Presi per il culto (41): Sibylle Baier – Colour Green (Orange Twin, 2006; inciso 1970-1973)

 

Sibylle Baier - Colour Green

Il piccolo eroe di questa storia, colui cui si deve che la storia stessa sia raccontabile, è il bambino dall’aria di monello che uno scatto in bianco e nero coglie seduto accanto a una donna bellissima, dall’aria di modella. E difatti… Non è dato sapere a che anno risalga la foto e dunque se la madre di Robby, Sibylle, calcasse ancora o meno le passerelle, o già si fosse ritirata, né se la parte importante recitata in Alice nelle città di Wim Wenders appartenesse al di lei futuro o piuttosto al passato. Presumibilmente la seconda che ho detto, giacché a Robby potresti dare un cinque o sei anni. Appartenevano allora al passato anche le quattordici canzoni radunate in “Colour Green” e che per tre abbondanti decenni Wenders si porterà in giro per il mondo su una cassetta sempre più cigolante e dalla fedeltà via via più approssimativa. Fino al giorno in cui, a passeggio per Chicago, una copertina attirerà la sua attenzione nella vetrina di Reckless Records. Sarà così che il regista scoprirà che quelle canzoni erano diventate un disco, grazie al ragazzino non più ragazzino, che ne aveva fatto un CD-r e lo aveva sporto a J Mascis, dei Dinosaur Jr. Sono passati otto ulteriori anni e la coltre di mistero che avvolge “Colour Green” non si è mai sollevata del tutto. Posto che le quattordici canzoni che vi sfilano rappresentano una scelta e non un’integrale di quanto inciso dalla Baier, si ignora se sia stato pubblicato tutto il pubblicabile, se siano rimasti inediti solo bozzetti o brani comunque ritenuti non meritori di esposizione o se sussista la possibilità, pure a questo punto assai remota, che un giorno veda la luce un volume due. E poi: gli archi che baciano e inondano l’ultima traccia, Give Me A Smile, quando vennero aggiunti? Perché per certo quelli Sibylle non li registrò nottetempo, nella cucina della sua prima casa americana. Ma sono in fondo ben altre le domande che al primo come al decimo o al cinquantesimo ascolto di un disco fatto di nulla, eppure che a ogni passaggio sa mostrarsi fresco e inaudito, sorgono spontanee e alle quali non si sa dare risposta. Precisamente quelle che Robert Forster (proprio lui: il fu Go-Between) si poneva in un bell’articolo del 2009 su donne “perdute”, ma poi ritrovate. Da dove veniva a una giovane tedesca la straordinaria facilità d’espressione – sia compositiva che interpretativa – in una lingua non sua? Da dove una tecnica chitarristica tanto sofisticata? Probabilmente non lo sapremo mai e va bene così.

Si fa in fretta a riferire della genesi di quello che diventerà “Colour Green”. Modella di buon successo e aspirante attrice, a inizio ’70 la Baier attraversa un difficile momento personale (determinato da che? naturalmente non lo si sa) dal quale un’amica le suggerisce che potrebbe uscire con un viaggio. Si mette allora sulla strada, gira per qualche tempo l’Europa soggiornando anche dalle parti di Genova e alla fine, pacificata, decide che non tornerà nella natìa Germania ma si trasferirà invece negli Stati Uniti. Ed è lì che le emozioni di mesi vagabondi che le hanno restituito la gioia di vivere si fanno canzoni, incise su un registratore a bobine in piena notte, sottovoce, per non disturbare il sonno della famiglia che ha nel frattempo messo su. Le scrive e le ferma su nastro senza mai pensare all’eventualità che un giorno gente non della sua cerchia più intima possa ascoltarle. Che non sia andata così è un miracolo di cui essere senza fine grati.

Una voce e una chitarra acustica. Null’altro contribuisce fino al brano conclusivo al disegno di “Colour Green”. Che nondimeno tiene costantemente avvinti, nondimeno incanta con una varietà melodica e di atmosfere stupefacente. Potrebbe essere, nei suoi momenti più ombrosi (penso a The End, alla title track, soprattutto a Girl), una Nico appesa a corde di nylon invece che al mugghiare di un armonium. Potrebbe essere, in quelli più aggraziati e sorridenti (Tonight, Softly, Forget About, William), una collezione di apocrifi di Joni Mitchell e sarebbero i più squisiti di sempre. Potrebbe essere Anne Briggs (I Lost Something In The Hills) oppure Vashti Bunyan (Driving), o ancora Nick Drake (Forgett) o Leonard Cohen, posto che si riesca a immaginarselo donna (Says Elliott). O forse no: potrebbe essere solo Sibylle Baier. Un inesplicabile prodigio.

Robby e Sibylle Baier

2 commenti

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2 risposte a “Presi per il culto (41): Sibylle Baier – Colour Green (Orange Twin, 2006; inciso 1970-1973)

  1. marktherock

    pazzesco che roba simile sia rimasta nascosta al mondo per quasi mezzo secolo. quando finisce l’incanto questa volta non grezzo ma straordinariamente compiuto nei suoi soli centoquindici secondi di Give me a Smile, con quella colata d’archi da groppo in gola a mezza via tra il Drake di Way to Blue e un Cohen a scelta tra i primi due album , ti chiedi come sia possibile che sia davvero finito tutto così.

  2. amo questo disco, alla follia. e amo trovarmi qui, così, adesso, mentre lo riascolto ancora e ancora. saluti, Giampaolo

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