Ho sempre adorato leggere interviste – quelle lunghe, quelle serie, a gente che ha davvero qualcosa da dire – e ho sempre odiato farle, un po’ per timidezza ma soprattutto perché quel tipo di interviste lì, che è l’unico che mi interessa, è quasi sempre fuori portata per un giornalista italiano alle prese con artisti stranieri. Con i quali dividere una giornata non è praticamente mai un’opportunità e tanta grazia se puoi dividere la stessa stanza per mezz’ora. Spesso è una telefonica, spesso è un quarto d’ora rubato in mezzo a una sequela infinita di altri quarti d’ora e a che pro? Per poi riempirci due pagine, o soltanto una, o una colonna appena. Chissenefrega. Da un certo punto in poi della mia vicenda professionale (non che prima ne avessi fatte chissà quante) ho potuto permettermi di rifiutare la routine suddetta e me lo sono permesso.
Marcava un punto di non ritorno una conversazione transatlantica con uno dei miei idoli, a un certo punto della quale dovetti fare un notevole sforzo per non mandarlo a cagare. Il ricordo di quei venti minuti ha da allora sciupato ogni mio incontro su disco con il Gallese ed è sempre a quei venti minuti che devo il rimpianto più grande della mia vita: non avere intervistato Joe Strummer – de visu! – quando qualche anno dopo me ne fu offerta l’opportunità. Ad aggiungere danno alla beffa, la rivista che mi aveva commissionato il pezzo non lo pubblicò sul primo numero raggiungibile e, per il successivo, mi chiese di tagliarlo, portandolo da quattromila battute scarse a duemilacinquecento. Mi ero rovinato il fegato per… boh?… trentamila lire? Mai più.
Uno ha un bel prepararsi mentalmente ma quando, alle quattro di pomeriggio di un 19 giugno infausto per l’Italia pedatoria, dal suo telefono esce quella voce, la voce che in The Gift (il secondo brano in scaletta in “White Light/White Heat”, il secondo LP dei Velvet Underground, per i due o tre che non lo sapessero) narra con gelido aplomb la storia dello sfigato Waldo, ebbene, l’emozione è vivissima e incrementa, se possibile, la reverenza con la quale ci si rivolge alla persona in quel momento all’altro capo del filo, in uno studio di registrazione newyorkese. Dal canto suo John Cale, magari anche perché infastidito da una linea alquanto disturbata, nulla fa per porre a suo agio l’interlocutore. Il pretesto per il colloquio è ovviamente di natura promozionale: il 23 settembre esce “Walking On Locusts”, ventiduesimo album in proprio del Gallese e primo di canzoni tutto suo (tolti cioé “Songs For Drella” con Lou Reed, “Wrong Way Up” con Brian Eno e “Last Day On Earth” con Bob Neuwirth) da ben undici anni in qua. Non ci potrebbe essere occasione migliore per Cale, ora felicemente accasato presso la Hannibal dell’amico Joe Boyd, per mettere da parte la sua notoria idiosincrasia per le interviste. E invece no.
Mai scortese, formalmente, risponde spesso poco più che a monosillabi, persino quando gli si chiede del disco nuovo, del quale pure è soddisfatto al punto di dichiararlo “con ‘Music For A New Society’ e ‘Honi Soit’, il mio lavoro più riuscito di sempre”. Sulla spigolosa Crazy Egypt, scritta insieme con David Byrne, non fornisce informazione alcuna, limitandosi a smentire la leggenda che lo raccontava “scippato” da Eno della produzione del secondo Talking Heads. A esplicita domanda riconosce l’influenza sulla desolata, eppure solare, Secret Corrida, il più memorabile dei dodici titoli che sfilano in “Walking On Locusts”, del Miles Davis di “Sketches Of Spain”. “Ma è una canzone sulla situazione nei Balcani, nello specifico sulla guerra in Bosnia”, afferma, liquidando una richiesta di ulteriori delucidazioni con un laconico “la canzone parla da sola”. Quando la conversazione si sposta sull’altro momento indimenticabile offerto da un disco buono, complessivamente, ma certo non paragonabile alle migliori pagine d’annata caliane, la commossa elegia di Some Friends, il Nostro dice “è per Sterling” (Morrison, il chitarrista dei Velvet scomparso lo scorso anno) e non aggiunge altro. E quando alla domanda “Pensi che ‘Peel Slowly And See’ sia la migliore rappresentazione possibile dei Velvet Underground o si sarebbe potuto fare di meglio?” risponde “è quello che è” la tentazione di salutarlo e lasciarlo al successivo intervistatore si fa pressoché irresistibile. Ma subito dopo, quasi avesse avvertito la tensione che saliva, Cale un minimo si scioglie. Riconosce ad alcuni dei tanti gruppi che si ispirano ai Velvet, senza però specificare a quali, un contributo alla formula di idee fresche, se non inedite. Si rivela consumatore appassionato di world music con un debole per Angelique Kidjo, della quale compra a scatola chiusa tutto quanto esce. Dichiara di essere sempre interessato alla produzione e che presto, oltre a continuare a operare in ambito classico, tornerà anche in questo campo a dedicarsi al rock (gran bella notizia se ci si ricorda che curò suoni e regia degli esordi a 33 giri di Stooges e Patti Smith e degli LP migliori di Nico).
Dieci anni fa dichiarasti: “Lou ha avuto la sua Walk On The Wild Side, io voglio la mia. Voglio vendere dischi, non collezionare panegirici. Quelli li conservo per la mia lapide”. Stai ancora cercando la tua Walk On The Wild Side?
“No. Direi proprio di no. Non me ne frega più niente. Non sono più una leggenda disposta a scambiare il suo status con un po’ di fama spicciola.”
Ma quando mai lo è stato?
Inedito in questa forma. Pubblicato in una versione rimaneggiata su “Rumore”, n.57, ottobre 1996.