Archivi del mese: aprile 2014

EMA – The Future’s Void (Matador)

EMA - The Future's Void

Il vuoto del futuro che battezza il secondo album in proprio di Erika M. Anderson è in realtà il vuoto di un presente fatto di tanti piccoli hype figli di una disperazione legittima: quella di chi non avendone mai ascoltata vorrebbe convincersi che ci sia in giro tanta musica nuova – o se non nuova fresca, o se non fresca personale, o se non personale così ben fatta da potere vivere nel mondo là fuori, quello che non legge “Pitchfork”, in quanto semplicemente memorabile; dunque capace di trascendere la quotidianeità frenetica del tanto rumore per quasi invariabilmente nulla – e non sa darsi pace alla constatazione che così non è. Che il meglio che si possa scorgere guardandosi attorno sono i riciclatori più abili, i TV On The Radio, i Fleet Foxes, i Jonathan Wilson del caso, che è come dire che il taglia-e-cuci è pur sempre meglio del copia-e-incolla e che ad accontentarsi si può godere ancora un po’. In questo senso il futuro è davvero vuoto: che il presente sta offrendo poco, pochissimo, quasi nulla degno di venire ricordato (magari persino rimpianto) nel lungo, medio o anche solo nel breve termine. E si può ben capire chi ha vent’anni, chi ne ha trenta, o trentacinque e ancora si sente chiamare “giovane”, se tutto questo stenta ad accettarlo e vorrebbe “a riot of his own”. Se prova a inventarselo.

Età indefinita e indefinibile ma certamente oltre i trenta e anche di un po’ se si considera che già nei tardi ’90 collaborava con gli Amps For Christ infiltrando il folk di rumore e viceversa, EMA è il nome più chiacchierato in ambito indie di questo inizio 2014. Sarà che il look/non look, con quelle foto spesso con la faccia seminascosta, è forte. Sarà che il curriculum è solido, dopo gli Amps For Christ i Gowns e lì era un gusto neo-psichedelico a impregnare il folk. Sarà che dopo le prove tecniche di trasmissione dei “Little Sketches On Tape” nel 2011 il primo album “vero” come EMA della Anderson, “Past Life Martyred Saints”, risultava piuttosto convincente per costruzione, suoni, atmosfere e promettente sotto il profilo della scrittura e che mettere tre anni fra quello e il seguito ha sobillato aspettative moltiplicate oltretutto dal passaggio dalla minuscola Souterrain Transmissions a un nome storico dell’alternative USA quale Matador. Fatto è che “The Future’s Void” era un evento prima ancora di vedere la luce. Doveva essere un disco importante e in un certo qual modo lo è, ma non in positivo. Lo diventa in quanto rappresentazione plastica di come i media – certa stampa, certi siti, certi blog – possano creare fenomeni che però quasi sempre restano appannaggio di un pubblico numericamente modesto, al di là della modestia delle cifre del mercato attuale. Noi siamo qui a parlare di EMA ma il mondo appartiene a Emma, se capite cosa intendo. Per prendersi quel mondo lì, o almeno per provare a conservarsi questo in cui qualcuno ha comunque cominciato ad alzare la manina ed esprimere dubbi, servirà alla Anderson ben altro che un disco così, slegato nel suo accostare alla rinfusa schegge di rumore e melodie traballanti e incredibilmente datato nelle sonorità, nelle dinamiche, nell’immaginario. Ma di quale modernità stiamo parlando? Dice bene il recensore di “Tiny Mix Tapes” (cui peraltro è piaciuto e pure tanto) quando osserva, 1), che “The Future’s Void” è inimmaginabile prima del 1994 e, 2), che è un album del 1994. Tutto porta lì, dalle sequenze piano-forte-piano tipiche del grunge al rimbalzare fra la ballata e lo stridore industrial, Garbage e Nine Inch Nails modelli evidenti, Kurt Cobain santino nel portafoglio, i Pavement e PJ Harvey ideali cui tendere ma che non si riesce manco ad approssimare. Perché il punto non è nemmeno che il disco più atteso del 2014 è in realtà un disco del 1994 (chissenefrega, quando tanto tutti riciclano), è che è un mediocre disco del 1994. A parte l’acustica e pop (per Billy Corgan o Evan Dando sarebbe potuta essere un buon lato B) When She Comes, gli mancano proprio le canzoni.

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Emozioni da poco (25): Spencer Davis Group, Manfred Mann

Ove mi dilungavo sull’affacciarsi alla ribalta dell’enfant prodige Stevie Winwood, di tutti i neri bianchi forse il più credibile. Nonché dicevo, in breve, di uno che definivo un buon mestierante ma che fu senz’altro qualcosa di più e di meglio.

Cheap Thrills 7

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Liars – Mess (Mute)

Liars - Mess

Avrete anche voi dei dischi che non osate risentire da una vita perché sotto sotto vi attanaglia un dubbio che è anzi quasi una certezza: che a riascoltarli li trovereste pessimi. Invecchiati male ma male. Che vi chiedereste per quale motivo ve li siete messi in casa illo tempore (volersi tenere aggiornati non sempre è una buona scusa, non per qualunque cosa) e, soprattutto, perché ancora non li avete fatti metaforicamente volare da una finestra, ovvero non ve li siete rivenduti. Io di nomi così, gente cui temo seriamente di tornare a prestare orecchio, potrei farne idealmente uno per ciascuno degli ultimi tre decenni. Non oso riascoltare i Sisters Of Mercy (in particolare quelli che cominciavano a inclinare verso la dance: This Corrosion me la ricordo ancora fin troppo bene) dai tardi anni ’80, gli Shamen (quelli che si lasciavano alle spalle la neo-psichedelia all’acqua di rose degli esordi per abbracciare la nuova Summer Of Love) da poco dopo la metà dei ’90, i Nine Inch Nails (per i quali peraltro non ho mai provato un gran trasporto) dacché per qualche tempo si eclissarono al principio degli anni 2000. Ora, per via di “Mess”, ho come l’impressione di avere riascoltato gli uni, gli altri e gli altri ancora, compressi in cinquantacinque minuti nei quali i Liars per la settima volta – tante quanti sono, con questo, i loro lavori in studio – ridefiniscono un sound proteiforme all’eccesso. A tredici anni da un debutto nel quale provavano a riportare in auge i Gang Of Four (il che resta operazione meritoria) qualche certezza riguardo ai Newyorkesi nondimeno ormai c’è: che non si ripetono mai è una e che la loro avanguardia – pure nei momenti migliori e i momenti buoni a oggi non erano mai mancati – è sempre stata in realtà retroguardia. Per essere un gruppo sperimentale i Liars non hanno insomma mai sperimentato un bel nulla. Aspetterei invece a iscrivere all’elenco delle certezze che abbiano definitivamente pensionato le chitarre, per quanto siano ora due gli album consecutivi in cui ne fanno a meno. Trattandosi di loro, il prossimo disco potrebbe pure essere di folk medioevale a base di liuti e bouzouki. Anche splendido, perché no?

Un riassunto delle precedenti giravolte lo trovate qui. Rispetto a un disco che mi era piaciuto abbastanza (cioè tanto) da trovargli un posto fra i 15 migliori del 2012, “Mess” come da titolo incasina tutto, alza i volumi e i ritmi, accantona Radiohead e (parzialmente) Aphex Twin, Pink Floyd e krautrock a favore di sonorità che sono sostanzialmente quelle dei nomi elencati dianzi al netto di qualche aguzzamento di spigoli. Si continua a cercare ispirazione nel passato e non ho naturalmente alcunché da ridire, non essendoci nessuno che non lo faccia, ma è sfortunatamente un passato che almeno alle mie orecchie risulta irredimibile. Non mi ha convinto quasi nulla. Non gli Shamen fatti di crack invece che di ecstasy di Mask Maker, non l’Andrew Eldritch “four on the floor” di Vox Tuned D.E.D. e Pro Anti Anti, meno che mai il Trent Reznor definitivamente psicopatico di Perpetual Village. Salvo il singolo Mess On A Mission, collisione Devo/B-52’s in uno Studio 54 trasportato nel Distretto 13, e il downtempo gotico del suggello Left Speaker Blown. Troppo poco e oltretutto “Mess”, possedendolo solo in forma di file per quanto wav, manco posso rivendermelo. O farlo volare dalla finestra.

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Elbow – The Take Off And Landing Of Everything (Polydor)

Elbow - The Take Off And Landing Of Everything

Scorro gli appunti che, come al solito quando devo scrivere di un disco, ho buttato giù durante un ascolto più attento degli altri e giunto alla quarta delle dieci tracce che sfilano nell’album in studio numero sei per Guy Garvey e sodali, New York Morning, leggo “Radiohead Lies Down On Broadway”. Ecco: in tanti si sono esercitati dal 2001 in avanti a coniare definizioni a effetto per gli Elbow – da “prog senza gli assoli” alla più memorabile (sebbene musicalmente senza molto senso) di tutte: “da qualche parte fra i Supertramp e i Superchunk” – e nondimeno questa mi pare fra le più centrate. Non che ci sia granché da vantarsene, eh? Certe assonanze troppo evidenti per non notarle, una certa influenza sin troppo dichiarata – dacché “Leaders Of The Free World” occhieggiò sfacciatamente in copertina a “A Trick Of The Tail” – per non tenerla da conto. E poi c’è quella voce lì, che più il tempo passa e i dischi si accumulano e più si fa gabrieliana. Senza contare che nel suo “Scratch My Back” qualche anno fa Gabriel mostrava di ricambiare la stima coverizzandoli gli Elbow. Senza contare che “The Take Off And Landing Of Everything” è stato completato nella sala di registrazione di proprietà del quintetto ma il grosso del lavoro veniva eternato – durante due densissime settimane nell’ormai lontano dicembre 2012 – in quegli attrezzatissimi Real World Studios di proprietà (guarda un po’) dell’ex-Genesis. Prog senza assoli? Ci può stare, sì. Ma anche post-pop-rock.

Dritto al numero uno in Gran Bretagna – ma anche in Irlanda, ma anche in Belgio – e ben piazzato in varie classifiche di “Billboard”, l’album sembra destinato, se non a eguagliare il successo dei più immediati predecessori (il record di “The Seldom Seen Kid”, triplo platino nel Regno Unito, inavvicinabile giusto perché sono cambiati i tempi), quantomeno ad avvicinarlo. Sarà in tal caso una performance rimarchevole, siccome pure dopo ripetuti passaggi stenta a emergere un brano che svetti sul resto del programma e il disco si caratterizza per una certa uniformità sonica ma soprattutto emotiva: malinconico come può esserlo l’opera di chi, entrando nei fatidici “anta”, si trova inevitabilmente a tirare somme e a maggior ragione se una storia d’amore lunga e importante è stata appena archiviata. “The Take Off And Landing Of Everything” vale più della somma delle sue parti, come un film per le orecchie che tiene avvinti quanto basta a non fare accorgere che dura quasi un’ora, un paio di episodi oltre i sette minuti. Soltanto dopo davvero lunga frequentazione qualcosa prende a imprimersi nella memoria staccandosi dal resto: la canzone citata all’inizio; una My Sad Captains tanto densa quanto slanciata e dall’orchestrazione baroccheggiante; una traccia omonima che si potrebbe dire la Tomorrow Never Knows degli Elbow; il sognante suggello The Blanket Of Night, non distante da certi Portishead.

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Linda Perhacs – The Soul Of All Natural Things (Asthmatic Kitty)

Linda Perhacs - The Soul Of All Natural Things

A definire “atteso”, quarantaquattro anni dopo una meraviglia di nome “Parallelograms” che peraltro all’epoca nessuno ascoltò, il ritorno di Linda Perhacs si incorre insieme nell’understatement e in una grossolana forzatura della realtà. La verità è che per quanto, da un decennio a questa parte, il culto abbia visto ingrossarsi esponenzialmente le sue fila sempre culto resta. Fermate dieci, cento, mille persone per strada e chiedete loro di farvi il nome di una ex-igienista dentale e dieci, cento, mille ve ne diranno un altro (ogni paese ha forse quelle che si merita). La verità è che, benché i segnali in tal senso si stessero moltiplicando sin dal 2010, in pochi anche fra i più ferventi dei fedeli credevano davvero che la riapparizione a una ribalta in fondo mai calpestata sul serio avrebbe fruttato più di qualche ospitata in dischi altrui. Fuori luogo chiamare in causa un’altra celebre (si fa per dire) ritornante quale Vashti Bunyan, giacché le due vicende – artistiche, umane – sono distanti ben oltre l’oceano e il continente intero che le separano. Che di “The Soul Of All Natural Things” si stia poi parlando (mia impressione) più di quanto a suo tempo si parlò di un “Lookaftering” rimasto isolato sarà forse dovuto al fatto che la storia di Linda (la raccontavo qui) è persino più singolare di quella di Vashti. Oppure a una miseria della contemporaneità che si direbbe, se possibile, ancora più pronunciata di nove anni or sono. Si è scritto di più di questa oggi settantenne californiana nell’ultimo paio di mesi che in tutto il tempo precedente trascorso da quando “Parallelograms” passò direttamente dalle vasche delle novità a quelle delle offerte, salvo ricomparire tre decenni dopo fra le selezioni di rarità da pagare a peso d’oro.

E allora com’è il secondo album più aspettato di sempre? Già un prodigio, naturalmente, che sia uscito e converrà accostarvisi con in testa questo semplice concetto: i miracoli non si replicano. Non subito, figurarsi quasi quattro decenni e mezzo in differita. Il tempo non è trascorso senza lasciare segni. Per quanto ancora sorprendentemente giovane e fresca la voce della Perhacs non è più quella che era e se il lontano predecessore poteva venire grossomodo catalogato alla voce “acid folk”, ma resta comunque un unicum, tanto in questo disco nuovo risulta in qualche modo già ascoltato e non sempre in quel suo distante antecedente. A volere appiccicare etichette a ogni costo qui siamo più dalle parti di un dream pop depurato di ogni pur minima traccia di rumore, o ancora di più (scusate la parolaccia) di certa new age. E paradossalmente a situarlo in una territorio a rischio di banalità e noia più che la musica è una weltanschauung rimasta la stessa del ’70: alla vita Linda Perhacs si approccia tuttora con la stupefacente innocenza della ragazza che fu. Tuttavia non ci si annoia, no. Volano i quarantadue minuti che separano l’attacco incantato della traccia inaugurale e omonima dal consegnarsi al silenzio di una celestiale e ipnotica – un recitativo al centro – Song Of The Planets. In mezzo qualche mezzo miracolo c’è. L’avvolgente valzer intessuto di archi Children, una sospesa e adeguatamente caleidoscopica Prisms Of Glass, l’attacco chiesastico e i giochi di voci di When Things Are True Again. Spiace giusto – non perché sia pessima, solo che dispiega una “modernità” che quantomeno alle mie orecchie suona posticcia – una Intensity dalle atmosfere 4AD e dalle scansioni semidanzabili. Alla leggenda di Linda Perhacs “The Soul Of All Natural Things” nulla aggiunge e semmai qualcosa sottrae, ma è stato lo stesso un piacere incontrarlo e trascorrerci insieme qualche ora.

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Emozioni da poco (24): Psychedelic Furs

L’impressione è che oggi se li ricordino in pochi, ma per tre album furono grandi e a tratti grandissimi. Psichedelici mai, però.

Cheap Thrills 6

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Il mondo fantasmagorico del fu Arthur Russell

Vista anche la cifra tonda (venti gli anni trascorsi dalla sconsiderata uscita di scena) i giornali si stanno riempiendo in questi giorni di omaggi a Kurt Cobain. Io voglio invece ricordare oggi un altro (e infinitamente più proteiforme) genio che ci lasciava un 4 di aprile. Così lo raccontavo dieci anni fa in un breve articolo per “Il Mucchio”. Da allora hanno visto la luce diversi altri dischi postumi di Arthur Russell. Nessuno mi ha minimamente deluso.

Arthur Russell

Immaginate di possedere un jukebox, uno scintillante Wurlitzer degli anni ’50, costruito come un’astronave e zeppo di dischi che non deludono mai quando si è alle prese con torpore e disincanto. Chet Baker è pronto per essere selezionato e così John Martyn, Babatunde Olatunji, Hasil Hadkins, Ramnaryan, Willie Nelson, Fela Kuti, Nick Drake, JB Lenoir, George Faith, Phil Niblock, Jimmy Bo Horne, King Tubby. E poi immaginate, dopo una notte trascorsa fumando, bevendo o sognando, di avvertire il bisogno di ascoltare tutti questi artisti contemporaneamente… Un nuovo nome apparirà allora sul vostro jukebox: Arhur Russell, cantante, musicista, compositore, autore di canzoni come di brani disco, minimalista, inquilino del mondo dell’eco”: parole tratte da uno splendido omaggio di David Toop apparso su “The Wire” alcuni mesi or sono e certo nessuno più di Toop, titolare dell’unica intervista a Russell mai apparsa sulla grande stampa (su “The Face”, nel 1986), ha maggiore diritto di far sentire la propria voce nel coro degli entusiasti che oggi scoprono, grazie alla quasi contemporanea pubblicazione di due CD che sono a quanto pare soltanto un assaggio di un ben più fitto programma di ristampe, l’opera di uno degli artisti più singolari del Novecento. Stimato da Philip Glass, che aveva un’immensa considerazione delle sue doti di violoncellista, come da Gary Lucas, a detta del quale il solo Captain Beefheart, fra tutti coloro con i quali ha collaborato (e ricordatevi che collaborò fra gli altri con un certo Jeff Buckley), è paragonabile per genialità a Russell; da David Byrne, che l’avrebbe voluto nei Talking Heads, a John Hammond Sr., che dopo avere svolto un ruolo chiave nelle carriere di Billie Holiday, Charlie Christian, Aretha Franklin, Bob Dylan e Bruce Springsteen avrebbe voluto essere ricordato anche come “lo scopritore di Arthur Russell” (ma la CBS lo pensionò e allora niente). Nonché da Allen Ginsberg che, dirimpettaio a New York di questo eccentrico campagnolo di Oskaloosa, Iowa, ogni tanto lo invitava ad accompagnarlo nelle sue letture di versi ed è così che sulla raccolta Rhino “Holy Soul And Jelly Roll” possiamo sentire il violoncello di Russell incrociare le chitarre di altri amici di Ginsberg, Happy Traum e Bob Dylan. L’autore di Howl nel 1973 faceva passare un cavo elettrico da casa sua al prospicente alloggio del nostro eroe per poterlo fornire di energia di cui era sprovvisto. Molti anni dopo ma non abbastanza, lo citerà in una sua poesia. Tre versi in cui parla di una Big Apple che si sveglia “…while the artistic Buddhist composer/on sixth floor lay spaced out feet swollen with water,/dying slowly of AIDS over a year”.

Arthur Russell è morto il 4 aprile 1992, qualche settimana prima di compiere quarantun’anni. Vita breve, allora, ma pazzamente intensa e variegata – solamente a uno sguardo posato dall’esterno, però; un’intima coerenza c’era eccome – fino alla schizofrenia: chi altri ha saputo unire mondi antipodici e in superficie inconciliabili come l’avanguardia e la dance? Profondo conoscitore tanto della tradizione classica europea che di quella indiana (studiata per due anni a Marin County sotto la prestigiosa guida di  Ali Akbar Khan), assai apprezzato nei più sperimentali giri newyorkesi (fra quella benigna ma forse troppo snob mafia dei loft che ci ha regalato minimalismo al top, free jazz del più dissennato e infine la no wave), Russell una sera del 1977 entrava al Gallery, dj residente il mitico Nicky Siano, e l’amore per la disco scoppiava improvviso. L’avrebbe naturalmente interpretata in un modo tutto suo: da uomo caduto sulla Terra da chissà quale pianeta alieno. Licenziata dall’ottima Soul Jazz, l’antologia “The World Of Arthur Russell” raduna in ordine sparso pietre miliari della pista da ballo come il techno-funk tropicalista di Go Bang e il raga da chill out In The Cornbelt (entrambe uscite a nome Dinosaur L), le travolgenti It’s All Over My Face e Pop Your Funk (edite come Loose Joints) e il robotico e batucadero insieme medley Schoolbell/Treehouse (Indian Ocean). Due accenni all’altro Arthur Russell ed è abbastanza da far venire voglia di ascoltarne molto di più: l’incredibile scontro fra vocalese e minimalismo di Keeping Up e la dolcissima ballata folk-cameristica A Little Lost.

Se l’album Soul Jazz recupera alcune delle canzoni più celebri del Nostro (ma visto l’uso in prevalenza di pseudonimi sono sempre state le canzoni a essere famose e non Russell), un’altra raccolta, pubblicata da Audika Records con la distribuzione in Europa di Rough Trade, “Calling Out Of Context”, regala giusto inediti: dodici e immancabilmente stellari, dall’incrocio fra i Suicide seconda maniera e i P.I.L. invece pure di The Platform On The Ocean al Terry Callier danzabile di You And Me Both, da una Get Around To It che è un po’ una Miss You (Rolling Stones con la febbre del sabato sera) rifatta da Nick Drake alla scampanellante electro di I Like You!. Adesso si auspica la riedizione di “Another Thought”, meraviglioso lavoro postumo in chiave avant improvvidamente messo fuori catalogo pochi mesi fa , e di “Instrumentals” (un Disques du Crépuscule dell’84) e se ne attende una espansa di “World Of Echo” (1986), già annunciata per la prossima estate. Adesso ci si aspetta che i forzieri vengano – con giudizio – svaligiati: contengono, ci informa il compilatore di “Calling Out Of Context” Steve Knutson, oltre mille nastri.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.575, 20 aprile 2004.

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Benmont Tench – You Should Be So Lucky (Blue Note)

Benmont Tench - You Should Be So Lucky

Venghino, siore e siori, venghino! Si accomodino in particolare quanti si sono arrampicati sugli specchi nel volonteroso tentativo di salvare l’ultimo Springsteen. Puntino la seconda delle dodici tracce che sfilano in quest’album e rispondano onestamente alla seguente domanda: da quanto tempo non la scrive una canzone così, Bruce? Non dico in questo stile – Veronica Said sorta di sinossi in quattro minuti scarsi dei primi tre LP dell’uomo del New Jersey – giacché sarebbe una sciocchezza chiederglielo, ma di questa formidabile incisività. Bisogna forse risalire al tempo giurassico in cui era già una star ma non ancora Brooce per trovare un brano così semplice, eppure tanto efficace. Naturalmente, il disco con il quale Tench debutta da solista a sessant’anni suonati non totalizzerà che una frazione minuscola delle vendite di “High Hopes”, ma amen. Sarei naturalmente ben lieto di venire smentito.

Una vita da gregario per il tastierista della Florida e nondimeno da campione del mondo dei gregari, non solo da sempre braccio destro di Tom Petty (undicenne quando insieme mettevano insieme la prima band!) ma fiancheggiatore in questa o quella circostanza di una parata di star da non crederci: da Johnny Cash agli U2, da Bob Dylan agli Stones, a Fogerty, a Costello, passando per Don Henley e Lucinda Williams, Stevie Nicks, Paul Westerberg, i Ramones e letteralmente dozzine di altri. “You Should Be So Lucky” (trasparente il richiamo nel titolo a una celebre hit del suo abituale datore di lavoro) avrebbe potuto essere lo sfizio di un turnista milionario che per una volta – sia per frustrazione, sia per noia – vuole prendere per sé le luci della ribalta e quanti ne abbiamo ascoltati di dischi siffatti… In genere pescati a due spiccioli fra i fuori catalogo e rivenduti subito o quasi. E invece no. Invece per una volta le aspettative erano alte, perché non si scomoda un produttore come Glyn Johns per togliersi un capriccio, né un’etichetta del prestigio della Blue Note può permettersi di fare uscire qualcosa che possa essere liquidato come “onesto”, “decoroso”. E poi Tench un piccolo ma solido curriculum da autore ce l’ha anche, con più di un successo colto per interposta persona. Chi se lo ricorda, ad esempio, che nel lontano ’85 Feargal Sharkey andava al numero 5 in Gran Bretagna con la sua You Little Thief?

Non ve lo spaccerò per il capolavoro che non è, ma nel suo saltabeccare fra generi (dal blues al folk-rock, dal beat al jazz scoprendoci dentro un’anima latina), ora accostandoli e adesso mischiandoli, “You Should Be So Lucky si è rivelato come uno degli album più deliziosi di questo principio d’anno. A parte il brano summenzionato, spiccano particolarmente le due cover, lo shuffle gentile di Corrina, Corrina e uno scintillante quanto asciugata rilettura in boogie dal Dylan più recente, Duquesne Whistle. Fra le composizioni autografe meritano una menzione particolare almeno la sbarazzina title-track e una Blonde Girl, Blue Dress in chiaro debito con The Band.

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Frankie Knuckles (In Loving Memory Of)

Fino ad anni recenti, nei quali scientemente ho optato per ridurne l’ampiezza, i miei ascolti sono sempre stati molto eclettici. Per forma mentis, oltre che per necessità professionali. Il che mi ha permesso, ad esempio, di vivere in diretta l’intera epoca aurea dell’hip hop (diciamo dai Run DMC a 2Pac) e anche alcuni momenti cruciali nell’evoluzione dell’elettronica da dancefloor. Apprendendo stamani (e come pesce d’aprile-non pesce d’aprile è stato invero pessimo) della scomparsa a cinquantanove anni di Frankie Knuckles il flusso improvviso dei ricordi ha riguardato però più istantanee privatissime di vita che non la musica in sé. Di costui non ho mai avuto occasione di scrivere se non tangenzialmente, in questo breve articolo per l’inserto ristampe del “Mucchio” con come oggetto una superlativa antologia collettiva della Soul Jazz dedicata alla house più sperimentale. Credo nondimeno che la prima parte racconti piuttosto bene il perché e il percome Frankie Knuckles è stato uno dei giganti della musica del Novecento.

Frankie Knuckles

Nella storia del pop del tardo Novecento colpisce la localizzazione di alcuni generi e sottogeneri: la no wave che nasce non solo come fenomeno esclusivamente newyorkese ma addirittura concentrato soltanto su un paio di quartieri della Big Apple e lo stesso vale in quei medesimi anni per l’hip hop; il grunge che germina a Seattle e più o meno alla stessa altezza quanto accade nella pazza Manchester; e così via. Ma nessuna musica è sbocciata in un ambito più minuscolo della house: non una città, che era Chicago, non un quartiere di quella città bensì un singolo club, il Warehouse, dove all’incrocio fra ’70 e ’80 girava vinili il newyorkese Frankie Knuckles. Erano i commessi di Importes, il più importante negozio locale di musica da ballo, a creare letteralmente l’etichetta, abbreviando “Warehouse” e riempiendo alcune vasche con i titoli più richiesti dai clienti che li avevano sentiti da Knuckles: selezione alquanto varia, comprendendo errebì e funky e disco statunitense ma anche dance italiana (mai stile è stato così poco profeta in patria) e scampoli di new wave britannica. Rock in senso lato e non solo, quest’ultima, con buona pace di quell’altro dj, Steve Dahl, che proprio nella Windy City e non molto tempo prima aveva dato alle fiamme cinquantamila dischi – ahem – disco fra un inning e l’altro di un incontro di baseball, portando a un insuperabile apice di idiozia razzista e omofoba la campagna contro la musica da discoteca. Non valeva evidentemente, e per fortuna, la medesima chiusura mentale dall’altra parte e difatti la house non si interdirà mai il recupero creativo del passato, un altro dei suoi pionieri – Marshall Jefferson – un notorio rock freak e un terzo – Adonis – addirittura con un diploma di conservatorio in tasca. Ma torniamo da Importes: è chiaro che “house” è in origine un contenitore vuoto, che si colma con di tutto un po’ ma muovendosi nell’esistente. Passerà qualche tempo prima che, mischiando le influenze suddette, ci sia chi comincia a produrre cose nuove, approfittando come sempre nel pop moderno di uno sviluppo tecnologico. Capita che il prezzo delle batterie elettroniche si faccia abbordabile, in particolare da quando, nel 1983, la Roland commercializza la TR-909. Capita che Knuckles e compagnia (il primo è Kenny Jason) prendano a usare gli elementari ritmi  prodotti da quelle macchine (artificiosissimo il suono) come raccordi fra un vinile o un nastro e l’altro. Capita che qualcuno si diletti a giocherellarci senza naturalmente nemmeno sfogliare il libretto delle istruzioni e ne cavi suoni che i progettisti non avevano minimamente previsto. Siamo arrivati alla house vera e propria.

In circolazione da inizio estate “Acid” (sottotitolo: “Can You Jack? Chicago Acid and Experimental House 1985-1995”), spettacolare raccolta Soul Jazz  che meriterebbe l’acquisto anche solamente per il dettagliatissimo libretto di cinquantadue pagine che le è allegato (non fossero tutti classici di ardua reperibilità i diciassette pezzi che sfilano in due ahinoi non troppo zeppi CD), documenta non le origini più remote del fenomeno, bensì il suo sviluppo forse più intrigante: la nascita, nel 1985, e la successiva evoluzione della house cosiddetta “acida”. La inventava per così dire tal Earl “Spanky” Smith, in collaborazione con un suo giovanissimo amico, il sedicenne DJ Pierre, schiacciando su una TB-303 il bottone che avrebbe dovuto riprodurre il suono di un basso e, constatata l’imbarazzante povertà dell’imitazione, smanettando a caso le frequenze fintanto che dalla Roland iniziavano a sortire sonorità inaudite. Registrava una cassetta che quella sera stessa al Music Box Ron Hardy avrebbe suonato non una, non due, non tre ma quattro volte. Immobile per lo sconcerto la folla al primo passaggio, al secondo si sarebbe riversata in pista a ballare, al terzo avrebbe accolto il brano con un bailamme di urli, al quarto sarebbe stato delirio collettivo con gente che saltava e si rotolava per terra: momento epocale come pochi negli annali della musica da ballo. Da ballo? Dice bene Tim Lawrence, nel volumetto di cui sopra, quando sottolinea come da subito nella house abbiano convissuto e spesso mischiandosi un’anima commerciale e una sperimentale, né pare un’esagerazione la citazione che a un certo punto fa di Luigi Russolo, collegandola direttamente alla storia delle avanguardie del XX secolo.

Per inciso: se quando la acid house passerà con travolgente successo in Gran Bretagna, nel 1988, sobillando una seconda “summer of love” la droga di elezione di pubblico, (non) musicisti e dj sarà l’ecstasy, sostanza per certi suoi effetti assimilabile alle anfetamine ma per altri all’LSD, nei primi tempi la sua unica connotazione “psichedelica” era il caratteristico suono oscillante del basso. Un’altra droga piuttosto la influenzò e fu l’eroina. Non ne fosse stato dipendente Hardy, il dj decisivo per la sua affermazione, con la conseguenza che i brani gli parevano più lenti di quanto non fossero e li accellerava, il numero di bpm sarebbe stato più basso.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.614, settembre 2005.

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