Il vuoto del futuro che battezza il secondo album in proprio di Erika M. Anderson è in realtà il vuoto di un presente fatto di tanti piccoli hype figli di una disperazione legittima: quella di chi non avendone mai ascoltata vorrebbe convincersi che ci sia in giro tanta musica nuova – o se non nuova fresca, o se non fresca personale, o se non personale così ben fatta da potere vivere nel mondo là fuori, quello che non legge “Pitchfork”, in quanto semplicemente memorabile; dunque capace di trascendere la quotidianeità frenetica del tanto rumore per quasi invariabilmente nulla – e non sa darsi pace alla constatazione che così non è. Che il meglio che si possa scorgere guardandosi attorno sono i riciclatori più abili, i TV On The Radio, i Fleet Foxes, i Jonathan Wilson del caso, che è come dire che il taglia-e-cuci è pur sempre meglio del copia-e-incolla e che ad accontentarsi si può godere ancora un po’. In questo senso il futuro è davvero vuoto: che il presente sta offrendo poco, pochissimo, quasi nulla degno di venire ricordato (magari persino rimpianto) nel lungo, medio o anche solo nel breve termine. E si può ben capire chi ha vent’anni, chi ne ha trenta, o trentacinque e ancora si sente chiamare “giovane”, se tutto questo stenta ad accettarlo e vorrebbe “a riot of his own”. Se prova a inventarselo.
Età indefinita e indefinibile ma certamente oltre i trenta e anche di un po’ se si considera che già nei tardi ’90 collaborava con gli Amps For Christ infiltrando il folk di rumore e viceversa, EMA è il nome più chiacchierato in ambito indie di questo inizio 2014. Sarà che il look/non look, con quelle foto spesso con la faccia seminascosta, è forte. Sarà che il curriculum è solido, dopo gli Amps For Christ i Gowns e lì era un gusto neo-psichedelico a impregnare il folk. Sarà che dopo le prove tecniche di trasmissione dei “Little Sketches On Tape” nel 2011 il primo album “vero” come EMA della Anderson, “Past Life Martyred Saints”, risultava piuttosto convincente per costruzione, suoni, atmosfere e promettente sotto il profilo della scrittura e che mettere tre anni fra quello e il seguito ha sobillato aspettative moltiplicate oltretutto dal passaggio dalla minuscola Souterrain Transmissions a un nome storico dell’alternative USA quale Matador. Fatto è che “The Future’s Void” era un evento prima ancora di vedere la luce. Doveva essere un disco importante e in un certo qual modo lo è, ma non in positivo. Lo diventa in quanto rappresentazione plastica di come i media – certa stampa, certi siti, certi blog – possano creare fenomeni che però quasi sempre restano appannaggio di un pubblico numericamente modesto, al di là della modestia delle cifre del mercato attuale. Noi siamo qui a parlare di EMA ma il mondo appartiene a Emma, se capite cosa intendo. Per prendersi quel mondo lì, o almeno per provare a conservarsi questo in cui qualcuno ha comunque cominciato ad alzare la manina ed esprimere dubbi, servirà alla Anderson ben altro che un disco così, slegato nel suo accostare alla rinfusa schegge di rumore e melodie traballanti e incredibilmente datato nelle sonorità, nelle dinamiche, nell’immaginario. Ma di quale modernità stiamo parlando? Dice bene il recensore di “Tiny Mix Tapes” (cui peraltro è piaciuto e pure tanto) quando osserva, 1), che “The Future’s Void” è inimmaginabile prima del 1994 e, 2), che è un album del 1994. Tutto porta lì, dalle sequenze piano-forte-piano tipiche del grunge al rimbalzare fra la ballata e lo stridore industrial, Garbage e Nine Inch Nails modelli evidenti, Kurt Cobain santino nel portafoglio, i Pavement e PJ Harvey ideali cui tendere ma che non si riesce manco ad approssimare. Perché il punto non è nemmeno che il disco più atteso del 2014 è in realtà un disco del 1994 (chissenefrega, quando tanto tutti riciclano), è che è un mediocre disco del 1994. A parte l’acustica e pop (per Billy Corgan o Evan Dando sarebbe potuta essere un buon lato B) When She Comes, gli mancano proprio le canzoni.