Ecco un’utile funzione che avevano le copertine cosiddette “gatefold” al tempo in cui il vinile era il principale supporto fonografico e sulla quale, curiosamente, non mi era mai capitato di riflettere: contenere in un’unica foto di grandi dimensioni tutti i componenti dei gruppi dall’organico inusualmente numeroso. Dopo di che si… ahem… aprivano due possibilità: sistemare all’interno lo scatto, ed era l’opzione del quieto vivere, oppure usarlo per l’esterno e immagino le litigate, visto che ritrovarsi sul davanti o sul retro faceva una signora differenza anche prima che il CD quelli sul retro li eliminasse proprio dalla vista, rinchiudendoli nel jewel box. Secondo me ai quattro Earth, Wind & Fire su nove comunque parzialmente nascosti dall’artwork di “That’s The Way Of The World” ancora un po’ girano le scatole, trentotto anni dopo (“Ma perché? Sulle copertine dei dischi prima ci eravamo stati tutti sul davanti!”). Per quanto abbiano avuto agio di consolarsi con i sontuosi proventi di un album che, in una vicenda ultraquarantennale e ricca di successi, risulta il secondo più venduto della formazione di Chicago, tre milioni di copie nei soli Stati Uniti e ne venivano pure tratti due singoli parimenti milionari. Immagine festosa, danzerina (irrilevante che sia evidentissimamente costruita) quella che adorna l’esterno della confezione. Un’altra occupa per intero l’interno e il contrasto non potrebbe essere più stridente: lì i nostri eroi, colti a mezzo busto, guardano dritti in camera e gli sguardi sono seri, l’atmosfera cupa. Non è la stessa precisa dicotomia di cui vive l’album, ma viene naturale tracciare paralleli.
Li ho detti chicagoani, gli Earth, Wind & Fire, perché è nella Windy City che Maurice White, inconsueta figura di batterista non solo leader di un gruppo ma autore o co-autore della quasi totalità del repertorio (ciò che più conta: suoi progetto e visione), aveva i natali, ormai quasi settantadue anni fa. Lì dopo una notevole carriera da turnista per la Chess e dopo avere suonato jazz con il Ramsey Lewis Trio, niente di meno, fondava un complesso rhythm’n’blues chiamato Salty Peppers con il quale pubblicava un 45 giri di buon impatto a livello locale. Quando il seguito passava però inosservato il nostro uomo si trasferiva sulla West Coast, portando parte della band con sé e persuadendo il fratello minore (molto minore: dieci anni) Verdine, formidabile bassista e showman anche più strepitoso, a raggiungerlo. Solo allora e lì – estate 1970, Los Angeles – i Salty Peppers divenivano Earth, Wind & Fire e personalmente li trovo un gruppo molto californiano, al di là dell’idea per la quale non ci sono controprove che, fossero rimasti nell’Illinois, probabilmente la loro carriera non sarebbe decollata. Cosa che artisticamente faceva subito, mentre per i trionfi al botteghino toccherà pazientare un paio di anni, i primi tre LP alti giusto nella classifica specializzata di “Billboard” e con i singoli andava appena meglio. Ma si stavano ponendo le basi per lo strameritato stardom.
Può anche darsi che mi sbagli, ma ho sempre avuto l’impressione che in Italia Maurice White e assai variabili soci (Wikipedia elenca alcune decine di musicisti transitati da quelle parti, ma per quanto mi riguarda perché siano gli Earth, Wind & Fire basta che ci siano Maurice, Verdine e il cantante Philip Bailey) siano stati costantemente sottovalutati. Pure un po’ schifati, tanto dal pubblico del jazz che da quello del rock, che da quello legato a un’idea di black music molto anni ’60 e al di là della concessione dell’innegabile, ossia del “OK, è gente che sa suonare”. Posso ben dirlo, avendoli anch’io considerati poco per un sacco di tempo e in tutto questo c’entrerà più di qualcosa che nel Bel Paese siano diventati sul serio famosi quei cinque-sei anni dopo rispetto agli USA, in piena era disco e con il loro pezzo più smaccatamente disco (Boogie Wonderland), oltretutto prontamente doppiato da una delle ballate più zuccherine (After The Love Has Gone). E devo aggiungere altro? A casa loro invece gli Earth, Wind & Fire oltre che dal grande pubblico sono sempre stati apprezzati pure dalla critica, conquistandosi cultori per noi insospettabili come (per citarne uno) Robert Christgau. Ha riassunto bene le ragioni di tanta reverenza Steve Huey: ecco un gruppo capace di armonizzare come i migliori gruppi vocali Motown, di suonare funk duro e puro come James Brown, intricato come George Clinton, contaminato con blues, folk e persino psichedelia come Sly Stone, a suo agio con il pop e la ballata confidenziale come con l’improvvisazione jazz e, non bastasse, con un filo diretto con l’Africa. E ditemene un altro, dai.
Colonna sonora di un film che nessuno ha visto (tant’è che nessuno se lo ricorda che è una colonna sonora), fresco di impeccabile ristampa per i tipi della Speakers Corner (non facile riuscire a riprodurne al meglio le innumerevoli anime senza rischiare la schizofrenia), “That’s The Way Of The World” è forse l’album più famoso degli Earth, Wind & Fire. Magari non il migliore (molti votano per l’omonimo esordio del ’71, altrettanti per “Spirit” e tanti di più per il live “Gratitude”), ma uno dei migliori senza dubbio. Lavoro che vive dell’alternanza fra pezzi più mossi e altri decisamente piani da subito, l’attacco affidato a una Shining Star di micidiale funkness cui va dietro una romanticissima traccia omonima che viene da pensare che i Bee Gees studiarono per bene. Trucco ripetuto pari pari sulla seconda facciata, con la melliflua ma con brio Reasons a tallonare dappresso una Yearnin’ Learnin’ con Verdine sugli scudi. Una prodigiosa sintesi di questo o qualunque altro lavoro degli Earth, Wind & Fire prende forma nel congedo See The Light: puro funk “on Broadway” fintanto che non si fa ballata, fintanto che non pare che al proscenio siano saliti i Weather Report, fintanto che non ci si ritrova in Africa.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.347, ottobre 2013.
Una grandissima band. Molto felice di leggere questo articolo, VMO, mi fa sentire meno strano nell’apprezzarli da sempre!
Felicissimo pure io di saperti loro estimatore! Non avendo mai letto prima cose tue su di loro e non avendoli visti comparire né tra i 1000 fondamentali né nella lista dei 100 album black pubblicata anni fa da Extra temevo non ti piacessero…
mi inserisco nel gregge e dico che secondo me “Gratitude”, in una discoteca di black minima che si rispetti, ci dovrebbe proprio stare (poi, da lì, mi sa che uno se ne mette in casa molti altri loro).
È vero. Sicuramente sottovalutati in Italia, ma comunque musicisti che hanno prodotto musica di altissimo livello, toccando un ampio spettro di generi. Davvero grandiosi.
Cerco altro scritti in italiano su di loro. Suggerimenti? Grazie
Nessuno, sfortunatamente. Ne avranno anche pubblicati, ma non ricordo un singolo articolo su costoro.