Nel suo primo disco, del 2006, “Walking Off The Map” l’ossessione musicale al centro della vita di questo giovanotto del Kent era a tal punto evidente che nemmeno intitolandolo – che so? – “The Freewheelin’ Pete Molinari” si sarebbe potuta calcare di più la mano. Due anni più tardi per raccontare “A Virtual Landslide” (l’album della svolta elettrica!) non si poteva che chiamare in causa “Bringing It All Back Home”, ma a quel giro facendo qualche minima aggiunta, effettuando dei distinguo, notando che se sua Bobbitudine continuava a tenere il centro della ribalta nell’ombra prendeva corpo un coro di voci ancora più antiche: Warren Smith, Buddy Holly, Roy Orbison, Arthur Alexander, l’Elvis delle incisioni Sun. Non stupirà allora quando proprio le voci dei Jordanaires, che tante volte accompagnarono il Re del rock’n’roll, faranno da contraltare a quella del nostro uomo nel 2009, nella prima metà di un interlocutorio “Today, Tomorrow And Forever E.P.”. Alle prese con titoli insieme usurati e intoccabili come Satisfied Mind e Tennessee Waltz, Molinari vi ricreava un paesaggio da American Graffiti ma dandogli una collocazione rurale, laddove nella seconda metà del breve programma rifaceva acustiche tre canzoni sue e, ci fossero state solo quelle, il titolo non sarebbe stato nemmeno da discutere: “Another Side Of”. Da lì a un anno ancora “A Train Bound For Glory” faceva somma e sintesi dei predecessori aggiungendo inoltre un inedito tocco Beatles (va da sé: rigorosamente quelli pre-psichedelia): in tal senso disco “della maturità” per quanto forse la scrittura fosse, pur con punte di eccezionale brillantezza, lievemente al di sotto della stratosferica media del primo catalogo.
Bizzarro che uno come Pete Molinari non sia stato immediatamente eletto, sin dal suo apparire alla ribalta, a santino di un giornale come “Mojo”, trattandosi precisamente di quello che potrebbe uscire da degli immaginari laboratori del mensile in questione se mai decidessero di crearvi in vitro un autore e interprete al 100% rappresentativo di un ideale di rock classico nessuno dei cui elementi fondativi ha una vicenda di durata inferiore ai trent’anni (il nostro uomo, avrete inteso, è anche più oltranzista). Ancora più bizzarro, però, è che proprio nel momento in cui “Mojo” lo “scopriva”, scoperta che portava altri giornali a interessarsene regalando infine in patria un minimo di visibilità a un artista che incredibilmente non ha ancora una scheda su Wikipedia (cercare per credere), il giovanotto invece di provare a sfruttare il momento si sia defilato. Lo abbiamo aspettato quattro anni “Theosophy” e chi lo sa perché. Attesa quantomeno ampiamente ricompensata da un album non soltanto brillante ma latore di un paio di clamorose novità: una è che nel mondo di uno dei più devoti discepoli dylaniani di sempre Dylan opta per un ritiro sabbatico da cui esce provvisoriamente giusto per concedersi una giocosa e stentorea I Got Mine; l’altra è che parrebbe che per Molinari sia alla buon’ora arrivato il 1967, forse addirittura il ’68. Così – subito – in una Hang My Head In Shame che echeggia Come Together; più avanti nella collisione fra Byrds e Creedence di I Got It All Indeed e in una Winds Of Change da Oasis (ebbene sì!) non ancora ridotti a farsa e alle prese con Neil Young. Disco generoso di canzoni memorabili, dal folk-rock decisamente più Beatles che Zimmie You Will Be Mine ai Beatles stessi che si concedono al gospel di Mighty Son Of Abraham, dal disinvolto beat Evangeline al sontuoso jingle-jangle What I Am I Am, dal funereo blues So Long Gone a una conclusiva Love For Sale in cui ci si spinge ad adombrare la psichedelia e chi se lo sarebbe mai aspettato dal giovane vecchio Pete.
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