Archivi del mese: agosto 2014

Quattro chiacchiere sfigate con John Cale

Ho sempre adorato leggere interviste – quelle lunghe, quelle serie, a gente che ha davvero qualcosa da dire – e ho sempre odiato farle, un po’ per timidezza ma soprattutto perché quel tipo di interviste lì, che è l’unico che mi interessa, è quasi sempre fuori portata per un giornalista italiano alle prese con artisti stranieri. Con i quali dividere una giornata non è praticamente mai un’opportunità e tanta grazia se puoi dividere la stessa stanza per mezz’ora. Spesso è una telefonica, spesso è un quarto d’ora rubato in mezzo a una sequela infinita di altri quarti d’ora e a che pro? Per poi riempirci due pagine, o soltanto una, o una colonna appena. Chissenefrega. Da un certo punto in poi della mia vicenda professionale (non che prima ne avessi fatte chissà quante) ho potuto permettermi di rifiutare la routine suddetta e me lo sono permesso.

Marcava un punto di non ritorno una conversazione transatlantica con uno dei miei idoli, a un certo punto della quale dovetti fare un notevole sforzo per non mandarlo a cagare. Il ricordo di quei venti minuti ha da allora sciupato ogni mio incontro su disco con il Gallese ed è sempre a quei venti minuti che devo il rimpianto più grande della mia vita: non avere intervistato Joe Strummer – de visu! – quando qualche anno dopo me ne fu offerta l’opportunità. Ad aggiungere danno alla beffa, la rivista che mi aveva commissionato il pezzo non lo pubblicò sul primo numero raggiungibile e, per il successivo, mi chiese di tagliarlo, portandolo da quattromila battute scarse a duemilacinquecento. Mi ero rovinato il fegato per… boh?… trentamila lire? Mai più.

John Cale 1996

Uno ha un bel prepararsi mentalmente ma quando, alle quattro di pomeriggio di un 19 giugno infausto per l’Italia pedatoria, dal suo telefono esce quella voce, la voce che in The Gift (il secondo brano in scaletta in “White Light/White Heat”, il secondo LP dei Velvet Underground, per i due o tre che non lo sapessero) narra con gelido aplomb la storia dello sfigato Waldo, ebbene, l’emozione è vivissima e incrementa, se possibile, la reverenza con la quale ci si rivolge alla persona in quel momento all’altro capo del filo, in uno studio di registrazione newyorkese. Dal canto suo John Cale, magari anche perché infastidito da una linea alquanto disturbata, nulla fa per porre a suo agio l’interlocutore. Il pretesto per il colloquio è ovviamente di natura promozionale: il 23 settembre esce “Walking On Locusts”, ventiduesimo album in proprio del Gallese e primo di canzoni tutto suo (tolti cioé “Songs For Drella” con Lou Reed, “Wrong Way Up” con Brian Eno e “Last Day On Earth” con Bob Neuwirth) da ben undici anni in qua. Non ci potrebbe essere occasione migliore per Cale, ora felicemente accasato presso la Hannibal dell’amico Joe Boyd, per mettere da parte la sua notoria idiosincrasia per le interviste. E invece no.

Mai scortese, formalmente, risponde spesso poco più che a monosillabi, persino quando gli si chiede del disco nuovo, del quale pure è soddisfatto al punto di dichiararlo “con ‘Music For A New Society’ e ‘Honi Soit’, il mio lavoro più riuscito di sempre”. Sulla spigolosa Crazy Egypt, scritta insieme con David Byrne, non fornisce informazione alcuna, limitandosi a smentire la leggenda che lo raccontava “scippato” da Eno della produzione del secondo Talking Heads. A esplicita domanda riconosce l’influenza sulla desolata, eppure solare, Secret Corrida, il più memorabile dei dodici titoli che sfilano in “Walking On Locusts”, del Miles Davis di “Sketches Of Spain”. “Ma è una canzone sulla situazione nei Balcani, nello specifico sulla guerra in Bosnia”, afferma, liquidando una richiesta di ulteriori delucidazioni con un laconico “la canzone parla da sola”. Quando la conversazione si sposta sull’altro momento indimenticabile offerto da un disco buono, complessivamente, ma certo non paragonabile alle migliori pagine d’annata caliane, la commossa elegia di Some Friends, il Nostro dice “è per Sterling” (Morrison, il chitarrista dei Velvet scomparso lo scorso anno) e non aggiunge altro. E quando alla domanda “Pensi che ‘Peel Slowly And See’ sia la migliore rappresentazione possibile dei Velvet Underground o si sarebbe potuto fare di meglio?” risponde “è quello che è” la tentazione di salutarlo e lasciarlo al successivo intervistatore si fa pressoché irresistibile. Ma subito dopo, quasi avesse avvertito la tensione che saliva, Cale un minimo si scioglie. Riconosce ad alcuni dei tanti gruppi che si ispirano ai Velvet, senza però specificare a quali, un contributo alla formula di idee fresche, se non inedite. Si rivela consumatore appassionato di world music con un debole per Angelique Kidjo, della quale compra a scatola chiusa tutto quanto esce. Dichiara di essere sempre interessato alla produzione e che presto, oltre a continuare a operare in ambito classico, tornerà anche in questo campo a dedicarsi al rock (gran bella notizia se ci si ricorda che curò suoni e regia degli esordi a 33 giri di Stooges e Patti Smith e degli LP migliori di Nico).

Dieci anni fa dichiarasti: “Lou ha avuto la sua Walk On The Wild Side, io voglio la mia. Voglio vendere dischi, non collezionare panegirici. Quelli li conservo per la mia lapide”. Stai ancora cercando la tua Walk On The Wild Side?

No. Direi proprio di no. Non me ne frega più niente. Non sono più una leggenda disposta a scambiare il suo status con un po’ di fama spicciola.

Ma quando mai lo è stato?

Inedito in questa forma. Pubblicato in una versione rimaneggiata su “Rumore”, n.57, ottobre 1996.

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Don’t Stop ’Til You Get Enough (quando Michael Jackson era invincibile)

Avendo fatto il 25 giugno del 2009 la tristissima fine che sapete, l’uomo di “Thriller” (per chi non lo sapesse: l’album più venduto di tutti i tempi) non compie oggi cinquantasei anni. Quando le prime pagine dei giornali erano ancora piene di articoli su una morte controversa se possibile anche più di una vita con tante ombre, mi venne chiesto di scegliere un disco per ricordare l’artista Michael Jackson. Non esitai mezzo secondo. Il mio voto andò a “Off The Wall”.

Michael Jackson - Off The Wall

Sulla copertina di “Off The Wall” – che nel comune ricordare è il suo esordio da solista quando ben quattro LP lo avevano preceduto: però in fondo ha ragione il comune ricordare – Michael Jackson dimostra esattamente i ventun’anni da compiere che aveva ed è nero (incredibile) e sorridente (ancora più incredibile). Ha un’aria guascona, la faccia di chi sa che non potrà che vincere e ignora che proprio il susseguirsi dei trionfi gli negherà ogni possibilità di una vita normale. Non sapendolo, si gode una duplice indipendenza: dai Jackson 5 se non dalla famiglia e da quella Motown che se l’è cresciuto orgogliosa e tiranna quanto il padre Joe. Alla prima uscita su Epic il ragazzino più vecchio del mondo (già quindicennale la carriera) fa saltare il banco come nemmeno il più ottimista dei discografici avrebbe pronosticato: quattro singoli nei Top 10 USA, due al numero uno e record di vendite che “Thriller” polverizzerà, ma per intanto sono dei signori record. Meritati? Assolutamente sì.

“Off The Wall” non è il capolavoro (troppo altalenante la qualità) che si dice che sia. Ci va però vicino e a portarlo lì sono guarda caso i tre brani su dieci firmati dal titolare e tutti sistemati su quella che in origine era la prima facciata: in due – Don’t Stop ’Til You Get Enough e Get On The Floor – si rasentano apici di funkitudine mai raggiunti da mortale che non si chiamasse James Brown. Piace notare che non occorre consultare i crediti per attribuire I Can’t Help It a Stevie Wonder e al maggiore. Dispiace dovere viceversa rilevare che Girlfriend è il Paul McCartney più formulaico di cui si abbia memoria. Il resto è quasi tutta disco allo stato – al tempo – dell’arte. Con “Thriller” Jackson andrà definitivamente a collocarsi nell’universo del pop e resterà dunque questo il suo più grande contributo alla storia della black.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.303, settembre 2009.

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The Cure 1978-1996 (17): Paris

Paris

The Figurehead. One Hundred Years. At Night. Play For Today. Apart. In Your House. Lovesong. Catch. A Letter To Elise. Dressing Up. Charlotte Sometimes. Close To Me.

Fiction, ottobre 1993 (album doppio; la versione su CD è singola) – Registrato dal vivo allo Zenith di Parigi nell’ottobre del 1992 – Tecnici del suono: Ray Mascarenasi e Mark Robinson – Produttori: Bryan “Chuck” New e Robert Smith.

Tanto “Show” è vivace, tanto “Paris” è introverso e se non li si direbbe mai dischi di gruppi diversi è solamente perché la voce di Robert Smith è caratteristica e caratterizzante quasi quanto quella di un Michael Stipe. Se c’è quella voce sono i Cure, punto (lo sa bene Parry, che non a caso – ricorderete – si preoccupò che sul 33 giri dei Glove non fosse Smith a cantare). L’ombrosità di “Paris” dopo l’estroversione di “Show” deriva senz’altro anche da due fattori accessori: il fatto che fu registrato in autunno, mentre il suo predecessore immortala una notte di inizio estate, e che venne posto su nastro in un paese che adora i Cure nel loro insieme ma ne ama soprattutto il versante gotico. È però in primo luogo una scelta consapevole e studiata fin nei dettagli, come l’articolarsi della scaletta dimostra eloquentemente.

Si parte con due brani da “Pornography” e si torna poi persino più indietro nel tempo pescando per ben tre volte – At Night, Play For Today e In Your House – nell’ancora più antico “Seventeen Seconds”. L’estratto di “Wish”, Apart, che viene inserito a separare i primi due dall’ultimo è non a caso, fra i dodici episodi che compongono quell’album, il più ripiegato su se stesso, quello che maggiormente ricorda i trascorsi dark della banda Smith. E l’altra canzone proveniente da “Wish” è la romanticissima A Letter To Elise. Se si aggiunge che anche delle scintillanti Catch (da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”) e Close To Me (da “The Head On The Door”), l’una e l’altra 45 giri di successo, vengono offerte versioni particolarmente sobrie, sarà chiaro che se “Show” era fatto su misura per relegare il passato gotico dei Cure nei ricordi “Paris” lo riattualizza, individuando lo scuro filo che percorre tutta la storia del complesso intrecciandosi con la sua trama fondamentalmente pop.

Discograficamente “Paris” costituisce l’addio al gruppo di Porl Thompson, che nel 1995 si unirà a Robert Plant e Jimmy Page, e Boris Williams. È un addio in tono un po’ minore.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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Essential Yello (Anarchy & Electro In Switzerland)

Yello

Il punk più improbabile di tutti i tempi? Ha eccellenti possibilità di vincere il concorso il signor Dieter Meier, da Zurigo, solo Dieter in un singolo del 1978 su un’altrettanto improbabile Periphery Perfume in cui sbraita, con voce già un po’ fra Beefheart e Lydon, su un guerresco bailamme mediano fra i Pistols e una sorta di proto-oi. Ben poco rivelatore di quello che sarà ove viceversa è parecchio rivelatore il titolo, Cry For Fame. Potete provare a rintracciare l’originale su eBay a qualche centinaio di euro oppure, più saggiamente giacché si sta nel periglioso mezzo fra la curiosità storica e la semplice ciofeca, aspettare di imbattervi in una delle raccolte di oscurità post-settantasettine che lo contengono. Con il senno di poi, ci si fa comunque una bella risata. Immaginarselo Herr Meier – sosia di David Niven, industriale di benestantissima famiglia, cineasta, giocatore d’azzardo ai massimi livelli e di golf pure – che urla su un palco, vestito di pelle e magari con uno spillone in una guancia, magari sotto un diluvio di sputi: anarchy in Switzerland, oh yeah! Non che a pensarci bene il decisamente più rilevante resto della sua vicenda artistica paia meno bizzarro, visto che ben poche sigle non di area anglofona hanno goduto nella sciovinista Albione dell’appoggio incondizionato della stampa che accompagnò nella prima metà degli anni ’80 gli Yello, né se ne ricordano molte capaci di attirare cultori così distanti fra loro come i Residents e Afrika Bambaataa. I misteriosi Californiani si accendevano di entusiasmo nel 1979 per una travolgente premonizione di techno impazzita intitolata Bostich, e attaccolenta invero, e prontamente mettevano sotto contratto il gruppo formato qualche mese prima dal compositore polistrumentista Boris Blank e da Carlos Peron (nastri; durerà tre album) e cui Meier si era aggiunto solo in un secondo momento. I primi due LP negli Stati Uniti usciranno dunque griffati Ralph. Sempre Bostich conquistava il pioniere dell’hip hop e diventava immancabile nelle sue scalette, uno dei brani simbolo di un locale simbolo, il Roxy, degli albori di ’80 newyorkesi: influente in tal senso quasi quanto Trans Europe Express dei Kraftwerk, il complesso cui con migliore approssimazione possono essere accostati gli Svizzeri, in realtà di difficilissima collocazione e a loro volta assai influenti. Per non fare che un nome: i Pet Shop Boys sono spesso sembrati una loro versione meno policroma e più (seppur sempre con bella ironia) sentimentale.

Degli Yello la Universal ha appena ristampato, in edizioni cartonate e con un sontuoso contorno di bonus, i primi sei album, quelli che videro la luce in origine fra il 1980 e il 1988. È quasi metà di una discografia tuttora in divenire (l’ultima uscita del 2003) ma da tempo priva di guizzi e c’è tutto quello che merita avere. Tre bisognerebbe proprio averli, se si nutre un minimo di interesse per il pop elettronico più estroso. L’indispensabile è il debutto “Solid Pleasure”, forte oltre che della summenzionata Bostich dell’elettro-funk virato Devo di Bimbo e dell’exotica similmente devoluta di Downtown Samba, del kraut-reggae Rock Stop e di una Coast To Polka da Penguin… Robot Orchestra, di una Stanztrigger che manda in collisione batucada e go-go e di una Bananas To The Beat che preconizza la boutade dei Kraftwerk latini di Señor Coconut. Ma l’intera scaletta andrebbe citata e che dire allora di una Blue Green che innesta su una base Tangerine Dream vocalismi zappiani e una chitarra che si corre a guardare i crediti per avere conferma che sia quella (non lo è) di quell’altro genio inclassificabile di Snakefinger? Facile intendere cosa ci scorsero i Residents. Il poco meno che imprescindibile è il successore “Claro que si”, altra gemma di elettronica fondata su primitivi e ingegnosissimi campionamenti quando la diffusione dei campionatori era ancora a venire. Con all’esatto centro il dittico quintessenzialmente residentsiano She’s Got A Gun/Ballet mecanique e momenti altissimi in una Daily Disco che ipotizza Moroder come terzo incomodo fra Ralf e Florian e in una gigiona Pinball Cha Cha (e tanti saluti a Tommy), nell’arabeggiante Ouad el Habib e nel funk-rock con elettrica imbizzarrita, teutonico e clintoniano, The Lorry. Il comunque fortemente consigliato è “One Second”, soprassalto di verve datato ’88 dopo che gli ognimmodo apprezzabili “You Gotta Say Yes To Another Excess” e “Stella” (’85 e ’87) avevano evidenziato una certa adesione a un canone techno-pop meno spigoloso (pur sempre relativa e valgano come significative e antipodiche eccezioni una schizoide Crash Dance e il jazzeggiare dinoccolato di Swing). In “One Second” si punta decisamente la pista da ballo, quantunque restando all’interno della forma-canzone, e di nuovo baluginano stupefacenti lampi di futuro, come la house latina di La habanera, quella afro di Santiago, quella tutta scatti e scilinguagnolo di Goldrush. Occhio al contrario volto a un passato che mette insieme Yma Sumac, il soul e i Jefferson (canta Shirley Bassey: chapeau!) in un’inverosimile quanto meravigliosa The Rhythm Divine.

Urgerebbe a questo punto, per rendere completamente giustizia all’avanguardistico sodalizio, che il da lungi introvabile VHS “Essential Yello” (prova provata della bravura registica di Meier) venga riversato in DVD.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.619, febbraio 2006.

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I primi Miracoli di Smokey Robinson

The Miracles

Immaginate i Beatles che perdono per strada John Lennon e Paul McCartney, vanno avanti senza cambiare nome con dei sostituti presentati proprio dai dimissionari e dopo l’amichevole scissione prima si ritrovano acclamati dalla critica come non mai e, a distanza di qualche anno, colgono il loro successo più grande di sempre. Fantamusica, naturalmente: non sarebbe mai potuto capitare. Be’, era esattamente quanto accadeva al complesso black preferito dai Beatles stessi (e pure dagli Stones, e da Dylan), i Miracles, che lasciati da Smokey Robinson e Marv Tarplin nel 1972 e rimpiazzatili con i fratelli Billy e Donald Griffin vedevano l’anno dopo salutato da ovazioni assordanti il primo LP del nuovo corso, “Renaissance”, e nel ’76 venderanno svariati milioni di copie del singolo Love Machine (Part 1). Ma d’altro canto: miracolosa lo era stata sin dal principio la storia del gruppo fondato nel 1955 a Detroit come Five Chimes dagli allora quindicenni William “Smokey” Robinson e Ronald White, rifondato pochi mesi dopo, per via di un rimescolamento di formazione, come Matadors e a distanza di sei mesi ancora ribattezzato definitivamente quando l’ingresso in squadra di una fanciulla, Claudette Rogers (dal 1959 la signora Robinson), rendeva implausibile una sigla di gusto macho. Un bel giorno del 1958 ragazza e ragazzi si presentavano a un’audizione con il manager della superstar Jackie Wilson e venivano bocciati. Troppo simili ai Platters. Perché “un bel giorno”, allora? Perché al provino era presente tal Berry Gordy, al quale invece piacevano e che si offriva di diventarne lui il manager. Il seguito è Storia della musica popolare del Novecento: dopo un paio di hit minori (per End e Chess) Robinson suggeriva a Gordy di massimizzare gli altrimenti modesti profitti fondando un’etichetta discografica e costui seguiva il consiglio. La chiamava Motown e sarebbe presto divenuta la più grande fabbrica di successi – all’incrocio fra soul e pop – che si ricordi, “il Suono della Giovane America”, niente di meno. Tantissimi scritti dallo stesso Robinson (qualcuno in coppia con Gordy), molti per i Miracles e (incredibilmente) molti di più per altri gruppi e solisti della casa, dai Temptations a Marvin Gaye, dalle Marvelettes ai Contours, da Brenda Holloway a Mary Wells. A lanciare l’impresa era nel 1960 un 45 giri proprio di Robinson e sodali, Shop Around, il primo marchiato Motown ad arrivare al numero uno della classifica nazionale R&B, il primo a vendere oltre un milione di copie. Mai proventi vennero reinvestiti meglio. Nel 1961 il ventunenne Smokey era nominato vice-presidente della già rampantissima etichetta. Anche a motivo di ciò, oltre che di un talento fenomenale, di autore ancora più che di cantante (e che razza di cantante favoloso è, il suo cremoso falsetto uno dei più inconfondibili di sempre), gli album dei Miracles saranno costantemente altra e superiore cosa rispetto al 33 giri medio griffato da Gordy. Per cominciare: composti in massima parte da materiale autografo. E poi: album veri, mica l’ultimo paio di singoli e a contorno riempitivi messi in fila senza ritegno né un minimo di logica.

La scusa per mettere mano a questa paginetta è stata offerta dalla benemerita Hip-O Select, che lo scorso agosto ha mandato nei negozi e oltrettutto a un prezzo invitante (non dovreste pagarlo più di venticinque euro) un doppio CD, “Depend On Me”, che raccoglie quelli che furono, fra il giugno 1961 e il maggio 1963, i primi cinque LP dei Miracles con la preziosa aggiunta di alcuni brani che uscirono solo a 45 giri. È una delle ristampe più entusiasmanti di cui si sia beneficiato nel 2009, siccome molto di quanto riportato alla luce era da alcune ere geologiche di reperibilità impossibile, il suono (va da sé: in mono) è fantastico, il libretto è da favola e a fare l’assieme ancora più libidinoso provvede la fedelissima riproduzione, in miniature in cartone, delle impagabili copertine originali. Ciò che più conta è però e naturalmente che la musica sia di un livello che non ci si attendeva, dacché per l’appassionato di black anche piuttosto bene addentro alla materia fino a Depend On Me e tolte le prime hit la storia più autentica del combo detroitiano aveva finora come Anno Uno il ’65. Decollava sul serio con Going To A Go-Go e la ragione sociale ulteriormente aggiornata a Smokey Robinson & The Miracles. Insomma: un líder máximo e dei sottoposti. A casa di chiunque i loro dischi negli scaffali stanno alla lettera “r”. Sarebbe forse il caso di spostarli alla “m”.

“Hi, We’re The Miracles”, “Cookin’ With”, “I’ll Try Something New”, “The Fabulous” e “Recorded Live On Stage” appaiono dischi piuttosto diversi fra loro per stili declinati e tensione esibita: il debutto influenzato dal doo wop e dominato dalle ballate e il successore dai ballabili, il terzo sbilanciato dall’alternarsi di novelli classici e standard interpretati bene ma presenza incongrua e il quarto viceversa coerentissimo in uno sviluppo maturamente soul. E che razza di bomba il live! Con l’unico torto di essere troppo breve. Una caratteristica accomuna in ogni caso tutti e cinque: l’essere evidentissimamente opera di un collettivo, con alla testa – al più – un primo fra pari. Non sarà dunque un caso se, quasi dieci anni dopo, la dipartita del deus ex machina la macchina non la arresterà.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.665, dicembre 2009.

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Buon compleanno Elvis (Costello)

Fa oggi cifra tonda – sessant’anni – Declan Patrick Aloysius MacManus, meglio noto con il nome d’arte di Elvis Costello. Lo omaggio omaggiando la canzone per me più bella fra le molte centinaia che recano in calce la sua firma: Shipbuilding.

Elvis Costello 1983 - Particolare della copertina di Punch The Clock

Ci sono canzoni che definiscono un’era. Ci sono canzoni che restano appiccicate per sempre alla pelle di chi ne è l’autore. Ci sono canzoni che sai a memoria e nondimeno ogni volta che le ascolti ti toccano nel profondo come la prima, e ti ricordi dov’eri, e cosa stavi facendo il giorno in cui fecero irruzione nella tua vita e tutto all’improvviso si fermò. La perfezione non è di questo mondo, ma ci sono canzoni perfette e Shipbuilding è una di queste. La migliore che Elvis Costello abbia mai scritto, e stiamo parlando di uno che ne ha scritto parecchie centinaia e pubblicato album a decine. Solo che non è proprio esatto dire che l’ha scritta lui, nel senso che il testo è suo ma la musica è di Clive Langer, che è uno che ha prodotto un sacco di dischi ma non ne ha mai realizzato uno in proprio, tolte alcune colonne sonore, tolti quelli come chitarrista degli oscurissimi (fuori dalla Gran Bretagna, in Gran Bretagna un culto) Deaf School. Non credo di conoscere nessun’altra canzone scritta almeno in parte da Langer ma Shipbuilding mi basta: è una di quelle che giustificano da sole un’esistenza. Non ho lo spazio per raccontarne per filo e per segno la genesi e mi limito a questo. Langer componeva la delicata melodia pianistica con in testa l’idea di affidarla a quattro diversi cantanti ma decideva poi che uno solo era davvero adatto e non poteva essere che Robert Wyatt. Insoddisfatto del testo che aveva buttato giù lo cestinava e chiedeva a Costello di scriverne lui uno, con un’unica generica indicazione: qualcosa che avesse a che fare con lo scorrere del tempo. Disattesa nel momento in cui il suo coetaneo (sono entrambi del ’54) adattava alla malinconia dello spartito versi ispirati da quel conflitto non dichiarato da operetta (quasi un migliaio di morti comunque li fece) che andava in scena proprio in quei giorni della primavera 1982 fra Argentina e Regno Unito, per il possesso delle isole Falklands o Malvinas che dir si voglia. Non è una canzone “di protesta”, Shipbuilding, ma qualcosa di infinitamente più sofisticato e pregnante, riflessione che si fa emozione su come una città costiera si risollevi dalla crisi economica grazie agli ordini di natura bellica che cominciano ad arrivare ai cantieri. I padri disoccupati potranno finalmente tornare al lavoro, per costruire navi come quelle sulle quali i figli si imbarcheranno, per andare a morire. Pubblicata su un singolo in agosto (iniziate il 2 aprile, le ostilità erano terminate il 14 giugno) la versione di Wyatt è meravigliosa. Ma quella di Costello, inclusa esattamente un anno dopo in “Punch The Clock” e lunga quasi due minuti in più (cinque contro tre), sconfina nel trascendentale. Era venuto in mente al nostro uomo che un assolo di tromba ci sarebbe stato proprio bene ed era il Miles Davis di “Sketches Of Spain” che aveva in testa. Fungeva da ben più che un surrogato un Chet Baker casualmente a Londra in quei giorni, presenza di cui Costello altrettanto casualmente veniva a sapere. Arrivato in sala d’incisione senza avere idea di chi fosse quell’estemporaneo datore di lavoro, il trombettista ascoltava tre o quattro volte il brano e poi registrava le sue parti. Buona la prima. È Chet Baker a rendere Shipbuilding, nella lettura di Elvis Costello, un qualcosa di indescrivibile. Ci sono assoli che giustificano un’esistenza e Shipbuilding ne contiene due.

Ci sono canzoni che per un verso schiacciano il disco che le contiene, sminuendo il resto del programma, e per un altro e all’opposto lo conservano nella memoria più bello di quanto non sia. Al netto di Shipbuilding, “Punch The Clock” resta un buon album ma forse il meno soddisfacente di quelli concepiti fino a quel momento dall’autore. Con il torto oltretutto di andare immediatamente dietro a un conclamato capolavoro quale “Imperial Bedroom”, classico di un pop troppo estraneo al suo tempo (un evidente modello la scuola di Tin Pan Alley) e raffinato per scalare le classifiche ma che aveva fatto impazzire la critica, definitivamente convinta della genialità di colui che appena un lustro prima era stato etichettato come un Buddy Holly punk e che già aveva stupito a più riprese spaziando dal power pop al soul, dalla new wave al country. Al netto di Shipbuilding, “Punch The Clock” è non più che una sfilata di brani gradevoli – più degli altri uptempo esuberanti come Let Them All Talk, Love Went Mad e TKO (Boxing Day), una ballata negra quale Everyday I Write The Book, l’errebì Pills And Soap – che la produzione patinata proprio di Clive Langer (con l’abituale partner Alan Winstanley) insieme fa datare e rende datati. Che ironia, eh? Nulla di scandaloso, ma lo cogli subito che non può essere stato inciso che poco prima della metà degli ’80, tanto di più se hai modo di coglierne appieno ogni dettaglio – dai fiati sferzanti al piano lievemente innaturale, dal particolare… uh… “punch” della ritmica all’uso di vari effetti di studio – grazie a una stampa fedelissima quale è quella recentemente approntata dai soliti noti della Mobile Fidelity e inclusa nella collana Original Master Recording. Non arriverei a sostenere che “Punch The Clock” suonava meglio quando suonava peggio ma…

Medesima la griffe, medesima dunque la distribuzione italiana “courtesy of Sound And Music”, non posso invece spendere che buone parole per un “King Of America” che per cominciare mi ha stupito per la dinamica, apprezzabile a dispetto dei cinquantotto minuti di durata, quando già mi apprestavo a deplorare che non si fosse deciso di rieditarlo in forma di doppio. Tutto fila invece liscio, grazie anche a una produzione originale (il titolare stesso in coppia con T-Bone Burnett) asciutta al punto di rischiare una certa aridità. Fotografia in bianco e nero, dai contorni piuttosto netti ma con le giuste sfumature, di un’eccezionale collezione di Americana approntata dall’artista anglo-irlandese circondando con tredici originali superbamente “in stile” un’agonizzante resa più Nina Simone che Animals di Don’t Let Me Be Misunderstood e una del cavallo di battaglia di J.B. Lenoir Eisenhower Blues. Nei ventotto anni trascorsi dacché la diede alle stampe il nostro eroe è stato ancora capace – e spesso – di sorprendere (anche appena un anno fa, dividendo un album con i Roots) ma così ispirato non ci è più stato dato di sentirlo. Tranne forse in “Painted From Memory”, del ’98 e una collaborazione con tal Burt Bacharach.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.353, luglio 2014.

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Il Van Morrison più sottovalutato: Veedon Fleece

Van Morrison - Veedon Fleece

Chiusura di un cerchio perfetto come la proverbiale “o” di Giotto, fratello minore con il torto – se così si può chiamare – di giungere molto dopo uno dei pochi capolavori della musica popolare del Novecento capaci di riscuotere consensi unanimi: punto e a capo che lascerà lungamente sospeso il discorso, “Veedon Fleece” è nettamente – già all’uscita e tuttora, benché in trentaquattro anni il culto sia pian piano cresciuto – l’album più sottovalutato dell’uomo di Belfast. Uno dei quattro o cinque più rimarchevoli in un catalogo che conta tre buone dozzine di articoli. Il solo in qualche modo e misura accostabile a quell’“Astral Weeks” il cui glorioso bagliore però ne impallidisce e sfuma ulteriormente i toni crepuscolari: e dire che la luce che sul davanti dell’iconica confezione spiove sull’incravattato artista e i suoi cani si scommetterebbe quella di un primissimo mattino curvo sotto il peso delle sue promesse. Altre di promesse erano state appena infrante, dolorosamente. Alzi la mano chi non ha invidiato il giovane Dylan sottobraccio a Suze Rotolo sulla copertina di “The Freewheelin’”. Alzi la mano chi spalancandone un’altra di copertina, quella di “Moondance”, non si innamorò della ninfa silvana che vi si accompagna a Van The Man. Vi fece cadere in ginocchio in foto, figurarsi vera. Divenuta la signora Morrison a qualche mese da quegli scatti, Janet Planet chiedeva il divorzio nel 1973.

E allora, via. Via dagli Stati Uniti e ben ritrovata, Irlanda. Fisicamente l’album che per il Nostro resterà l’ultimo per tre anni è registrato fra la California e New York, ma l’anima è già al di là dell’oceano. È il disco del ritorno a casa e oltre che nelle atmosfere è negli intarsi che lo si coglie: ad esempio nel flauto che colpisce al cuore – gli archi saette che si infiggono intorno nel corpaccione di Van Sebastiano – le trame di jazz e di blues di Streets Of Arklow. “Veedon Fleece” si apre felpato e suadente con il basso felino e il piano quietamente trillante di Fair Play; vorrebbe congedarsi disperato, con l’invito sporto sapendo che verrà disatteso di Come Here My Love, ma ci ripensa e si dissolve nelle brume di misticismo di Country Fair. In mezzo, fra il meraviglioso resto: i sentori di whiskey e terra bagnata di Linden Arden Stole The Highlights; una Madame George ansiogena chiamata You Don’t Pull No Punches But You Don’t Push The River; il country esultante in cerca di una rivelazione di Bulbs. Esauritosi il periodo di transizione, Van Morrison piazzerà uno via l’altro qualcosa come sei – anche sette – album magnifici. Però tutti tessuti della medesima stoffa, ove “Veedon Fleece” fa storia altra e a sé.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.650, settembre 2008.

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The Cure 1978-1996 (16): Show

Show

Tape. Open. High. Pictures Of You. Lullaby. Just Like Heaven. Fascination Street. A Night Like This. Trust. Doing The Unstuck. The Walk. Let’s Go To Bed. Friday I’m In Love. Inbetween Days. From The Edge Of The Deep Green Sea. Never Enough. Cut. End.

Fiction, settembre 1993 (album doppio, sia su vinile che su CD) – Registrato dal vivo al Palace di Auburn Hills, Michigan, nell’estate del 1992 – Tecnico del suono: Greig Sangster – Produttori: Bryan “Chuck” New e Robert Smith.

Con il passare degli anni e il susseguirsi dei tour, i concerti dei Cure hanno finito per essere avvolti da un alone di leggenda che nella storia del rock ha dei precedenti soltanto nei Grateful Dead e in Bruce Springsteen. Come quelli del Morto Riconoscente e del Boss, i loro sono spettacoli parecchio più lunghi della media: già intorno al 1987 (il tour di “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”) si erano stabilizzati al di sopra delle tre ore. Come è abitudine di Springsteen, la scaletta è ogni sera diversa. E come quello dei Dead il pubblico che segue la banda Smith è estremamente composito per anagrafe ed estrazione sociale e straordinariamente fedele.

Nel 1981 il gruppo che fu del compianto Jerry Garcia aveva tentato un’operazione commerciale inedita facendo uscire due doppi album dal vivo, uno elettrico e uno acustico, ad appena sei mesi di distanza l’uno dall’altro. Dodici anni dopo i Cure azzarderanno ancora di più, pubblicando due live a un mese l’uno dall’altro. Anche in questo caso, trattasi di dischi per molti versi agli antipodi. “Show” riflette l’anima più pop della compagnia guidata da Robert Smith, “Paris” quella più oscura e tormentata: mettendoli insieme e mischiandone le scalette, e aggiungendo qualche classico dei primordi che manca all’appello perché già incluso in “Concert”, si ottiene un’esibizione standard del tour di “Wish”, a detta di molti uno dei più memorabili di sempre. Che le due anime dei Cure siano state separate chirurgicamente e che a rappresentare la prima sia stato scelto un concerto americano – negli Stati Uniti Smith e soci hanno raggiunto il grande successo con i 45 giri tratti da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” – e a illustrare la seconda sia stato chiamato uno spettacolo parigino – in Francia i Cure sono da sempre delle stelle, ma il loro pubblico è rimasto molto legato allo stereotipo dark – offre chiavi di lettura particolarmente stuzzicanti. Fedeli a quella che ha caratterizzato sin dalle prime pagine di esegesi questo volumetto, non abbiamo dubbi: al ballottaggio votiamo per “Show”.

Registrato al Palace di Auburn Hills, nel Michigan, nell’estate del 1992, questo doppio LP nella sua ora e mezza di durata propone 2/3 della scaletta di “Wish” integrandoli principalmente con estratti di “Disintegration”, “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” (sorprendentemente, uno solo) e “The Head On The Door”. Ci sono anche una Never Enough ancora più incandescente che nella versione in studio inclusa in “Mixed Up” e The Walk. Ma la presenza più sorprendente è quella di Let’s Go To Bed, che Robert Smith aveva sempre detto di detestare e che, risalendo al 1982, è la canzone più stagionata del lotto. Nessun brano, dunque, del periodo in cui negli Stati Uniti i Cure erano un oggetto di culto per una ristrettissima congregazione di fedeli.

Il primo dei due dischi è eccellente, ma è il secondo a fare di “Show” il migliore dei quattro album dal vivo di Smith e compagni e uno dei live più frizzanti (e sottovalutati) della prima metà degli anni ’90. Si presenta già alla grande, con una Doing The Unstuck più sobria e nello stesso tempo più trascinante di quella di “Wish”, prosegue con l’esaltazione funky di The Walk e Let’s Go To Bed e raggiunge quella che si scommetterebbe essere l’apoteosi con il pop scintillante e dolcissimo di Friday I’m In Love. Ma il meglio deve ancora venire. Robert Smith accenna sornione alla chitarra il riff di All Day And All Of The Night dei Kinks e subito dopo il gruppo si lancia in una versione capolavoro di Inbetween Days.

La citazione del classico davisiano, uno dei testi di riferimento del garage di ogni epoca, è un segnale lampeggiante che dice che da lì in avanti i Cure sveleranno un’anima rock’n’roll – lì, nella terra che al rock’n’roll ha dato i natali – che pochi avrebbero loro riconosciuto. Gli ultimi quattro brani vedono all’opera un gruppo in forma smagliante e lanciato a testa bassa sui sentieri di un rock tanto irruento da sfiorare l’hard. Never Enough si conferma omaggio a Hendrix ma nello stesso tempo va a confrontarsi anche con gli artisti della Seattle di questo decennio (ed è una bella partita). Se questo è rock da stadio, viva il rock da stadio.

Suonare a volume esagerato.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

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Whole Lotta Love (per Robert Plant)

Robert Plant

Buon compleanno a Robert Plant, che ne fa oggi sessantasei ma li festeggerà sul serio solo il prossimo 8 settembre, quando arriverà nei negozi il suo decimo lavoro da solista, “Lullaby… And The Ceaseless Roar”. Scommetto fin d’ora sulla sua qualità e per intanto ne celebro l’artefice ripescando le recensioni di due delle sue uscite post-Zeppelin più convincenti.

Robert Plant & The Strange Sensation - Mighty ReArranger

Mighty ReArranger (2005)

Un paio di numeri di “Extra” or sono ed era quello con i Led Zeppelin in copertina, in un box all’interno dell’articolo dedicato al Dirigibile si annunciava l’imminenza dell’uscita di un album di Robert Plant, descritto dal cantante come “una collezione in bassa fedeltà di ballate folk e la sua cosa migliore di sempre”, naturalmente dopo il gruppo di cui sopra. Sempre diffidare del rocker (tantopiù della rockstar) che oltre che dei figli ha pure dei nipoti e dichiara il suo nuovo disco quanto di meglio abbia realizzato dai primi ’70 o all’incirca: di patetici esempi al riguardo si potrebbero riempire colonne. Però Percy si è dimostrato negli anni uomo fededegno, la sua carriera solistica dignitosa, le due rimpatriate con Page, “No Quarter” e “Walking Into Clarksdale”, molto di più. Quasi quasi si poteva credergli. Ebbene, ha mentito. A metà, essendoci sì un tot di folk in “Mighty ReArranger” (All The King’s Horses una ballatona dritta dal secondo lato di “III”) ma niuna traccia di bassa fedeltà e soprattutto tanto d’altro che in effetti lo rende, e in questo ha viceversa asserito il vero, la sua uscita in proprio più rimarchevole. Detto fra noi: superiore a minimo tre degli articoli del catalogo Zeppelin. A proposito dei quali: sono loro che incontrano Gene Vincent per una jam in Kashmir a declinare Another Tribe, strepitoso incipit che certifica immediatamente l’eccezionalità dell’album. Torneranno spesso, ben presenti nel vortice di chitarre massicce di una Freedom Fries che è poco meno che un’altra Black Dog come nel John Lee Hooker hardizzato della title track e questo se dei Led Zeppelin si vuole considerare solo il versante più muscolare. Tenendo da conto che di folk e blues si nutrirono da subito e più avanti trafficheranno con quella che non si chiamava ancora world music, “Mighty ReArranger” è esattamente il disco che potrebbero inventarsi oggi, oppure quello che purtroppo non fecero in luogo di “In Through The Out Door”.

Pure a questo è servito il breve rinnovarsi del sodalizio con Page: a far fare pace a Plant con un passato del quale è sempre stato orgoglioso ma che troppo a lungo ha avvertito come un qualcosa da cui distanziarsi assolutamente, a costo di qualche forzatura. Qui è come se fosse infine tornato a casa e non si butta più via niente: una Tin Pan Valley che parte leggiadra per deflagrare epica o l’araba Takamba, una Dancing In Heaven che sarebbe piaciuta al George Harrison più imbevuto di cultura indiana o l’acidissimo funk-blues Let The Four Winds Blow.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.19, autunno 2005.

Robert Plant & Alison Krauss - Raising Sand

Raising Sand (con Alison Krauss, 2007)

Di Percy Plant il lettore conoscerà tutto o quasi: l’epopea zeppelliniana e magari qualche più o meno estesa porzione di una carriera solistica dignitosa anche nei momenti meno ispirati e con una formidabile vetta tre anni fa con quel “Mighty ReArranger” incensato pure su queste pagine. E che, riascoltato, moltiplica i dubbi sulla recente decisione di fare tornare a volare il Dirigibile, cosa decisamente altra rispetto al felice quanto estemporaneo rinnovo del sodalizio con il solo Page sanzionato nello scorso decennio da “No Quarter” e “Walking Into Clarksdale”. L’impressione – forte – è che oggi Page abbia un assoluto bisogno di Plant quando Plant non ne avrebbe nessuno di Page. Ma sarebbero discorsi lunghi e che fatalmente porterebbero fuori tema, quando magari non tutti i lettori hanno presente la biografia della Krauss, una parecchio popolare sulla sua sponda dell’Atlantico ma appena un culto su questa. E allora: violinista provetta e somma divulgatrice del bluegrass; fanciulla prodigio che firmava il primo contratto discografico nell’85, a quattordici anni, e pubblicava il primo album a sedici; vincitrice di più premi di quanti se ne possano elencare qui e nel 1995 numero due nella classifica country e nei Top 10 di quella pop con una raccolta che radunava il meglio delle uscite precedenti. Era nata una stella, ma che dodici anni dopo il matrimonio con una assai più anziana e luminosa, e proveniente da tutt’altra galassia, potesse funzionare era scommessa a un primo sguardo azzardata. E invece…

Invece – decisiva complice la produzione di un T-Bone Burnett sempre pronto a levigare gli spigoli e seppiare istantanee odierne in bianco e nero come fossero scatti da un passato mitologico – funziona meravigliosamente ed esattamente perché né ci troviamo dinnanzi dei Led Zeppelin unplugged né alle prese con un secondo “O Brother, Where Art Thou?”. Ci si incontra altrove, a più riprese dalle parti ove Gram Parsons ed Emmylou Harris presentarono istanze di immortalità. Facile immaginarli alle prese con Killing The Blues come con Please Read The Letter, o ancora con Stick With Me Baby. Ci si sorprende a cercare la firma di Parsons sotto Through The Morning, Through The Night e invece c’è quella di un altro Byrd, Gene Clark, autore anche di una Polly Come Home fatta rada e spettrale. Disco quasi tutto di cover e più di una lascia di stucco per l’estro dell’interpretazione: dura riconoscere gli Everly Brothers nello spigliato rockabilly (pur sostanzialmente fedele) di Gone Gone Gone (Done Moved On); ancora di più Townes Van Zandt nel massiccio incedere di una Nothin’ che, articolo unico in un catalogo di tredici, più di qualcosa di zeppelliniano ha. Unico? Riassaporo per l’ennesima volta il congedo Your Long Journey e nel quadernetto degli appunti scrivo accanto al titolo: Fairport Convention. Ci ripenso, cancello, sostituisco con The Battle Of Evermore.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.29, estate 2008.

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Meglio del viagra? George Benson In An Erotic Mood

George Benson - Erotic Moods

Che razza di personaggio pazzesco Paul Winley, uno che a raccontarne la vita si stenta a credere a quello che si sta dicendo: autore di canzoni doo wop per i Clovers del fratello Harold e rhythm’n’blues per Ruth Brown e Big Joe Turner, collaboratore di Ahmet Ertegun alla Atlantic e quindi discografico in proprio alla testa di un’etichetta battezzata con il suo stesso nome per la quale usciva una delle prime raccolte di rock’n’roll e incidevano gruppi vocali di primissimo livello e successo quali Paragons, Jesters, gli stessi Clovers. Già non sarebbe male, dovendo aggiungere come gustoso dettaglio il matrimonio con Ann, donna di pari talento con una penna in mano e davanti uno spartito da riempire. L’incredibile arriva ora: messa fuori gioco nei primi ’60 dai mutati gusti musicali, la casa discografica dei due inseparabili coniugi riemerge intorno al giro di boa dei ’70 pubblicando discorsi di Malcolm X, ballabili e soprattutto rap. Una faccenda di famiglia nell’ultimo caso, visto che le prime rapper in assoluto sono… Tanya e Paulette, figlie di Paul e Ann. L’uomo che aveva dato alle stampe una delle prime raccolte di rock’n’roll è lo stesso che nel 1979 firma la prima collezione (la collana “Super Disco Brake’s” arriverà a contare sei volumi) di break: impossibile sopravvalutarne l’impatto sulla nascente cultura hip hop.

Che razza di chitarrista pazzesco George Benson, uno dei pochi con nelle corde sia lo swing che l’errebì e il funk, a suo agio con il pop così come a fianco di Miles Davis. Pure un eccellente cantante, un po’ Donny Hathaway e un po’ Stevie Wonder, ed era quello che lo rendeva ricco ma lo fregava quando nel ’76 This Masquerade, sorprendendo lui per primo, diventava una hit da Top 10. Sarebbero seguite schifezze inenarrabili quali Give Me The Night e se il suo conto in banca ne beneficiava assai la reputazione ne sarebbe rimasta rovinata per sempre. Per sempre?

Tempo di revisionismo, brothers and sisters, e non si potrebbe immaginare scusa migliore per dare il via al processo di questo “Erotic Moods”, che vedeva la luce (soffusa) nel 1978 ma contiene incisioni che risalgono anche a due anni prima, tutta farina del sacco di Paul e Ann Winley a livello di scrittura ma con il titolare autentico mattatore per quanto attiene alle esecuzioni. A parte che il lettore più attempato potrà, acquistandolo, risparmiare notevolmente da lì in poi sul viagra, è uno di quegli album capaci di regalare un sorriso e far battere il piedino a chiunque. Si va da una title track gustosamente santaniana al blues sferzante di Fed Up e a quello languidissimo di Sweet Taste Of Love passando per i groove mostruosi di Loose Joints e Overture Erotic. Ad arricchire a dismisura non l’interprete bensì gli autori sarà la traccia numero cinque su sei, Smokin Cheeba-Cheeba, non subito ma nell’89, quando Tone-Loc la campionerà estesamente con esiti multimilionari.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.659, giugno 2009.

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