Trattandosi di Neil Young, l’età c’entra poco con il suo essere fuori di testa o, se preferite, con il vivere in un mondo solo suo. Uno in cui sembra sensato, con a disposizione un catalogo con dentro decine di canzoni classiche, suonarne quattordici in tutto dal vivo (ma farle luuuuuuunghe) essendo una una rilettura da oratorio di Blowin’ In The Wind e un’altra un inedito che tale sarebbe dovuto restare. È in fondo lo stesso pianeta che già abitava al tempo in cui si suicidava, commercialmente parlando, dando un seguito ad “Harvest” con “Journey Through The Past”, capostipite di una sfortunatamente sterminata stirpe di dischi assurdi e spesso orrendi. Era il 1972, ma il buon vecchio Neil era già il buon vecchio Neil e quindi era fatto così. Che gli vuoi dire? Se si annoia a suonare ancora Powderfinger, be’, si annoia. Cazzo gliene frega se ha davanti gente che ha sborsato decine di euro e magari percorso centinaia di chilometri per ascoltarlo? Il buon vecchio Neil è così: ti ha fracassato i coglioni per decenni con discorsi più o meno astrusi, più o meno sensati sul modo corretto di riprodurre la musica (è per via di tali fisime che taluni suoi capolavori sono rimasti fuori catalogo per periodi lunghissimi) e poi manda nei negozi un album registrato in una cabina Voice-O-Graph restaurata, una di quelle in cui, negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, si poteva entrare e provare l’emozione di incidere la propria voce su un disco in vinile. Ora: non fosse che “A Letter Home” fa parte ufficialmente della produzione del Canadese, è ufficialmente il suo trentaquattresimo lavoro in… ahem… studio, si potrebbe prenderlo per uno scherzo e pazienza se gli scherzi dovrebbero far ridere e questo no. O se no si potrebbe interpretarlo come un’operazione altamente concettuale e già diventerebbe più interessante. Tipo la merda d’artista, che però alla fine merda resta.
Quel che abbiamo in mano dunque, con rispetto parlando, sono una intro parlata (quando il buongiorno si vede dal mattino) e undici cover (particolarmente sfortunati Gordon Lightfoot e Willie Nelson, presi di mira due volte). Per ciò che attiene la forma immagino fosse il vostro sogno mettervi in casa un CD con registrazioni del 2014 che sembrano del 1930, con tanto di scricchiolii e distorsioni a inspessire la patina vintage. Il tutto naturalmente al normale prezzo di un CD nuovo, quindi intorno ai diciotto euro, ma se preferite potete spenderne un ventotto per l’edizione in vinile 180 grammi per audiofili (giuro: esiste; quantomeno non dovrete preoccuparvi di graffi, polvere o ditate e anzi al posto vostro la invecchierei ancora un po’ apposta) o, se proprio volete farvi un regalo, i centotrenta richiesti per la versione in cofanetto. E queste che vi ho dato finora erano le buone notizie. La cattiva è che la sostanza di “A Letter Home” è peggio della forma, che siamo ai livelli del terribile “Americana” (che stroncavo qui) e allora ci si aspetterebbe subito come risarcimento minimo un altro “Psychedelic Pill”. La cattiva è che, eccettuata una Girl From The North Country (da Dylan, ça va sans dire) di apprezzabile intensità, il buon vecchio Neil approccia il resto del programma nel migliore dei casi con l’esitante rispetto del busker alle prime armi e nel peggiore con la sua approssimazione. Valgano come particolarmente censurabili esempi dell’ultimo la Needle Of Death di Bert Jansch ridotta a uno strimpellare un po’ così laddove era struggente arazzo di corde e lo Springsteen ammaccato e traballante di My Hometown. Si arriva in fondo con la spiacevole sensazione di esser stati presi in giro e con il buon vecchio Neil è un déjà vu, ma non come quello del 1970, sfortunatamente.
Ecco, tu sai che cosa ho provato quando mi è arrivato a casa il vinile e l’ho messo sul piatto…
Condoglianze. 🙂
Mi immagino una serie variopinta di blasfemie…
mi permetto una osservazione, ossia che il concetto di alta fedeltà riguarda il “modo” in cui si riproduce la musica (o una qualsiasi evento “sonoro”) e non il “contenuto” del medesimo. Io posso benissimo registrare un rutto, una macchina voice-o-graph oppure la london symphony orchestra e in seguito riprodurli mediante un supporto e un impianto in alta fedelta perchè il concetto alla base è quello di ricostruire il messaggio sonoro e tutte le relative informazioni ambientali nella maniera piu fedele possibile alla sorgente originaria.
Quindi ha perfettamente senso (e anzi secondo me è geniale) registrare il sonoro di una voice-o-graph su vinile 180g per audiofili. L’obiettivo di Young secondo me era proprio di fornire una registrazione quanto più fedele possibile (Hi-Fi) di quello che era un vinile inciso con un voice-o-graph degli anni ’30 (Lo-Fi) con tutto il contorno di gracchi, sibili e distorsioni, prodotti non dal supporto con cui viene riprodotto ma dalla fonte originaria!
Sembrerà assurdo ma…poi è pure vero che il confine tra genio e follia a volte…
Perdonami la curiosità Eddy, ma che vuol dire il sintagma “ha lavorato presso Blow Up, Audio Review ecc.” che si trova bellamente scritto sul tuo profilo Google+? Ha lavorato?
VM sono queste le tue recensioni che più amo, non è che un giorno ci delizierai con il meglio del peggio del rock secondo VMO? sarebbe un sogno! ciò detto a letter home per me è un capolavoro, degno distare a fianco di imperituri masterpieces come REACTOR, Old Ways. Americana etc etc,
diciamo che è la produzione “laterale” del nostro. prendere o lasciare (io lascio). QA parte gli scherzi,certo che il vecchio pazzo di ciofeche ne dispensa sempre a piene mani, ma poi ti ripiazza la zampata e torna a galla l’antico amore. diavolo di un neil young
Non so Eddy, ma io Reactor lo salvo. Sarà perché fu il primo Neil Young che ascoltai di quella che Francesco definisce produzione “laterale”, ma ci sono affezionato…
Io ci son stato a Barolo e la perplessitá diffusa era palpabile. Tolta Love and only love, che però sono anni che apre i concerti e sarebbe pure ora di cambiare, la prima metá concerto è stata inusitata. Brani che sembravano riempitivi anche alla pubblicazione (Name of love! Ma come gli è venuta!), figuriamoci ora. Chissá se merita lo strabordante affetto che lo accoglie sempre. Su Letter home mi astengo: quel poco che ho sentito è terrificante.
crazy horse, di nome e di fatto.