava: il vinile si è rifiutato di morire. Costretto nelle riserve indiane dei mix hip hop e dance, del più oscuro indie rock e delle fiere per collezionisti, da metà anni ’90 ne è gradualmente uscito e oggi, pur con una frazione di mercato modesta, è l’unico supporto fonografico le cui vendite aumentano invece di diminuire. Merito di chi ha creduto in qualità che erano state del resto lungamente testate nei decenni del suo regno. Merito di una pletora di piccole etichette che si sono specializzate in riedizioni e della testardaggine di alcuni grandi artisti che pretendono per contratto, dalle multinazionali per cui incidono, che questi li rendano disponibili comunque anche in vinile. Merito, infine, del fatto che oggi si dedica una cura ai materiali e alla stampa che una volta era propria soltanto delle edizioni per audiofili. Oggi tutti gli LP nuovi sono edizioni per audiofili: vinile vergine che elimina quasi completamente il problema del rumore di superficie e pesi addirittura esagerati (la norma è 180 grammi ma si giunge a 210).
Avrete inteso: mai avuto paura delle innovazioni tecnologiche. Anche se non sono uno di quelli che si vendettero la collezione analogica per ricomprare gli stessi titoli in digitale (ne conosco che hanno poi fatto fuori i compact e ripreso gli LP), a casa mia ci sono oggi molti, molti più CD che non dischi in vinile. Ma le orecchie (lo strumento di misurazione più affidabile) continuano a dirmi che sul mio impianto (roba media, poi, niente di stellare) il miglioratissimo compact disc al massimo impatta una corrispondente stampa in vinile fatta a regola d’arte. Prendiamo ad esempio un’etichetta le cui registrazioni sono sempre state un modello: la Blue Note. I suoi CD suonano meravigliosamente. Ma gli LP… un’altra presenza, un altro calore, un’altra… umanità. “Nulla di umano” era lo slogan con cui Sony pubblicizzava il suo giraDAD. Un autogol.

Di lui Keith Richards, che ebbe a innamorarsene adolescente, ha detto: “Impazzivo per Johnny Cash. Luther Perkins, il suo chitarrista, era sconvolgente. E anche il modo di cantare di Johnny. Mi hanno insegnato l’importanza del silenzio nella musica: non occorre suonare per tutta la canzone. Basta suonare il necessario. Può essere una cosa mortalmente noiosa, se è fatta male. Ma quando è fatta bene crea una concentrazione e un’intensità incredibili: ecco, quelle prime canzoni di Cash erano così. Per quanto riguarda il rock’n’roll delle origini se qualcuno, per qualche ragione, potesse comprarsi l’opera completa di un solo artista e venisse da me a chiedere quale scegliere gli direi: ‘Chuck Berry è importante, ma… amico, devi prenderti Cash!’”. Non dev’essere facile e deve fare uno stranissimo effetto oggi chiamarsi Johnny Cash: una leggenda vivente – la massima nell’ambito del country e contemporaneamente del rock, un’icona per cinque generazioni, il primo e più credibile Man In Black – di cui il mondo attende, con più di un pizzico di morbosità e coccodrilli pronti nel cassetto, la morte. Più che per l’età, non ancora proprio da vegliardo (il 26 di febbraio avrà compiuto, a Dio piacendo, settantun’anni), per i tanti e terribili malanni che lo affliggono. Nel 1997 dichiarò pubblicamente di avere il morbo di Parkinson. Poco dopo gliene venne diagnosticata un’ulteriore degenerazione, la sindrome di Shy-Drager, per la quale non c’è cura e il cui decorso è usualmente rapido. Ma il nostro uomo la sta fieramente combattendo e le è già sopravvissuto più di quanto qualunque medico avrebbe pronosticato. Adesso ha a che fare pure con una neuropatia automatica ma, fra un ricovero e l’altro, continua a cercare di vivere un’esistenza quantopiù possibile normale e a produrre musica. Inevitabilmente finiti i tour interminabili in cui fu costantemente impegnato per un quarantennio, fa dischi. E che dischi! Quarto nella serie prodotta da Rick Rubin inaugurata nel 1994 con il colossale “American Recordings”, prodigiosa sequela di album che gli ha restituito un posto centrale nella musica odierna segnando per lui un vero e proprio rinascimento (artistico, critico, commerciale), “The Man Comes Around” è fuori da qualche mese.
È un disco scarno, commovente e bellissimo e se davvero per sventura dovesse essere l’ultimo che magnifico congedo sarebbe. L’ipervirile voce da sempre marchio di fabbrica è ora traversata da un lieve tremolio che in luogo di sminuirne il pathos lo incrementa. Attorniato da pochi ma straordinari musicisti (voglio citare le tastiere di Benmont Tench, dagli Heartbreakers di Tom Petty) Cash si confronta con un repertorio variegatissimo come provenienza ma che in mano a lui al solito si fa unitario e peculiare. Se Hurt dei Nine Inch Nails diviene una dolente, solenne ballata, I Hung My Head di Sting vive di una tensione di cui l’autore mai sarebbe stato capace. Se Personal Jesus dei Depeche Mode si trasforma in scheletro di rock’n’roll, Bridge Over Troubled Water di Simon & Garfunkel trasfigura in gospel. In My Life dei Beatles prende un che di autobiografico che insieme uccide e rasserena e così We’ll Meet Again, che ha lievità da musical e intensità da funerale, la stessa che caratterizza una Danny Boy (soltanto Johnny Cash sa rinnovare canzoni tanto usurate) di afflato liturgico. La felice vena di interprete (ascoltatelo duettare con Nick Cave in I’m So Lonesome I Could Cry di Hank Williams e con Don Henley in Desperado degli Eagles) trova un corrispettivo in una penna ancora aguzza, sicché fra canzoni autografe ma antiche (Give My Love To Rose risale ai tempi della Sun) svetta la nuovissima, apocalittica title-track. Ma questo lo saprete già se avete acquistato il CD. Quello che magari non sapete è che il vinile corrispondente, che è doppio e costa sui 22-23 euro, vanta a suo favore, oltre che ottimi suoni, due brani in più (non ve lo aspettavate, eh?) e fra questi una sontuosa Wichita Lineman.
Tanto altro Johnny Cash fresco di stampa se non di incisione troverete curiosando fra vinili. In particolare, la benemerita Get Back ha rimesso fuori a un prezzo abbordabilissimo (circa 15 euro al pubblico) una mezza dozzina di 33 giri originariamente griffati Sun Records, l’etichetta mamma del rock’n’roll per la quale Cash fu un prezioso paracadute una volta andatosene Elvis. Perlopiù posteriori al passaggio alla Columbia, patiscono (che quanto contengano sia immane non è da discutere) diverse sovrapposizioni di titoli. Ma il suono, sacrosantamente monofonico, è bello ruspante e la presentazione (“Story Songs Of The Trains And Rivers” meriterebbe l’acquisto anche solo per la copertina) è sempre splendida. Se ne volete soltanto uno, puntate senz’altro l’eccezionale “With His Hot And Blue Guitar!” (se ne volete due, aggiungete “Get Rhythm”), un equivalente per Cash di quello che sarà la “Sun Collection” per Presley ma diversamente da quella compilato all’epoca degli eventi. Offre quattro delle sue prime sei facciate, e fra esse Folsom Prison Blues e I Walk The Line, e questa, figli miei, è Storia.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.233, marzo 2003.
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