Se – eufemismo – non ho mai amato “Tommy”, nemmeno “Quadrophenia” rientra precisamente nel novero dei miei album preferiti di ogni epoca. Per quanto con il tempo – come ammettevo in questa recensione di una sua ristampa superlusso, due anni e mezzo or sono – lo abbia un po’ rivalutato.
Ai quarant’anni dalla prima uscita ne mancano due e dunque nessun anniversario è preso a scusa per questa serie di riedizioni – tre – dell’ultimo capitolo sul serio rilevante della saga degli Who. La propiziano le smanie di archivista di Pete Townshend ma soprattutto, è il sospetto, i timori dell’industria discografica che si sia al “day after”, che si tratti soltanto più di raggranellare qualche spicciolo ancora e poi lasciare il campo e, insomma, fra due anni potrebbe essere tardi. Convinzione inconfessabile da cui derivano comportamenti folli che porteranno probabilmente all’autoavverarsi della profezia: per un verso si svendono i cataloghi a quattro-cinque euro ad album, per un altro su un numero ristretto di titoli si imbastiscono speculazioni come quella su “Achtung Baby” degli U2, la cui riedizione über deluxe per il ventennale è stata messa in vendita a quasi cinquecento euro e, essendo la mamma dei bischeri sempre incinta, è pure andata a ruba. Per “Quadrophenia” si è esagerato meno ma solo un po’: riedizione soltanto rimasterizzata (sia in CD che in vinile), oppure quasi raddoppiata dall’aggiunta di undici demo, o espansa ancora di più e, ammenniccoli sui quali non mi soffermo a parte, l’appassionato dovrà valutare se diciassette ulteriori demo valgano oppure no ottanta euro.
Ah già, dovrei parlare del disco… ma che dire, trattandosi di uno dei più mitizzati negli annali della popular music? Magari giusto che la diatriba sul suo valore (ammetterò di averlo a lungo forse sottovalutato e, nel contempo, di considerarlo tuttora più incensato di quanto non meriti) può essere risolta annotando come la sua rilevanza derivi dall’impianto complessivo – autentica rock opera in luogo che mero concept album – e non certo da un mettere in fila una canzone indimenticabile via l’altra. Più del singolo brano di questo lavoro monumentale già in partenza (due 33 giri, diciassette tracce, oltre ottanta minuti) permangono nella memoria atmosfere e tessiture, la raffinatezza di arrangiamenti che se talvolta magnificano l’efficacia delle melodie talaltra ne mascherano la debolezza. Se non difettano a “Quadrophenia” né riff di buona incisività – quello elastico che propelle The Real Me fra fiati roboanti, quello mastodontico che fa irruzione in Bell Boy – né bei guizzi di rock’n’roll primevo, il dubbio che a lasciarsi alle spalle (proprio nel mentre la si rievocava) la rude giovinezza protopunk si perse più di quanto non si guadagnò permane.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.689, dicembre 2011.