Quando il 14 luglio 1985, con l’ottima scusa di fare beneficenza e attirare l’attenzione sulla carestia che sta devastando l’Africa, i tre Led Zeppelin superstiti si ritrovano a Philadelphia per il “Live Aid”, lo scioglimento è ancora una faccenda abbastanza prossima, quattro anni e mezzo, da lasciare il pubblico speranzoso che possa essere il primo capitolo di una nuova storia piuttosto che una suggestiva postilla a una archiviata. Tantopiù dopo che le decine di migliaia di spettatori radunatisi nello stadio cittadino innanzitutto per loro, e le decine di milioni che hanno assistito all’evento in diretta televisiva, hanno potuto constatare come la vecchia magia ancora riesca a riprodursi. Vero che per sostituire Bonzo ce ne sono voluti due di batteristi, Tony Thompson e Phil Collins, e per avere l’impatto di un tempo si è dovuto aggiungere un sesto musicista, Paul Martinez al basso, con John Paul Jones alle tastiere, e vero anche che la voce di Plant non sa più inerpicarsi come una volta su vette himalaiane, così come che Page qualcosina sembra avere perso in agilità. E altresì innegabile che tre canzoni gloriose – Rock And Roll, Whole Lotta Love, Stairway To Heaven – non valgono a certificare che il rapporto possa ancora essere creativo, ma i fans sognano. Anche perché Page e Plant già si sono incrociati l’anno prima, nell’estemporaneo ed esilarante progetto di cover Fifties degli Honeydrippers, e le loro carriere da separati (con Jones tornato a lavorare – poco – dietro le quinte) non è che siano state fino a quel punto un fuoco d’artificio. Meglio il cantante, che ha già all’attivo tre fortunati LP (“Pictures At Eleven”, “The Principle Of Moments”, “Shaken’n’Stirred”) di rock energico ma melodico, con qualche influsso etnico e moderate pretese sperimentali, mentre il chitarrista (a parte una colonna sonora) non ha fatto che cercare di ricreare gli Zeppelin sostituendo Plant con l’ex-Free e Bad Company Paul Rodgers: il primo, omonimo album dei Firm ha venduto bene ma si è rivelato poca cosa (il titolo del secondo e ultimo la dirà lunga: “Mean Business”). Potrebbe forse nascere qualcosa se Page non avesse ancora problemi di tossicodipendenza. Poco dopo “Live Aid”, fa una patetica figura unendosi per un bis a Plant al termine di un concerto di quest’ultimo ed è probabilmente allora che il compare, che nutre molte meno nostalgie di lui e forse nessuna del tutto per il Dirigibile, ci tira una riga sopra.
Quanto Page (che nel 1985 licenzia un discreto disco con Roy Harper e nell’88 uno da solista al contrario scadente) sia invece inconsolabile è rimarcato dal sodalizio che improvvisa con David Coverdale (Deep Purple e Whitesnake) nel 1993, vale a dire proprio con colui che Plant (che ha nel frattempo pubblicato i variamente apprezzabili “Now And Zen”, “Manic Nirvana” e “Fate Of Nations”) aveva velenosamente ribattezzato David Coverversion, prendendone in giro l’ansia di riprodurre meticolosamente – indovinate un po’… – i Led Zeppelin. Chissà che non giochi il desiderio di evitare altre uscite imbarazzanti all’ex-socio nell’assenso che infine dà, l’anno dopo, a una rimpatriata. La moda degli “Unplugged” furoreggia e gli è giunta da MTV la proposta di realizzarne uno. Non è mica, chiedono quelli dell’emittente senza crederci manco loro, che si potrebbe avere ospite Jimmy Page in qualche brano? Plant va assai oltre. Piuttosto che limitarsi a una mera riproposta dei diversi articoli acustici del catalogo Zeppelin e a qualche rivisitazione ad amplificatori spenti di quelli elettrici che meglio possono prestarsi, “Unledded” – che non coinvolge Jones, in quel momento impegnato in quella che resterà la sua migliore escursione in proprio di sempre, la collaborazione con Diamanda Galas di “The Sporting Life” – li rilegge radicalmente con i cruciali apporti di un ensemble di archi, di un’orchestra egiziana, di alcuni musicisti marocchini di stirpe gnawa. Verificabili sul CD “No Quarter” e su un omonimo e più esteso DVD, gli esiti sono superlativi, con tutta una serie di classici – da Nobody’s Fault But Mine a Thank You, da Since I’ve Been Loving You a Kashmir – dei Led Zeppelin che prendono colorature esotiche e acidissime (come dire: dal Galles di Bron-Y-Aur al Sahara) e alcune nuove e splendide canzoni nel medesimo stile – Yallah, City Don’t Cry, Wonderful One, Wah Wah – a sottolineare ulteriormente come l’operazione non abbia nulla di retrò. Caso mai non si fosse capito: di heavy metal non ve n’è traccia (di blues sì, eccome).
Lunga quattro anni l’attesa di una replica ma “Walking Into Clarksdale” non delude, se non quelli che si aspettavano che i due provassero a rimettere in cantiere il Dirigibile. Siamo in realtà, tranne che nella conclusiva Sons Of Freedom che ha in effetti tiro hard, decisamente più prossimi al Plant solista. È una buona prova e con qualche momento più che semplicemente buono: per Upon A Golden Horse, Most High e House Of Love, luminose schegge di “Unledded”, e per Heart In Your Hand e When I Was A Child, che mischiano i DNA di Arthur Lee e Chris Isaak, parlare di piccoli capolavori non è un azzardo.
Da allora, fuor dai riordini di archivi che sapete, un pacificato Page si è divertito e ci ha fatto divertire con il doppio “Live At The Greek”, testimonianza di un tour che lo ha visto capeggiare i Black Crowes, dichiarati ammiratori degli Zeppelin per una volta direttamente a confronto con quel repertorio. Da Plant si attende per il 25 aprile il successore di “Dreamland”, pregiata raccolta perlopiù di cover (da Tim Buckley a Dylan via Hendrix) del 2002. Dovrebbe intitolarsi “Mighty Rearranger” e lui stesso lo annuncia come una collezione in bassa fedeltà di ballate folk e la sua cosa migliore di sempre fuor d’area Led Zeppelin. E Percy, si sa, è uomo su cui si può fare affidamento.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2003.