A Reflection. Play For Today. Secrets. In Your House. Three. The Final Sound. A Forest. M. At Night. Seventeen Seconds.
Fiction, aprile 1980 – Registrato presso i Morgan Studios di Londra – Tecnici del suono: Mike Dutton e Mike Hedges – Produttori: Mike Hedges e Robert Smith.
In Ten Imaginary Years, puntuale biografia dei Cure scritta da Steve Sutherland ed edita dalla Zomba, dipartimento letterario della Fiction, nel 1988, Robert Smith così rievoca la genesi di “Seventeen Seconds”: “Dopo il tour (N.d.A: quello celeberrimo in cui Smith sul palco si divise fra i Cure e i Banshees) registrai dei nastri da solo, a casa. Usai l’organo Hammond di mia sorella, che aveva i pedali dei bassi e una piccola batteria elettronica, e scrissi quasi tutte le musiche di ‘Seventeen Seconds’ con tempi di bossanova o swing. Avevo già da un pezzo i testi, strimpellai gli accordi con la mia vecchia Top 20 e completai sei o sette canzoni in una settimana. Quando le feci ascoltare ai miei compagni Lol era eccitatissimo, ma Michael continuava a leggere il giornale… Allora andai da Simon Gallup e lui ne sembrò sul serio entusiasta, anche perché in quel periodo il suo gruppo si dedicava a stupide canzonette pop; sapevo che si sentiva frustrato e così gli chiesi se gli sarebbe piaciuto suonare nei Cure. Ricordo che mi disse: ‘Perché? Ti sei sbarazzato di Michael?’. E io: ‘No, non ancora, ma se verrai a suonare il basso con noi lui è fuori’”.
Di bossanova, che sa essere riflessiva e triste, con immane sforzo di fantasia si può rintracciare qualche residuo fra i solchi di “Seventeen Seconds.” Di swing proprio non vi è ombra. E nemmeno di ombra ce n’è tanta, ché lo scatto fuori fuoco di copertina, che ferma uno scorcio di foresta immerso nella lattiginosa luce di un nebbioso mezzodì invernale, è rappresentativo come di rado accade di ciò che poi si ascolta sul disco. Pur distante dal monolitismo a venire di “Faith” e “Pornography”, “Seventeen Seconds” è lavoro dai chiaroscuri ridotti rispetto a “Three Imaginary Boys”, più compatto, uniforme. Forse anche perché venne registrato in un lasso di tempo ridotto, fra il 13 e il 20 gennaio 1980 (fu poi mixato fra il 4 e il 10 febbraio), ove le sedute di incisione del predecessore si erano protratte, pochi giorni alla volta, per diversi mesi. Sicuramente perché, estromesso già il primo giorno Parry dallo studio, Smith afferrò sin dal principio del viaggio il timone e, facendosi giusto dare qualche consiglio dal più esperto (e fidatissimo) Mike Hedges, portò la nave all’approdo seguendo una rotta priva dei cambi di velocità e direzione di “Three Imaginary Boys”. Aveva le idee chiarissime questa volta il leader dei Cure quando entrò con il gruppo nei Morgan Studios: “Volevo che il disco si ispirasse a Nick Drake, con la veste limpida e raffinata di ‘Low’ di David Bowie. Lo immaginavo piuttosto acustico, avevo ascoltato parecchia musica per violoncello e pensavo sarebbe stato bello avere batteria, basso, chitarra e un grande vuoto nel mezzo. Volevo qualcosa di molto particolare”. Si sente.
Si unisca a ciò un livello di scrittura costantemente alto, senza i picchi e le cadute dell’album d’esordio, ove canzoni epocali convivono con altre trascurabili, e tutte le ragioni per le quali “Seventeen Seconds” è superiore a “Three Imaginary Boys” sono state enunciate.
A riempire parzialmente il “grande vuoto” che Smith ipotizzava ci sono le tastiere di Matthieu Hartley, che ora creano effetti space come da lezione del krautrock (o piuttosto del movimento new romantic, al tempo emergente? e Eno… dove lo mettiamo Eno?), ora sono scudisciate che incrementano il propellente ritmico della appena costituita, ma già sorprendentemente affiatata, coppia Gallup/Tolhurst. Hartley, proveniente come Simon Gallup dai Magspies, era stato invitato da Robert Smith a unirsi al gruppo sulla spinta dell’impulso di un attimo: voleva evitare a Gallup, il leader dei Cure, il disagio di sentirsi “quello nuovo” e dunque pensò bene di affiancargli qualcuno che già conoscesse bene.
Una volta che Hartley c’era, si trattava di sfruttarne bene la presenza: “Non lo conoscevo a fondo e non ero sicuro che il gruppo avesse bisogno di un sintetizzatore, però pensavo che aggiungere un nuovo strumento sarebbe stata una buona idea. Mathieu aveva un Korg Duophonic, a mio parere perfetto perché non vi si possono suonare più di due note insieme. Cominciammo a provare e in quei giorni ero molto su di giri: fissavamo addirittura concerti senza neppure avere i brani pronti”. Questi i ricordi di Hartley al riguardo: “Quando Robert mi chiese di entrare nei Cure risposi immediatamente di sì, perché la prospettiva era assai eccitante. La mia posizione nel gruppo era anomala, non ne ero ancora parte integrante, ma non ero neppure in prova. Facevo quello che mi diceva Robert”.
Hartley, caratterialmente scontroso e al contrario di Smith, Gallup e Tolhurst poco disposto alla bisboccia, non si integrerà in effetti mai nei Cure e li lascerà a meno di un anno dall’ingresso in squadra. Il suo apporto a “Seventeen Seconds” è però positivo e importante: quasi mai in primo piano, la sua tastiera dà con discrezione pienezza a un suono che sarebbe se no eccessivamente rarefatto e lo sottrae al rischio della monotonia. Il ritorno a un organico a tre si rivelerà inizialmente deleterio per i Cure: fra il riuscito “Seventeen Seconds” e il capolavoro “Pornography”, “Faith” sarà opera interlocutoria e unidimensionale. Ma di questo si dirà più avanti.
Chi si integrò perfettamente fu invece Simon Gallup che, tolto un intervallo di un anno e mezzo, ha da allora mantenuto il posto in formazione ed è dunque oggi, dopo Robert Smith, il Cure di più antica – è datata novembre 1979 – militanza. Il suo approccio allo strumento era tipicamente new wave: il suo basso è melodico quanto lo era quello di Dempsey ma non suona mai una nota più dell’indispensabile. Il suo stile esente da svolazzi sarà funzionale tanto agli spartani Cure della trilogia dark inaugurata da “Seventeen Seconds” che a quelli dal suono più variegato di lavori come “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” e “Wish”.
“Seventeen Seconds” si apre con uno strumentale dal titolo programmatico: A Reflection. Posato e malinconico, certifica inequivocabilmente l’influenza esercitata in quel periodo dalla musica cameristica su Robert Smith. Il dialogare di chitarra e tastiere non è poi granché diverso dagli scambi che possono intercorrere fra un piano e un quartetto d’archi, o fra un piano e un violino, e l’assenza, oltre che della voce, della batteria contribuisce a donare all’assieme una dimensione classicheggiante, fuori dal tempo. È un contrasto marcato (l’unico del disco, praticamente) e piacevole quello che si crea fra l’atmosfera lontana distanze siderali dal rock di A Reflection e il basso trascinante e la chitarra nel contempo sincopata e fluida della seguente Play For Today, una canzone che fa ancora parte delle scalette concertistiche del gruppo e che è, insieme a In Your House (altro brano tuttora suonato dal vivo), il pezzo forte della prima facciata dell’album, il più svelto a scolpirsi nella memoria. A fronte dell’immediatezza, a dispetto del senso di spleen che le impregna, di queste due canzoni, Secrets e Three paiono dapprima svolgere una funzione semplicemente di raccordo, ma a un ascolto più attento svelano qualità certo più discrete ma non meno solide: il basso “ticchettato” di Three, le voci inintelleggibili sullo sfondo estremo, il pulsare da macchinario industriale che vi appone la parola “fine” sono tocchi che rivelano la maturità compositiva e la notevole padronanza dell’arte dell’arrangiamento dell’ancora solo ventunenne Robert Smith.
La seconda facciata si apre a immagine e somiglianza della prima, ma rispetto a A Reflection The Final Sound (meno di un minuto) è niente più che un bozzetto, uno schizzo buttato giù un po’ affrettatamente. Come il suo fratello maggiore prepara comunque bene la strada all’irrompere in scena del brano principe della facciata, nonché dell’album tutto: uscita anche a 45 giri, A Forest esibisce uno dei giri di basso più copiati degli anni ’80, una melodia limpida, un arrangiamento attento al particolare – si badi a come e quando entra Hartley, al giocare con i piatti di Tolhurst, al modo in cui la chitarra di Smith interagisce con il basso di Gallup. Una canzone perfetta, come perfetto è l’attacco di M, che la segue a ruota, con la sua chitarra arpeggiata, le ondate di tastiere, basso e batteria che si comportano quasi fossero uno strumento solo. Passando per la desolata At Night, che il Korg di Hartley tinteggia di tossici fumi di fabbrica, si giunge al brano che intitola l’album, piazzato come in “Three Imaginary Boys” (così sarà anche in “Faith”, “Pornography” e “The Top”) a mo’ di epilogo: dopo una partenza in moviola di gusto sepolcrale, Seventeen Seconds accellera appena prima che entri la voce, per poi decelerare e, in luogo che sfumare, spegnersi.
Il pulsare della batteria che si arresta di colpo evoca l’immagine di un cuore che cessa di battere. Accade raramente che un disco “pop” susciti emozioni così intense. Sotto paramenti esistenzialisti “Seventeen Seconds” cela un ribollire di sentimenti da Sturm und Drang.
Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.