Archivi del mese: aprile 2014

Paul Simon sotto i cieli africani di Graceland

Avrete letto anche voi della… disavventura domestica in cui giusto ieri sono incappati Paul Simon e la sua bella quanto talentuosa moglie. Che dire? A parte che il caso già si sta sgonfiando, be’, sono cose che a volte capitano anche nelle migliori famiglie. E se si tornasse a parlare di musica? Ad esempio di “Graceland”: classico istantaneo e a suo tempo campione di incassi, disco epocale come pochi e incidentalmente pure un’influenza – decisiva e clamorosa – su una delle band più chiacchierate degli ultimi anni, i Vampire Weekend.

Paul Simon - Graceland

Classe 1941, Paul Simon è probabilmente l’unico artista ad avere attraversato la storia della popular music dall’epoca del 78 giri (usciva anche così Hey Schoolgirl, successo colto appena sedicenne e già in coppia con Art Garfunkel, ma sotto l’imbarazzante sigla Tom & Jerry) a quella dell’mp3. Un altro record del cantautore di Newark: era il primo in area pop-rock a pasticciare con quella che molto dopo sarebbe stata chiamata world music. L’anno era il 1970, l’album l’ultimo in studio con Garfunkel, “Bridge Over Troubled Water”, il brano El condor pasa, escursione andina a dire il vero alquanto kitsch ma tant’è. A inizio 1972, nell’omonimo 33 giri che tutti scambiano per il suo esordio in proprio quando già aveva pubblicato un disco da solista nel ’65, il nostro uomo risultava decisamente più convincente in una Duncan di analoga ispirazione e soprattutto nel calypso Me And Julio Down By The Schoolyard e nel reggae – in anticipo di due anni sul Clapton di I Shot The Sheriff, di uno sull’ascesa allo stardom di Bob Marley, di qualche mese su The Harder They ComeMother And Child Reunion. Inciso in Giamaica, con Leslie Kong in regia.

1984. Dopo avere disseminato di successi di critica e di pubblico la prima metà degli anni ’70, Simon è entrato nel tunnel di una crisi prima esistenziale (quantomeno un doloroso divorzio gli ha ispirato nel ’75 lo straordinario “Still Crazy After All These Years”) e quindi artistica (un mezzo disastro nell’83, pur regalando alcune canzoni superbe, “Hearts And Bones”) che gli sembra senza uscita. Pensieri di ritiro gli traversano la mente quando un bel giorno, guidando, infila nell’autoradio una cassetta di un gruppo sudafricano, tali Boyoyo Boys, prestatagli da un amico. È un’epifania degna di quella primigenia di San Paolo. Un brano in particolare – Gumboots – entusiasma il Nostro a tal punto da fargli ritagliare un testo in inglese sullo spartito originale ed è l’inizio del progetto “Graceland”. Registrato in gran parte in Sudafrica, in violazione della lettera ma non certo dello spirito dell’embargo che vigeva allora contro il regime razzista di Pretoria, fra l’ottobre ’85 e il giugno ’86, l’album veniva pubblicato il 12 agosto sempre dell’86 da una Warner ancora scottata dalle vendite deludenti dei due precedenti LP e a dir poco scettica che un disco così eclettico, e dalle sonorità spesso esotiche per l’orecchio americano, potesse funzionare. Quattordici milioni di copie vendute (cinque nei soli Stati Uniti) la faranno ricredere.

A parte quello ovvio, vale a dire l’altissima qualità della scrittura, il principale punto di forza di un’indubitabile pietra miliare quale è “Graceland” è quello di non essere ciò che facilmente sarebbe potuto diventare, vale a dire la gitarella turistica di una popstar in un paese del Terzo Mondo in cerca di fonti di ispirazione fresche da espropriare, bensì un lavoro di genuina fusione – in una cornice non colonialista ma di incontro paritario – fra culture. Vi convivono zydeco e mbaqanga, pop, rock e tex-mex, diresti di stare ascoltando doo wop e invece è isicathamiya. Ci sono Ladysmith Black Mambazo, Miriam Makeba e Youssou N’Dour ma anche gli Everly Brothers, i Los Lobos, Adrian Belew e Linda Ronstadt. Under African Skies, come recita il titolo di una canzone che – paradossalmente, coerentemente – finisce per suonare come la più “occidentale” del lotto. Meno coerente e al pari paradossale è che il venticinquennale dell’uscita di questo capolavoro a suo tempo osteggiato si appresti a venire celebrato con un profluvio di riedizioni una sola delle quali dovrebbe interessare all’appassionato che ancora non lo possieda o desideri cambiare la sua copia usurata o, al confronto, malsuonante: la più essenziale, un CD con sei tracce aggiunte al programma originale e in più un DVD a meno di venti euro. Pura follia speculativa, allo zenit con un box che costerà dieci volte tanto, tutto il resto.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.695, giugno 2012.

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Duke Ellington: uno Stravinsky ad Harlem

Non c’è niente da fare. Praticamente tutti i jazzisti che amo davvero sono stati degli eretici, per l’intera loro carriera o per un tratto cruciale di essa: Miles Davis e John Coltrane, Albert Ayler e Don Cherry, Sun Ra così come Ornette Coleman e Thelonious Monk, Charlie Parker, John Zorn, Herbie Hancock, Yusef Lateef, Sonny Rollins, l’Art Ensemble of Chicago… Poi però c’è Mingus. E poi c’è il Duca, che nasceva un 29 di aprile, di centoquindici anni fa. Al prossimo 24 maggio saranno quaranta dacché ci lasciò e più il tempo passa e più i suoi spartiti paiono, insieme, distillazione suprema di ciò che è stato il jazz e – almeno alcuni dei più complessi e suggestivi – una sorta di contraltare afroamericano della musica classica europea. Ho un discreto numero di suoi album in casa, ma molti meno di quanti mi piacerebbe averne. Questo è uno dei miei preferiti.

Duke Ellington - Ellington Uptown

Una clamorosa testimonianza della considerazione altissima di cui godeva – giustamente – il Duca presso la Columbia: in un tempo – parliamo del 1953 – in cui l’LP era ancora una costosa novità riservata perlopiù alla musica cosiddetta “seria”, non solo Ellington era sollecitato a produrre 33 giri piuttosto che singoli ma questo “Uptown” usciva su Masterworks, marchio di prestigio che griffava la musica classica meglio eseguita e meglio registrata. E personalmente non ricordo incisioni così vetuste, che non siano per l’appunto di classica, che suonino tanto bene: stupenda la naturalezza della ricca sezione di ottoni, eccezionale la presenza di una batteria di suo straripante, una favola i due pianoforti e – quando c’è – la voce.

Conterebbe poco – vedi sopra – se valesse poco la musica, ma la musica è fantastica, forse il migliore Duke Ellington di una prima metà di anni ’50 che nel suo complesso meriterebbe comunque di essere meglio considerata di quanto non sia. Lungi dall’essere “minore”, lungi dall’essersi fatto scavalcare dal bebop, è un Duca che già sta procedendo, in largo anticipo sulle suite che punteggeranno la seconda metà del decennio e i ’60 tutti, a inventarsi una forma afroamericana di classicismo. A ragione le anonime note di copertina originali che questa fedelissima e ottima riedizione Pure Pleasure riporta citano George Gershwin e Stravinsky, Debussy e Respighi. Ascoltare per credere una riscrittura di radicalità e peculiarità somme di uno storico cavallo di battaglia quale Take The A Train. Per poi girare il disco e perdersi stupefatti nel Bernstein “in jazz” di una monumentale (quasi quattordici minuti) A Tone Parallel To Harlem e nello swingare latino di una Perdido che lascia similmente senza fiato. Ca-po-la-vo-ro.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.297, gennaio 2009.

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Emozioni da poco (27): Richard Hell & The Voidoids, Fuzztones

“Vivrà mai più il rock’n’roll un altro anno di simili, copernicani rivolgimenti?”, scrivevo nel 1989  parlando del 1977. Ignorando che il 1991 incombeva.

Cheap Thrills 9

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All Right Now (una breve storia dei Free)

Free

Troppo e troppo presto: troppo successo troppo giovani perché sapessero gestirlo. In un caso, troppa intima insicurezza e troppe droghe perché la morte non arrivasse in fretta. Così che ciò che resta di Paul Kossoff, uno dei più dotati chitarristi di sempre, sono il fraseggio elegante, che continua a fare scuola, catturato nei solchi di quattro LP memorabili, e il ricordo di quanti conobbero un ragazzo timido e mite e non si perdonano di non avere fatto abbastanza per salvarlo. Oltre che una lapide fatta sistemare nel giardino di casa dal padre David, attore teatrale sopravvissuto al rampollo. Dolceamara l’iscrizione: “Paul 1950-1976 All Right Now”. Già, All Right Now: uno dei riff per antonomasia, possente ed elastico, epitome di un modo squisitamente britannico di rileggere il blues, facendolo hard, rimasto nel cuore di tanti e che da allora periodicamente torna in auge, come commento a consigli per gli acquisti o in una colonna sonora. Fu la canzone che nell’estate del 1970 fece dei Free dei divi. Paul Kossoff doveva ancora compiere vent’anni e il bassista Andy Fraser non era neppure maggiorenne. I più anziani erano il cantante Paul Rodgers e il batterista Simon Kirke, quarantun’anni in due. Ma sarà il caso di partire dall’inizio a raccontare, per quel poco che concede una pagina.

Benché imberbi i ragazzotti che danno vita ai Free nell’aprile 1968 vantano già bei curriculum. Se Paul Rodgers ha fatto parte di complessini poco più che amatoriali, Kossoff e Kirke sono stati insieme nei Black Cat Bones, formazione blues che ha avuto il suo momento di gloria accompagnando Champion Jack Dupree, e Andy Fraser viene da quella fucina di talenti chiamata Bluesbreakers. Oltre a John Mayall fra i suoi sponsor c’è Alexis Korner e la prima ragione sociale del quartetto, Free At Last, è un omaggio proprio al padrino delle dodici battute in terra d’Albione. L’alchimia che si crea fra i quattro ha del magico. Il giorno stesso in cui si conoscono, riferisce il biografo David Clayton, scrivono diverse canzoni (da subito è la coppia Fraser/Rodgers a offrire il contributo maggiore) e suonano alla festa per il quarantesimo compleanno di un Korner estasiato. Tale è la fiducia in sé che nutrono i quattro che a un meeting con la Island in settembre pongono condizioni inaudite per una band esordiente e resistono alle pressioni dell’etichetta per cambiare nome in un orrido The Heavy Metal Kids (ragione sociale di cui altri si approprieranno, da lì a quattro anni), optando per un più sobrio ed efficace Free. Registrato perlopiù in presa diretta con il fondamentale apporto del produttore Guy Stevens (lo stesso che seguirà i Clash di “London Calling”), “Tons Of Sobs” è nei negozi già in novembre e offre solido e lirico rock-blues, più raffinato del coevo debutto dei Led Zeppelin e più lineare dei Cream. La voce di Rodgers è seta e acciaio, la chitarra di Kossoff staffila e piange, il basso di Fraser è melodico e portante come solo Jack Bruce ha osato sino ad allora in ambito rock, mentre la batteria di Kirke lascia saggiamente aria perché la musica respiri, fra passi di cavalcata, scatti marziali e tocchi di fino. Spira una piacevole brezza lisergica e si levano fragranze folk. Mentre I’m A Mover annuncia un decennio almeno di hard. “Free” esce undici mesi più tardi. Non vanta un classico istantaneo come il brano summenzionato ma nell’assieme è anche più convincente, dalla chitarra effettata di I’ll Be Creepin’ alla nenia bucolica con flauto di Mourning Sad Morning. A dimostrare quanto l’etichetta creda in loro nonostante le vendite modeste del primo 33 giri, della produzione si incarica il patron Chris Blackwell. Del successivo “Fire And Water” saranno invece i Free stessi ad assumere la regia. Si sentono maturi e sono in effetti al loro zenit. Che sia racchiuso fra la possenza zeppelliniana della traccia omonima e All Right Now fa apparire l’album più duro di quanto non sia, essendo la sua unica altra accensione la roboante Mr. Big. Ciò che rimane è soul bianco stellare esemplificato dalla meravigliosa Don’t Say You Love Me. All Right Now va al numero due in Gran Bretagna e al quattro negli Stati Uniti e il 33 giri ne replica il successo. I Free sono fra i mattatori del festival di Wight, ma tutto sta già andando a rotoli. Il seguente “Highway” è artisticamente modesto e commercialmente sfortunato. Viene annunciato lo scioglimento. Sull’emozione suscitata dalla notizia il postumo, eccelso “Free Live” conquista nell’estate 1971 una quarta piazza che indurrà i Nostri a tornare insieme l’anno dopo. Decisione avventata. Né “At Last”, del 1972, né “Heartbreaker”, del ’73, sono all’altezza dei predecessori. Fraser scriverà in prevalenza per altri. Rodgers e Kirke diventeranno milionari con l’hard da stadio (ma l’omonimo esordio del ’74 è nondimeno una pietra miliare) dei Bad Company. La vita spericolata di Kossoff si trasformerà in morte squallida nella toilette di un aereo in volo fra Los Angeles e New York, il 19 marzo 1976.

Fino a non molto tempo fa il cultore del vinile desideroso di ascoltare su tale supporto il quartetto londinese non aveva altra scelta che rivolgersi al mercato dell’usato, pagando discretamente care le copie inglesi d’epoca e molto meno delle comunque valide ristampe americane di metà anni ’80. Quanto al vero e proprio audiofilo era servito malissimo, trovandosi – e a davvero caro prezzo – solo un’edizione su Universal Japan di “Fire And Water” di cui debitamente riferii. Non più da questa metà di luglio, avendo la benemerita olandese Music On Vinyl messone in circolazione una stampa almeno altrettanto valida e che dovreste pagare al massimo ventotto euro. La medesima etichetta aveva riportato nei negozi nel dicembre di due anni fa “Free”, che mi risulta ancora in catalogo. Manca dunque all’appello dei classici il solo “Tons Of Sobs”, ma credo e confido non ancora per molto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.346, settembre 2013.

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Gente che sa suonare: l’ascesa allo stardom degli Earth, Wind & Fire

Earth, Wind & Fire

Ecco un’utile funzione che avevano le copertine cosiddette “gatefold” al tempo in cui il vinile era il principale supporto fonografico e sulla quale, curiosamente, non mi era mai capitato di riflettere: contenere in un’unica foto di grandi dimensioni tutti i componenti dei gruppi dall’organico inusualmente numeroso. Dopo di che si… ahem… aprivano due possibilità: sistemare all’interno lo scatto, ed era l’opzione del quieto vivere, oppure usarlo per l’esterno e immagino le litigate, visto che ritrovarsi sul davanti o sul retro faceva una signora differenza anche prima che il CD quelli sul retro li eliminasse proprio dalla vista, rinchiudendoli nel jewel box. Secondo me ai quattro Earth, Wind & Fire su nove comunque parzialmente nascosti dall’artwork di “That’s The Way Of The World” ancora un po’ girano le scatole, trentotto anni dopo (“Ma perché? Sulle copertine dei dischi prima ci eravamo stati tutti sul davanti!”). Per quanto abbiano avuto agio di consolarsi con i sontuosi proventi di un album che, in una vicenda ultraquarantennale e ricca di successi, risulta il secondo più venduto della formazione di Chicago, tre milioni di copie nei soli Stati Uniti e ne venivano pure tratti due singoli parimenti milionari. Immagine festosa, danzerina (irrilevante che sia evidentissimamente costruita) quella che adorna l’esterno della confezione. Un’altra occupa per intero l’interno e il contrasto non potrebbe essere più stridente: lì i nostri eroi, colti a mezzo busto, guardano dritti in camera e gli sguardi sono seri, l’atmosfera cupa. Non è la stessa precisa dicotomia di cui vive l’album, ma viene naturale tracciare paralleli.

Li ho detti chicagoani, gli Earth, Wind & Fire, perché è nella Windy City che Maurice White, inconsueta figura di batterista non solo leader di un gruppo ma autore o co-autore della quasi totalità del repertorio (ciò che più conta: suoi progetto e visione), aveva i natali, ormai quasi settantadue anni fa. Lì dopo una notevole carriera da turnista per la Chess e dopo avere suonato jazz con il Ramsey Lewis Trio, niente di meno, fondava un complesso rhythm’n’blues chiamato Salty Peppers con il quale pubblicava un 45 giri di buon impatto a livello locale. Quando il seguito passava però inosservato il nostro uomo si trasferiva sulla West Coast, portando parte della band con sé e persuadendo il fratello minore (molto minore: dieci anni) Verdine, formidabile bassista e showman anche più strepitoso, a raggiungerlo. Solo allora e lì – estate 1970, Los Angeles – i Salty Peppers divenivano Earth, Wind & Fire e personalmente li trovo un gruppo molto californiano, al di là dell’idea per la quale non ci sono controprove che, fossero rimasti nell’Illinois, probabilmente la loro carriera non sarebbe decollata. Cosa che artisticamente faceva subito, mentre per i trionfi al botteghino toccherà pazientare un paio di anni, i primi tre LP alti giusto nella classifica specializzata di “Billboard” e con i singoli andava appena meglio. Ma si stavano ponendo le basi per lo strameritato stardom.

Può anche darsi che mi sbagli, ma ho sempre avuto l’impressione che in Italia Maurice White e assai variabili soci (Wikipedia elenca alcune decine di musicisti transitati da quelle parti, ma per quanto mi riguarda perché siano gli Earth, Wind & Fire basta che ci siano Maurice, Verdine e il cantante Philip Bailey) siano stati costantemente sottovalutati. Pure un po’ schifati, tanto dal pubblico del jazz che da quello del rock, che da quello legato a un’idea di black music molto anni ’60 e al di là della concessione dell’innegabile, ossia del “OK, è gente che sa suonare”. Posso ben dirlo, avendoli anch’io considerati poco per un sacco di tempo e in tutto questo c’entrerà più di qualcosa che nel Bel Paese siano diventati sul serio famosi quei cinque-sei anni dopo rispetto agli USA, in piena era disco e con il loro pezzo più smaccatamente disco (Boogie Wonderland), oltretutto prontamente doppiato da una delle ballate più zuccherine (After The Love Has Gone). E devo aggiungere altro? A casa loro invece gli Earth, Wind & Fire oltre che dal grande pubblico sono sempre stati apprezzati pure dalla critica, conquistandosi cultori per noi insospettabili come (per citarne uno) Robert Christgau. Ha riassunto bene le ragioni di tanta reverenza Steve Huey: ecco un gruppo capace di armonizzare come i migliori gruppi vocali Motown, di suonare funk duro e puro come James Brown, intricato come George Clinton, contaminato con blues, folk e persino psichedelia come Sly Stone, a suo agio con il pop e la ballata confidenziale come con l’improvvisazione jazz e, non bastasse, con un filo diretto con l’Africa. E ditemene un altro, dai.

Colonna sonora di un film che nessuno ha visto (tant’è che nessuno se lo ricorda che è una colonna sonora), fresco di impeccabile ristampa per i tipi della Speakers Corner (non facile riuscire a riprodurne al meglio le innumerevoli anime senza rischiare la schizofrenia), “That’s The Way Of The World” è forse l’album più famoso degli Earth, Wind & Fire. Magari non il migliore (molti votano per l’omonimo esordio del ’71, altrettanti per “Spirit” e tanti di più per il live “Gratitude”), ma uno dei migliori senza dubbio. Lavoro che vive dell’alternanza fra pezzi più mossi e altri decisamente piani da subito, l’attacco affidato a una Shining Star di micidiale funkness cui va dietro una romanticissima traccia omonima che viene da pensare che i Bee Gees studiarono per bene. Trucco ripetuto pari pari sulla seconda facciata, con la melliflua ma con brio Reasons a tallonare dappresso una Yearnin’ Learnin’ con Verdine sugli scudi. Una prodigiosa sintesi di questo o qualunque  altro lavoro degli Earth, Wind & Fire prende forma nel congedo See The Light: puro funk “on Broadway” fintanto che non si fa ballata, fintanto che non pare che al proscenio siano saliti i Weather Report, fintanto che non ci si ritrova in Africa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.347, ottobre 2013.

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E l’ultimo accenda la luce: il primo album degli Interpol

Non ci avevo mai fatto caso: al netto di una manciata di recensioni (una delle quali mai pubblicata dal giornale che me l’aveva richiesta) questo è l’ultimo articolo che io abbia mai scritto per “Il Mucchio”. Non sono passati che due anni e cinque mesi, ma mi sembrano secoli.

Interpol - Turn On The Bright Lights

Rispetto è dovuto a chi seppe guadagnarselo cogliendo subito il livello artistico, ma soprattutto la valenza in prospettiva, di “Turn On The Bright Lights”, esordio in lungo su Matador nell’agosto 2002 per gli Interpol. Applausi dunque al recensore di “Pitchfork” (lo citiamo non a caso, essendo il gruppo newyorkese forse il primo esempio di successo nato in Rete piuttosto che sui media tradizionali), che del disco in questione osservava che “non sarà un nuovoCloser’, o un secondoOK Computer’, ma non è impensabile che questa band possa un giorno aspirare a simili altezze”. Applausi a quello di “PopMatters”, che azzardava che, lungi dal limitarsi a cavalcare una moda, gli Interpol stessero scrivendo la Storia. Se permettete, lasciando il centro dell’Impero e tornando alla carta stampata, un “bravi!” ce lo meritiamo però pure noi, giacché non erano passati che giorni dall’uscita del loro primo album quando Paul Banks, Daniel Kessler, Carlos Dengler e Samuel Fogarino si ritrovavano sulla copertina del giornale che avete in mano. Ma soprattutto – e come sempre; e quanto ci manca! – rispetto è dovuto al compianto John Peel, che in occasione del loro primo tour britannico faceva registrare agli Interpol una delle sue leggendarie sessioni radiofoniche molti mesi prima che “Turn On The Bright Lights” vedesse la luce. Venivano immortalati nell’occasione quattro brani che si sarebbero poi tutti ritrovati fra gli undici dell’album e sono queste quattro incisioni a suggellare il CD aggiunto all’edizione del decennale del disco. Non sorprende che gli Interpol già vi esibiscano una rimarchevole maturità. Erano a quel punto in scena da tre anni e avevano perfettamente forgiato uno stile che pare oggi meno derivativo, o come minimo meno ricalcato su un unico modello, di quanto non sembrò allora.

Non ve n’eravate accorti? Ha probabilmente stabilito un record questa pagina: duemila battute riguardo a Paul Banks (leader no, portavoce sì) e compagni senza che ancora siano stati citati i Joy Division. Fatto! In Obstacle 2, in Hands Away, in The New, in NYC – ma più in generale nell’intero “Turn On The Bright Lights” – risuona più che una semplice eco del gruppo che fu di Ian Curtis: nelle chitarre sincopate come nel basso melodioso, nella batteria angolosa e più che altro in un cantato ombroso che incrementa la cupezza delle atmosfere. Nondimeno nella terza e nella quarta, a bene ascoltare, sono individuabili non meno chiaramente certi R.E.M. gotici, laddove Say Hello To The Angels è la più clamorosa canzone degli Smiths che gli Smiths si dimenticarono di scrivere, Obstacle 1 rimanda ai Talking Heads più nevrotici, Stella Was A Diver And She Was Always Down a Echo & The Bunnymen e PDA trasloca all’ombra della Grande Mela i Fall più pop.

Con il senno datoci da questa ristampa espansa (non solo due CD, anche un DVD con otto estratti da un concerto del settembre 2002 e tre clip), possiamo affermare che a rendere l’album il piccolo classico che oggettivamente è fu pure uno stringente controllo sulla qualità dei pezzi inclusi. Ne restavano fuori canzoni rispettabilissime (la nuova edizione ne regala una mezza dozzina, un paio del tutto inedite per la gioia degli estimatori di lungo corso oltre che di chi ci arriva oggi) e che però, vi avessero figurato, ne avrebbero sciupato gli equilibri, i giochi chiaroscurali, l’armoniosità del fluire. Cosi com’era (ed è, siccome le bonus sono state saggiamente sistemate tutte sul secondo dischetto), l’album si consegna definitivamente agli annali maggiori del rock segnalandosi nel farlo come l’opera che da sola avrebbe potuto giustificare la decisione di Simon Reynolds di scriverci un intero volume sulla retromania che contraddistingue i giorni nostri. Nel loro reinterpretare assortiti passati incrociandoli, nel loro evocare un’epoca – quella della new wave – con un sottile scarto che fa la ricostruzione altra rispetto al modello, gli Interpol si svelano paradossalmente modernissimi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.701, dicembre 2012.

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Emozioni da poco (26): Rokes, Equipe 84, Dik Dik, Giganti

Emozioni da poco raddoppiate in una rara puntata espansa di “Cheap Thrills” dedicata al beat italiano. Fra il serio e il faceto.

Cheap Thrills 8-1

Cheap Thrills 8-2

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L’era aurea di Big Youth

Compie oggi sessantacinque anni un grandissimo del reggae, Manley Augustus Buchanan, in arte Big Youth. La sua stella brillò in realtà per un arco di tempo piuttosto limitato, ma di una luce abbagliante.

Big Youth

Quel che si dice un enfant prodige: a sedici anni – era il 1971 – Manley Augustus Buchanan di giorno, onde potersi permettere il pranzo e la cena, faceva il meccanico. La sera invece metteva dischi in uno dei sound system più importanti di Giamaica, quello di Lord Tippertone. Non si limitava però a suonarli, no. Ci parlava sopra. Era già una piccola tradizione nell’isola per il selecter quella di presentare i pezzi e occasionalmente di vedere immortalate le proprie tirate su vinile. Persino in era ska se ne trovano tracce, raccontano Steve Barrow e Peter Dalton nel fondamentale Reggae – The Rough Guide, citando Winston “Count” Machuki che fa capolino nella ribollente Alcatraz della Baba Brooks Band e i due megahit di Sir Lord Comic, Ska-ing West e The Great Wuga Wuga, in cui la voce arringante è protagonista assoluta. E sarà evidente a questo punto a chi legge, pur se digiuno di reggae, che in tale forma musicale il deejay è l’equivalente di quello che sarà l’mc nell’hip hop, ove il dj è invece chi allestisce le basi. Sul finire degli anni ’60 King Stitt aveva dato una rilevanza inedita a tale figura, con uno stile mutuato dai programmatori radiofonici di rhythm’n’blues di Miami e New Orleans, captati sulle onde medie pure sull’isola caraibica. Elementari i suoi testi, incisivo lo scilinguagnolo  teso a riprodurre l’eccitazione delle feste danzanti. Il nuovo stile compiva un decisivo passo in avanti con U-Roy, non a caso soprannominato The Originator, ma era con il giovane Buchanan, ribattezzatosi Big Youth, che la sua popolarità dilagava.

Il 1971 è l’anno del compimento dell’apprendistato per lui. Il ’72 lo vede registrare 45 giri dopo 45 giri e portare fino a cinque titoli contemporaneamente nelle prime dieci piazze in classifica, sicché sporcarsi le mani d’olio per motori non è più una necessità. Forte ed esilarante l’impatto, latita ancora la consapevolezza, limitandosi i versi che scandisce a un generico incitamento al ballo, all’esaltazione del suo sound system a scapito di altri, alle vanterie vanagloriose tipiche della cultura afroamericana che con il rap raggiungeranno un’apoteosi. L’anno chiave è il ’73. All’entusiasmo che ha salutato nel febbraio precedente l’elezione a primo ministro di Michael Manley sta subentrando la delusione per la timidezza riformista del suo People’s National Party, schiettamente socialdemocratico e già discretamente corrotto. La fuga verso il misticismo (battagliero assai, però, e pratica di vita radicalmente alternativa cui non vale accostarsi, pena la totale incomprensione, equipaggiati con il sistema di valori che ci è proprio) del rastafarianesimo trova sempre più proseliti. Tra essi, tantissimi cantanti e musicisti. Tra essi, l’ormai maggiorenne e maturo Big Youth. La sua dizione si fa più chiaramente intelleggibile sia per un naturale affinamento che per il desiderio di rendere le parole maggiormente comprensibili per chi ascolta. Sale vertiginosamente la qualità dei testi, fra i quali non mancano (né mai mancheranno) serenate amorose o guasconate un po’ macho ma che vedono ora prevalere tensioni di ritorno all’Africa e citazioni bibliche anche estese, e naturalmente salmi diretti al Signore. Tipo I Pray Thee, fervorosamente scandito sul ritmo della classicissima Satta Massa Gana degli Abyssinians.

Anno cruciale il 1973, dunque, per Mr Buchanan, che fra l’altro debutta a 33 giri con l’eccellente “Screaming Target” (su Gussie in Giamaica, sull’immancabile Trojan in Gran Bretagna). Produzione accorta di un altro giovanissimo, Gussie Clarke, e ritmi sagacemente pescati nei cataloghi di gente come Gregory Isaacs, Leroy Smart, Lloyd Parks e K.C. White (la saccheggiatissima No, No, No). Isaacs e White sono presenti pure di persona, come anche Dennis Brown, ed è un tripudio di rime che si rincorrono su ritmi agili e muscolosi insieme, punteggiati da tastiere e fiati esuberanti. Fino a ieri era il primo titolo di Big Youth da mettersi in casa, insieme al di tre anni successivo “Natty Cultural Dread”. Inalterata la sua rilevanza, consiglierei piuttosto chi volesse farsi un’idea un po’ più approfondita di questo grandissimo della battuta in levare di porre mano al portafoglio per “Natty Universal Dread 1973-1979”, cofanetto di tre CD allestito da quei benemeriti della Blood And Fire che raggiungerà i negozi proprio quando il giornale che avete in mano sarà in edicola. Cinquantuno i brani inclusi, due ore e quaranta abbondanti il minutaggio e una scaletta che segue il Nostro fino a quel crepuscolo di decennio in cui la sua fiamma cominciò a languire, scoppiettando nondimeno vividissima giusto un attimo prima di declinare.

Primo dischetto interamente dedicato al 1973. Prossimità alla dancehall e un presagio di ragga nell’iniziale Chucky No Lucky, fraseggi d’organo infiorettanti Hot Cross Bun, coloriture di ottoni post-ska in Mr. Buddy, cori epidermici e piano saltellante in Downtown Kingston Pollution, fragranze gospel in Things In The Light e soul purissimo (pop purissimo) nella conclusiva Streets In Africa. Uno scrigno colmo di gioielli e la celebrazione è appena cominciata. Il secondo CD sceglie ancora nell’anno magico ’73 e si spinge fino al 1975, con una Reggae Phenomenon che non fa sembrare arrogante il titolo, l’inchino davanti a John Coltrane di Jim Screechy, belle apparizioni di U-Roy in Battle Of The Giants e Leroy Smart nella Love And Happiness di Al Green e l’orgogliosa Every Nigger Is A Star, coeva di Every Nigga Is A Winner di Prince Jazzbo (vedi pagine delle recensioni). Il terzo copre dal ’75 al ’79, vede ancora Smart protagonista in Keep On Trying e Junior Byles destreggiarsi da par suo in Sugar Sugar, omaggia Burning Spear in Mosiah Garvey e Ray Charles in Hit The Road Jack. Approdo e congedo: Political Confusion. Carisma ed efficacia marleyane. Il 2000 ci ha regalato ristampe di reggae sublimi: “Natty Universal Dread” è fra i top.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”,  n.419, 21 novembre 2000.

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The Man In Black (Vinyl)

Levataccia ieri mattina per consegnare, in colpevole ritardo ma in un orario ancora decente, la rubrica del vinile ad “Audio Review”, la numero centosedici (non è che le abbia contate, è che per salvarle da subito le numerai) da quando nel marzo di undici anni fa quelle due pagine divennero un appuntamento fisso con il lettore. Non ricordo esattamente come andò. Suppongo che parlai dell’idea con Federico Guglielmi, e per certo non faticai a convincerlo, che a sua volta ne discusse con l’editore, incontrando probabilmente lui pure zero resistenza. È che già allora il prepotente ritorno in auge del più nobile dei supporti fonografici era sotto gli occhi di tutti (come raccontavo nella lunga introduzione al primo articolo), anche se nemmeno i più entusiasti del fenomeno, fra le cui fila si poteva naturalmente annoverare il sottoscritto, avrebbero potuto immaginare quali trionfali dimensioni avrebbe assunto negli anni Dieci del nuovo secolo. In calce alle due pagine si scriveva che “questa rubrica sarà presente d’ora in avanti ogni mese”, precisando che“Eddy Cilìa scriverà di rock, pop, jazz e musica nera, mentre della classica si occuperà Marco Cicogna”. Mai mancato un appuntamento da allora.

Black Vinyl

Esattamente vent’anni fa di questi tempi (scrivo intorno alla metà di febbraio) avevo due eccellenti ragioni per essere eccitato: avevo appena pubblicato, giovanissimo, il mio primo articolo di argomento musicale, e potevo dunque fantasticare di una luminosa carriera di critico rock (avrei poi ottenuto quanto mi attendevo da essa, a parte un reddito dignitoso e intense frequentazioni femminili: esiste altro?), e avevo appena letto, sulle gloriose pagine di “Stereoplay”, la prima prova mai pubblicata (“Anteprima mondiale” si strillava orgogliosamente) dei due primi lettori CD commercializzati in Europa, l’Aurex XR-Z90 (Toshiba il costruttore) e il Sony CDP-101. Per uno come me, che ha sempre detestato il frusciare del vinile (e vi garantisco che vent’anni fa i vinili, perlomeno quelli pressati in Italia, mediamente frusciavano assai già da nuovi), un supporto fonografico che prometteva il silenzio era una panacea da non dirsi. Vero che nella lunga disamina dei due mammuttoni (non venivano neppure chiamati lettori CD ma giraDAD e l’Aurex aveva il caricamento verticale, come una piastra a cassette) il recensore Sandro Ruggieri evidenziava, fatto salvo il limitatissimo software a disposizione per un confronto con l’LP (la “Prima Sinfonia” di Mahler e “Wish You Were Here” dei Pink Floyd), prestazioni sonore non proprio impeccabili e addirittura per certi versi sconcertanti, ma l’entusiasmo per la nuova creatura digitale era tanto diffuso che pochi ci badarono.

In quel 1983 negli Stati Uniti si vendettero trentamila lettori e ottocentomila compact disc. Nel 1986 sarebbero stati, rispettivamente, tre e cinquantatré milioni. Nel 1990, nove e duecentottantotto (un miliardo complessivamente nel mondo). Mentre la massa abbracciava entusiasticamente il nuovo supporto che, da subito imbattibile per praticità d’uso lo sarebbe diventato anche per riproducibilità, i pochi che avanzavano dubbi su come suonasse, e persino osavano sostenere che il vecchio vinile gli fosse largamente superiore, venivano guardati come patetici luddisti. E in ogni caso il disco in vinile spariva man mano dai negozi, riducendosi a quote di mercato insignificanti. Ora si può serenamente dirlo: per un abbondante lustro, fin quando cioè i tecnici del suono non hanno imparato sul serio a padroneggiare il nuovo mezzo, il CD ha dato più dolori che gioie agli amanti della musica riprodotta. La situazione è poi enormemente migliorata, soprattutto nell’ambito delle ristampe di materiali d’epoca pre-digitale, ma ancora capita di imbattersi (vedasi recenti rimasterizzazioni degli hit di Presley) in autentici obbrobri. E nel frattempo è accaduto quello che nessuno si aspettava: il vinile si è rifiutato di morire. Costretto nelle riserve indiane dei mix hip hop e dance, del più oscuro indie rock e delle fiere per collezionisti, da metà anni ’90 ne è gradualmente uscito e oggi, pur con una frazione di mercato modesta, è l’unico supporto fonografico le cui vendite aumentano invece di diminuire. Merito di chi ha creduto in qualità che erano state del resto lungamente testate nei decenni del suo regno. Merito di una pletora di piccole etichette che si sono specializzate in riedizioni e della testardaggine di alcuni grandi artisti che pretendono per contratto, dalle multinazionali per cui incidono, che questi li rendano disponibili comunque anche in vinile. Merito, infine, del fatto che oggi si dedica una cura ai materiali e alla stampa che una volta era propria soltanto delle edizioni per audiofili. Oggi tutti gli LP nuovi sono edizioni per audiofili: vinile vergine che elimina quasi completamente il problema del rumore di superficie e pesi addirittura esagerati (la norma è 180 grammi ma si giunge a 210).

Avrete inteso: mai avuto paura delle innovazioni tecnologiche. Anche se non sono uno di quelli che si vendettero la collezione analogica per ricomprare gli stessi titoli in digitale (ne conosco che hanno poi fatto fuori i compact e ripreso gli LP), a casa mia ci sono oggi molti, molti più CD che non dischi in vinile. Ma le orecchie (lo strumento di misurazione più affidabile) continuano a dirmi che sul mio impianto (roba media, poi, niente di stellare) il miglioratissimo compact disc al massimo impatta una corrispondente stampa in vinile fatta a regola d’arte. Prendiamo ad esempio un’etichetta le cui registrazioni sono sempre state un modello: la Blue Note. I suoi CD suonano meravigliosamente. Ma gli LP… un’altra presenza, un altro calore, un’altra… umanità. “Nulla di umano” era lo slogan con cui Sony pubblicizzava il suo giraDAD. Un autogol.

Johnny Cash

Di lui Keith Richards, che ebbe a innamorarsene adolescente, ha detto: “Impazzivo per Johnny Cash. Luther Perkins, il suo chitarrista, era sconvolgente. E anche il modo di cantare di Johnny. Mi hanno insegnato l’importanza del silenzio nella musica: non occorre suonare per tutta la canzone. Basta suonare il necessario. Può essere una cosa mortalmente noiosa, se è fatta male. Ma quando è fatta bene crea una concentrazione e un’intensità incredibili: ecco, quelle prime canzoni di Cash erano così. Per quanto riguarda il rock’n’roll delle origini se qualcuno, per qualche ragione, potesse comprarsi l’opera completa di un solo artista e venisse da me a chiedere quale scegliere gli direi: ‘Chuck Berry è importante, ma… amico, devi prenderti Cash!’”. Non dev’essere facile e deve fare uno stranissimo effetto oggi chiamarsi Johnny Cash: una leggenda vivente – la massima nell’ambito del country e contemporaneamente del rock, un’icona per cinque generazioni, il primo e più credibile Man In Black – di cui il mondo attende, con più di un pizzico di morbosità e coccodrilli pronti nel cassetto, la morte. Più che per l’età, non ancora proprio da vegliardo (il 26 di febbraio avrà compiuto, a Dio piacendo, settantun’anni), per i tanti e terribili malanni che lo affliggono. Nel 1997 dichiarò pubblicamente di avere il morbo di Parkinson. Poco dopo gliene venne diagnosticata un’ulteriore degenerazione, la sindrome di Shy-Drager, per la quale non c’è cura e il cui decorso è usualmente rapido. Ma il nostro uomo la sta fieramente combattendo e le è già sopravvissuto più di quanto qualunque medico avrebbe pronosticato. Adesso ha a che fare pure con una neuropatia automatica ma, fra un ricovero e l’altro, continua a cercare di vivere un’esistenza quantopiù possibile normale e a produrre musica. Inevitabilmente finiti i tour interminabili in cui fu costantemente impegnato per un quarantennio, fa dischi. E che dischi! Quarto nella serie prodotta da Rick Rubin inaugurata nel 1994 con il colossale “American Recordings”, prodigiosa sequela di album che gli ha restituito un posto centrale nella musica odierna segnando per lui un vero e proprio rinascimento (artistico, critico, commerciale), “The Man Comes Around” è fuori da qualche mese.

È un disco scarno, commovente e bellissimo e se davvero per sventura dovesse essere l’ultimo che magnifico congedo sarebbe. L’ipervirile voce da sempre marchio di fabbrica è ora traversata da un lieve tremolio che in luogo di sminuirne il pathos lo incrementa. Attorniato da pochi ma straordinari musicisti (voglio citare le tastiere di Benmont Tench, dagli Heartbreakers di Tom Petty) Cash si confronta con un repertorio variegatissimo come provenienza ma che in mano a lui al solito si fa unitario e peculiare. Se Hurt dei Nine Inch Nails diviene una dolente, solenne ballata, I Hung My Head di Sting vive di una tensione di cui l’autore mai sarebbe stato capace. Se Personal Jesus dei Depeche Mode si trasforma in scheletro di rock’n’roll, Bridge Over Troubled Water di Simon & Garfunkel trasfigura in gospel. In My Life dei Beatles prende un che di autobiografico che insieme uccide e rasserena e così We’ll Meet Again, che ha lievità da musical e intensità da funerale, la stessa che caratterizza una Danny Boy (soltanto Johnny Cash sa rinnovare canzoni tanto usurate) di afflato liturgico. La felice vena di interprete (ascoltatelo duettare con Nick Cave in I’m So Lonesome I Could Cry di Hank Williams e con Don Henley in Desperado degli Eagles) trova un corrispettivo in una penna ancora aguzza, sicché fra canzoni autografe ma antiche (Give My Love To Rose risale ai tempi della Sun) svetta la nuovissima, apocalittica title-track. Ma questo lo saprete già se avete acquistato il CD. Quello che magari non sapete è che il vinile corrispondente, che è doppio e costa sui 22-23 euro, vanta a suo favore, oltre che ottimi suoni, due brani in più (non ve lo aspettavate, eh?) e fra questi una sontuosa Wichita Lineman.

Tanto altro Johnny Cash fresco di stampa se non di incisione troverete curiosando fra vinili. In particolare, la benemerita Get Back ha rimesso fuori a un prezzo abbordabilissimo (circa 15 euro al pubblico) una mezza dozzina di 33 giri originariamente griffati Sun Records, l’etichetta mamma del rock’n’roll per la quale Cash fu un prezioso paracadute una volta andatosene Elvis. Perlopiù posteriori al passaggio alla Columbia, patiscono (che quanto contengano sia immane non è da discutere) diverse sovrapposizioni di titoli. Ma il suono, sacrosantamente monofonico, è bello ruspante e la presentazione (“Story Songs Of The Trains And Rivers” meriterebbe l’acquisto anche solo per la copertina) è sempre splendida. Se ne volete soltanto uno, puntate senz’altro l’eccezionale “With His Hot And Blue Guitar!” (se ne volete due, aggiungete “Get Rhythm”), un equivalente per Cash di quello che sarà la “Sun Collection” per Presley ma diversamente da quella compilato all’epoca degli eventi. Offre quattro delle sue prime sei facciate, e fra esse Folsom Prison Blues e I Walk The Line, e questa, figli miei, è Storia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.233, marzo 2003.

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The Afghan Whigs – Do To The Beast (Sub Pop)

The Afghan Whigs - Do To The Beast

Dio, quanto li ho amati gli Afghan Whigs… Fra tutti i gruppi della scena grunge erano gli unici (eccettuati quegli interessanti minori dei Big Chief) a sapere dove stesse di casa il soul e il termine era da intendersi tanto nella sua accezione squisitamente musicale che in quella esistenziale. Qualcosa avrà naturalmente contato la provenienza: Cincinnati, molto più vicina a Chicago e soprattutto a Detroit – e da quella che fu la Città dei Motori prendevano non il livido urlo stoogesiano bensì il sensuale afflato pop della Motown – che non a Seattle. E più di qualcosa contava naturalmente che a guidarli fosse Greg Dulli: un po’ dandy e un po’ bad boy, spirito edonista e tormentato, penna per alcuni anni ispiratissima e forse la voce più bella della sua generazione. Interprete superlativo e più che i tanti pur memorabili brani autografi chiamo a testimonianza di ciò certe incredibili cover, dalle Supremes a Barry White passando per Tyron Davis e Al Green. Mancavano dalle scene da sedici anni i Nostri, ma posso dire davvero che mi siano mancati? No, perché il congedo, che pur non mi aveva entusiasmato, “1965”, era stato dignitoso ed era un modo accettabile di chiudere una vicenda di quelle che merita sempre raccontare, in calo evidente ma non ancora precipitoso. E poi in tutto questo tempo non è che Greg Dulli non abbia dato notizie di sé ed erano in genere (vedasi positiva esperienza Gutter Twins) buone nuove. Quando sono venuto a sapere che gli Afghan Whigs erano nuovamente in pista ho incrociato le dita. Speravo quantomeno in qualcosa di meglio di quanto offerto dai redivivi Soundgarden. Ascoltato e riascoltato e riascoltato ancora “Do To The Beast”, avrei adesso una gran voglia di liquidarlo con le quattro immortali parole con le quali Greil Marcus salutò il Dylan di “Self Portrait”: che è ’sta merda?

Non lo faccio perché ovunque mi legga il lettore merita di più. Non lo faccio per affetto per una storia gloriosa che un post-scriptum così non lo meritava. Non lo faccio perché vaghe ombre di ciò che rese grandissimo questo gruppo (si è defilato all’ultimo il chitarrista Rick McCollum, che così mantiene vergine la sua reputazione) pur tuttavia si allungano su “Do To The Beast”. Ad esempio sul singolo che l’ha preceduto di un mese e aveva fatto ben sperare, Algiers, rock elettroacustico radiofonico sul lato giusto della ruffianeria, non la fine del mondo e però magari ne avessero buttato dentro altre quattro o cinque di canzoni così. Ad esempio sull’iniziale Parked Outside, bel riffone hard pregno di blues con il torto di non portare sostanzialmente da nessuna parte. Ad esempio sul brano che gli va subito dietro, Matamoros, che non è che parta benissimo con il suo fare il verso ai Living Colour più formulaici, ma poi svolta intrigantemente con una melodia psico-arabeggiante. Peccato che già con una It Kills dal languido al tronfio le cose prendano ad andar male e, tolto il singolo, da lì alla fine non ci si ripiglia mai. Sconfortanti certi momenti in cui formalmente gli elementi che fecero degli Afghan Whigs la band che erano – in primis l’empito soul – soccombono alla banalità delle idee e al debordare di arrangiamenti orchestrali. Terribili quel paio (The Lottery, Royal Cream) in cui provano a fare i Nirvana e finiscono per ricordare i Bush. Gli inglesi, naturalmente, colpevoli di crimini contro l’umanità quasi peggiori di quelli commessi da quegli altri Bush, padre e figlio.

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