Il male che l’uomo fa gli sopravvive e talvolta torna a perseguitarlo. Non riesco a credere alle sciocchezze che scrissi su “III” e “IV”, in parte anche su “Physical Graffiti”, per quanto quest’ultimo continui a non considerarlo l’“Exile On Main St” zeppelliniano. Da lì a sette anni, in un articolo lungo otto volte tanto per “Extra”, aggiusterò considerevolmente il tiro. Quanto a “Walking Into Clarksdale”, provvedeva immediatamente a smentirmi.
“Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo rispetto che nutriamo per la sua famiglia ci hanno portato a decidere – in piena armonia tra noi e con il nostro manager – che non potremo continuare come prima.”
Essenziale, non una parola più del necessario, così come nei loro primi due album non vi era stato un vocalizzo, un ricamo di chitarra, un colpo alla batteria più dell’indispensabile: economia di forme incommensurabilmente distante dal trionfo del tronfio (scusate il gioco di parole) nella loro musica che in anni più tardi li renderà facile bersaglio della furia iconoclasta del punk. Con questo comunicato di poche righe Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones il 4 dicembre 1980 annunciavano che il Dirigibile tornava all’hangar. Il quarto Led Zeppelin, John “Bonzo” Bonham, era morto il 25 settembre in una maniera che Keith Richards – “il massimo della maleducazione è andare in overdose mentre sei a casa d’altri” – giudicò probabilmente un’inammissibile offesa al bon ton: soffocato dal suo stesso vomito, dopo una terrificante sbronza, a casa di Page. Giungevano così a un tragico capolinea anni colmi di eccessi (raccontati da Hammer Of The Gods, forse la più “scandalosa” delle biografie rock) ma anche di dischi, canzoni, concerti memorabili. Chissà se senza la morte di Bonham il quartetto sarebbe andato avanti ancora a lungo o si sarebbe sciolto lo stesso entro breve. Certo non subito, visto che aveva un LP nelle classifiche e stava per intraprendere un tour americano, ma non si sarebbe trascinato come altri della sua generazione per ragioni squisitamente mercantili. I Nostri dovevano essere consci che l’età dell’oro artistica era lontana e che quello che risultò l’ultimo album era povera cosa. Così mi piaceva pensare, fino a non molto tempo fa.
Attenti il giusto agli aspetti economici della loro professione, i Led Zeppelin non permisero mai che le ragioni di bilancio prevaricassero quelle dell’arte. Valga a sostegno di ciò il fatto che avrebbero potuto lucrare una fortuna ancora più immensa di quella raggranellata se solo avessero puntato un minimo sul mercato dei 45 giri, dal quale si tennero invece sdegnosamente lontani. La decisione di sciogliersi fu un atto di coraggio e di grande dignità insieme e a lungo i superstiti hanno resistito alle pressioni dell’industria perché quella che era stata una delle imprese più lucrose della storia del rock tornasse in attività.
Certo la nostalgia canaglia qualche scherzo lo ha giocato. Il 13 luglio 1985 Plant, Page e Jones si ritrovavano sul palco del John Fitzgerald Kennedy di Philadelphia per tre canzoni. Ma era per una buona causa, “Live Aid”, e si poteva dire loro qualcosa? Il 14 maggio ’88 suonarono al Madison Square Garden, ma si trattava delle celebrazioni del quarantennale della loro etichetta, l’Atlantic, e perché non concedere pure a loro di far festa? E vai con gli esercizi retorici sulla presenza dietro la batteria del figlio di John Bonham, Jason. Nel novembre del 1989 – state a sentire questa – il gruppo si esibì alla festa per il ventunesimo compleanno della figlia di Plant, Carmen. Cosa non si fa per i figli! Possiamo essere sì duri di cuore da negare a tre vecchi amici il piacere di suonarsele e cantarsele in una simile occasione? Ma ancora nel 1991 Page smentiva le indiscrezioni secondo le quali i Led Zeppelin si erano ricostituiti e già erano state fissate quattro date al newyorkese Giant Stadium. Salvo aggiungere candidamente: “John Paul Jones e io abbiamo chiesto per qualche tempo a Robert di prendere in considerazione un tour ma lui non ne vuole sapere. A me piacerebbe tornare in giro come Led Zeppelin, e anche a John, ma è evidente che senza Robert non potrà accadere nulla di simile”.
Quando nel 1994 Plant, la cui carriera post-Dirigibile, al contrario di quella di Page, è stata commercialmente fortunata e artisticamente decorosa e che per anni si era rifiutato di inserire nelle sue scalette brani degli Zeppelin, ha ceduto ai dirigenti di MTV che per “Unplugged” pretendevano eseguisse qualche canzone d’antan e ha chiesto a Page se era interessato, la reunion è stata cosa fatta. Soltanto che questa volta era John Paul Jones a non essere disponibile. Evitando allora, anche se economicamente sarebbe convenuto, di usare la vecchia ragione sociale, Page e Plant hanno confezionato “No Quarter”, pregevole rivisitazione in chiave etnica di vecchie pagine dei Led Zeppelin incrementata da qualche inedito di buona grana. Sul successore di quel disco ne sapete più voi, ora che è nei negozi, di quanto non ne sappia io nel momento (metà marzo) in cui scrivo. Il poco che ho avuto occasione di ascoltare di questo nuovo album, in uscita a fine mese, mi fa temere il peggio: hard da dinosauri senza nessun guizzo del bel tempo che fu. Il meglio che se ne possa dire è che per fortuna non ci sarà scritto sopra quel nome.
Quel nome, come ogni enciclopedia del rock si premura di riferire, venne ideato da un altro batterista che come Bonham amava la vita spericolata e che per questo era destinato a non invecchiare, Keith Moon degli Who. Quando Robert Plant (voce), Jimmy Page (chitarra), John Paul Jones (basso e tastiere) e John Bonham (batteria) lo scelsero come ragione sociale, erano insieme da meno di un mese e avevano già alle spalle un tour scandinavo come New Yardbirds. Dismessa subito dopo una sigla gloriosa – gli Yardbirds erano stati uno dei migliori gruppi britannici, fra beat e blues, dei primi ’60 e Page vi era entrato subentrando a Jeff Beck, a sua volta rimpiazzo di Eric Clapton – ma senza più una ragion d’essere giacché i membri fondatori se n’erano andati tutti, i quattro si chiusero in sala d’incisione e in appena trenta ore registrarono l’omonimo esordio. Era l’ottobre 1968.
Considerato da quanto poco erano insieme e quanto poco impiegarono a metterlo su nastro, “Led Zeppelin” è semplicemente prodigioso. Il trascorrere del tempo, quasi trent’anni ormai, nulla gli ha sottratto in freschezza e intensità. È un sapidissimo pasticcio di pop intinto nell’acido e nella musica nera modello ultimi Yardbirds (Good Times Bad Times e la superba Your Time Is Gonna Come, dominata dall’Hammond), psichedelia orientaleggiante (Black Mountain Side), blues-rock struggente (Babe I’m Gonna Leave You), rock-blues roboante (You Shook Me e I Can’t Quit You Baby, pescate nel repertorio di Willie Dixon) e hard granitico e magmatico insieme (Dazed And Confused, Communication Breakdown, How Many More Times). Il pubblico impazzì. La critica, ancora abbagliata dalle imprese di dubbio valore degli appena disciolti Cream, non capì. Tacciò i Led Zeppelin di rozzezza e li accusò persino, sfiorando il ridicolo, di avere tradito le radici blues per Mammmona. Si rimangerà tutto da lì a breve.
Di non molti mesi posteriore al formidabile debutto e come esso registrato velocemente, nelle brevi pause fra un tour e l’altro, e con pochissime sovraincisioni, “II” è meno vario ma altrettanto memorabile. Lo rende tale soprattutto l’iniziale Whole Lotta Love, inno proto-heavy per eccellenza. Il resto viaggia sui binari di un vigoroso hard che, mai dimentico della tradizione nera (la stessa Whole Lotta Love è rubacchiata a Willie Dixon), è tuttavia più “bianco” che in precedenza. Tolta Moby Dick, inquietante presagio del narcisismo a venire, un LP magnifico.
Aggettivo che con “III”, pubblicato nel 1970, si può usare soltanto per la prima facciata e in particolare per il fumigante rock bluesato Since I’ve Been Loving You. La seconda si impantana nelle paludi di un folk elettrico che vorrebbe essere epico e troppo spesso è solo retorico. La caduta si farà verticale l’anno dopo con “IV”, del quale si può salvare giusto il dittico d’apertura, Black Dog/Rock’n’Roll. Il resto, Stairway To Heaven in testa, induce alternativamente sonnolenza e irritazione. Eppure furono proprio questi, invecchiati così male, gli album che fecero dei Led Zeppelin il gruppo più popolare al mondo, popolarità ribadita dallo statico “Houses Of The Holy” (1973) e dal doppio, ineguale ma con qualche sintomo di risveglio, “Physical Graffiti” (1975).
Sul live “The Song Remains The Same” e sul congedo “In Through The Out Door”, dalle imbarazzanti tendenze pomp-rock, è meglio tacere. Fare finta che non esistano. Consolarsi con lo stupendo LP che li precedette, l’anfetaminico “Presence”, inatteso colpo d’ala del 1976, progenitore diretto di tanto hard “moderno” dei ’90. Soundgarden in testa, se bisogna fare un nome.
Pubblicato per la prima volta su “Extreme Pulp”, n.4, aprile 1998.
Since I’ve Been Loving You penso sia uno dei brani piu brutti e ripetitivi di led zeppelin III, son altri i grandi pezzi blues suonati dagli zeppelin.
per il resto condivido tutto, come al solito
Sulla parete del mio soggiorno c’è scritto “Non avrai altro dio (della chitarra) oltre Jimmy Page”, sperando, vanamente, in un suo flusso benefico quando suono. Questo è ciò che i LZ rappresentano per me…
Oh my God! Forse il tuo scritto peggiore di sempre. O forse quello che condivido di meno.
Eh, il furore giovanile ogni tanto fa fare la pipì fuori dal vaso. Per fortuna poi la saggezza che subentra con l’età (vabbè, chiamiamola saggezza..) fa correegere il tiro e che è onesto intellettualmente lo riconosce. Sono persino propenso a pensare che ora il VM ami sommamente LZIII e che abbia rivalutato tanto, ma tanto tanto anche il buon vecchio, roccioso e sfaccettato, PG. Concordo invece sul fatto che presence, pur non avendolo mai amato particolarmente, sia stato decisamente influente su tanto nuovo hard dei novanta.
Furore giovanile mica tanto, visto che avevo trentasei anni suonati quando scrissi questo pezzo. Ho sempre adorato, SEMPRE, i primi due e “Presence” e di “III” il primo lato. I Led Zeppelin folky ci ho messo molto più tempo ad apprezzarli. “Physical Graffiti” l’ho rivalutato, ma per essere un capolavoro vero avrebbe dovuto essere un singolo.
forever young o peter pan?
Il revirement del VM è parallelo a quello di Paul Weller che, a un paio di decenni di distanza, ha ammesso che tutto quello che aveva dichiarato in gioventù su Jimmy Page e i LZ era frutto di giovanile sventatezza
Ricordo bene che in pieno delirio punk/wave ascoltare roba come gli zeppelin, i deep purple, i dead e similia, per non parlare del prog (ma quello non l’ho mai frequentato) era diventato marchio di infamia. Io, che inconsciamente ho sempre fatto dell’eccletismo degli ascolti una bandiera, dovevo “giustificarmi” per le mie passioni devianti dalla linea ufficiale pistols/clash/Talking heads/cure/joy division. cosa ci potevo fare se mi garbavano tutti, e tutti contemporaneamente?