The Cure 1978-1996 (4): Faith

Faith

The Holy Hour. Primary. Other Voices. All Cats Are Grey. The Funeral Party. Doubt. The Drowning Man. Faith.

Fiction, aprile 1981 (la versione su cassetta ha il lato A occupato dalle otto canzoni di “Faith” e il lato B da “Carnage Visors”, colonna sonora di un omonimo film d’animazione astratto in bianco e nero che per alcuni mesi venne proiettato prima dei concerti del gruppo) – Registrato presso i Morgan Studios di Londra – Tecnici del suono: Graham Carmichael, Mike Hedges e David Kemp – Produttori: Mike Hedges e The Cure.

Se ‘Three Imaginary Boys’ e ‘Seventeen Seconds’ possono essere considerati lavori malinconici, ‘Faith’ è triste, ma triste sul serio. Prima di registrare lo volevamo più aperto alla speranza, abbastanza ottimista, ma durante la lavorazione le cose sono cambiate, l’atmosfera, che era alquanto rilassata e positiva in principio, man mano che si procedeva con le registrazioni è mutata. È stato un album parecchio difficile da portare a compimento, sotto molti punti di vista. Ci sono stati momenti in cui tutti e tre ci siamo fatti prendere dallo sconforto, dalla disperazione… Mi capita spesso, come accade a molti, di sentirmi toccato dall’assurdità delle cose… ci siamo lasciati andare e c’è molta negatività in questo LP. Si può tracciare un parallelo con ‘Pornography’. L’unica differenza rilevante è che quest’ultimo è più violento, collerico. All’epoca di ‘Faith’ vivevamo in un universo tutto nostro, non parlavamo quasi con nessuno, solo fra noi. Ci negavamo al mondo… Eravamo un po’ come una setta segreta.

Così nel 1986, chiacchierando con un giornalista francese, Robert Smith rievocava la genesi di quest’album. A proposito del quale due anni più tardi Mike Hedges dirà a Steve Sutherland: “‘Faith’ è più intenso di ‘Seventeen Seconds’, più umorale. Le sue canzoni per la maggior parte possono essere una perfetta colonna sonora se desideri impiccarti”. Il ricordo di un’impiccagione pare in effetti gravare sul terzo LP dei Cure: undici mesi prima della pubblicazione, nove prima che le sue otto canzoni venissero impresse su nastro magnetico (durante dieci giorni di lavoro senza pause presso i soliti Morgan Studios; dieci giorni che dovettero rivelarsi interminabili se nel ricordo di chi c’era hanno assunto la consistenza di mesi), si era così suicidato Ian Curtis, leader dei Joy Division e figura cardine del post-punk inglese, e l’ombra di quella morte incombeva sul rock come, quasi tre lustri dopo, incomberà la drammatica uscita di scena di Kurt Cobain. Forse perché era logico che agli entusiasmi del punk si sostituisse un certo disincanto, o forse perché la depressione economica induce giocoforza quella esistenziale e la Gran Bretagna dei lividi albori degli anni ’80 era depressa come in questo secolo era stata solo negli anni ’30: fatto sta che i Joy Division esercitarono un’enorme influenza sul rock britannico della prima metà dello scorso decennio, e in termini strettamente musicali, e in termini di mood. Dal punto di vista musicale il gruppo di Ian Curtis e quello di Robert Smith avevano avuto in comune l’uso del basso in funzione melodica oltre che (più che) ritmica, ma non si può dire che gli uni avessero mai influenzato gli altri o viceversa. Ma la desolazione strisciante e diffusa suscitata dalla morte di Curtis qualche effetto dovette averlo sulla scrittura e sui suoni di “Faith”. Magari, sommandosi alla depressione provocata in Tolhurst dalle gravi condizioni di salute in cui versava la madre (che morirà in pieno tour promozionale dell’album) e alla curiosa sindrome da invecchiamento di cui era preda Smith che, sì e no ventiduenne, era “consapevole del fatto che non avevamo più molto tempo per fare quella musica, perché la gente si sarebbe stancata abbastanza in fretta. E io prima di loro”.

Come accade con la maggioranza dei dischi, ad alcuni critici “Faith” piacque, ad altri (un po’ di più) no. Questi e quelli, però, chiamarono in causa i Joy Division nelle loro recensioni. Gli uni e gli altri annotarono che era un 33 giri che andava accettato o respinto in toto. Nell’intervista già citata in apertura il leader dei Cure non avrà niente da eccepire al riguardo.

Come ‘Seventeen Seconds’, ‘Faith’ è un LP da prendere o da rifiutare in blocco. Primary, che si distacca dal resto del disco, è un’eccezione: quando l’abbiamo incisa la prima volta era molto lenta, diversissima dalla versione conosciuta; una volta messe insieme tutte le canzoni e ascoltatele di fila ci siamo resi conto che non ce n’era una che potesse essere il lato A di un 45 giri. Ora, sapevamo che la nostra casa discografica avrebbe voluto, come è consuetudine, fare precedere l’album da un pezzo da esso estratto e ci rendevamo conto che sarebbe stato stupido fare uscire a 45 giri – che so? – The Drowning Man. Nessun dj avrebbe trasmesso un brano simile, la gente alla radio vuole sentire cose allegre… Dunque abbiamo rifatto Primary trasformandola in un pezzo pop e devo dire che così mi piace molto più di quanto non mi piacesse l’originale. Lenta era noiosa.

Preceduta da due rintocchi di campana, sospinta dall’incalzare di basso e batteria e di una chitarra più tesa a costruire il ritmo che non la melodia, compito quest’ultimo affidato a una voce cantilenante, Primary, pur greve e oscura com’è, lascia nelle orecchie un retrogusto pop che la accomuna ai titoli migliori schierati esattamente un anno prima in “Seventeen Seconds”: Play For Today, In Your House, A Forest, M… Ciò la separa, fino a renderla praticamente un corpo estraneo, dal resto di “Faith”, da cui la distingue anche una cadenza più sostenuta ove il resto del lavoro, con l’unica eccezione dell’aggressiva Doubt (che occupa sulla seconda facciata, probabilmente non a caso, la medesima posizione occupata sulla prima da Primary), viaggia su ritmi lentissimi.

Degli spettacoli che seguirono la pubblicazione di questo LP diversi ebbero a scrivere che piuttosto che concerti rock avevano l’aria di riti religiosi, funebri perdipiù. Lo stesso – avrete ormai inteso – si può dire dell’album, che già la copertina, curata da Porl Thompson (il quarto Cure fino alla rescissione del contratto con la Hansa) ed effigiante una sfocatissima Bolton Abbey (una chiesa in cui Smith era solito rifugiarsi da bambino) immerge in un clima plumbeo. Smith all’epoca era influenzato dall’ipnotica ripetitività dei mantra indiani e dei canti benedettini e qualcosa di quei climi sonici si insinua in “Faith”: in The Drowning Man molto lontani nel mix si odono fraseggi gregoriani e quasi ovunque la voce è resa catacombale anche dal passaggio attraverso stanze d’eco, che sdoppiandola le aggiungono ieraticità; le lugubri tastiere di All Cats Are Grey hanno in effetti un che di mantrico; e la costruzione di The Holy Hour, in cui a una semplice figura di basso si aggiungono gradualmente un filo di tastiere, una chitarra arpeggiata, una voce salmodiante, sa di cerimonie a Joujouka spogliate dalla gioia che è loro connaturata e viste attraverso il grandangolo della lezione dei minimalisti.

Ma cogliere un frammento qui e uno là di “Faith” e passarlo al microscopio ha poco senso: più che una raccolta di canzoni, questo LP è una lunga suite di cui ogni brano costituisce un movimento. Le variazioni sul tema sono minime e la monotonia (effetto voluto?) che rischia costantemente di rendere l’ascolto, quando non distratto, faticoso ne fanno il meno riuscito dei dieci lavori in studio dei Cure.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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