Ascoltare con calma. Elaborare con lentezza. Farsi crescere un disco nuovo addosso come poteva accadere e accadeva in un tempo tanto lontano da parere irreale nel ricordo. È il lusso che mi sono concesso con “Everyday Robots”, che ho cominciato a frequentare in un pomeriggio di fine aprile e poteva essere uscito da non più di due o tre giorni. Ma non dovevo scriverne né per una rivista né per quell’altra e allora che fretta c’era, maledetta primavera? La mia prima volta con questo Damon Albarn solista, il primo Damon Albarn solista ad anni quarantasei (che fa esattamente il doppio di quelli che aveva quando i Blur diedero alle stampe il primo album) è stata durante un dormiveglia post-prandiale. Mi è come scivolato sopra, ma mi si è infilato sottopelle. All’improvviso sveglio, con l’impressione che qualcosa di bello fosse successo ed era così. Non l’ho riascoltato subito, ho lasciato passare qualche giorno. E da allora, tranne forse una o due in cui ero troppo preso a familiarizzare con dischi da recensire nel mentre ne recensivo altri, non è trascorsa settimana senza che “Everyday Robots” si facesse un giro. E ogni volta mi sembrava di conoscerlo meglio ma di meno, perché è quel tipo di album lì, prezioso, che a ogni passaggio ci scopri dentro qualcosa che in precedenza non avevi notato. Naturalmente mi è venuto in mente di scriverne qui, e però rimandavo sempre, e a un certo punto mi è sembrato di essere ormai fuori tempo massimo. Be’, la sapete una cosa? Chissenefrega. In fondo è del tutto appropriato scrivere a tre abbondanti mesi dalla pubblicazione di un disco che ti seduce subito ma a concedersi completamente ci mette più di una vergine riottosa. E poi il blog è mio e lo gestisco io.
Opera eccezionalmente coesa e coerente e nondimeno che vive di opposti, di apparenti contraddizioni: è fatta di aria ma è fatta di terra, sembra sempre come sgranata ma la voce la tiene a fuoco, è pastorale ma di un pastorale che viene dopo l’industriale. Li puoi immediatamente enucleare i suoi elementi costitutivi, metterli in fila: la chitarra che arpeggia e le figure parimenti elementari disegnate dal piano, i suoni “trovati”, gli archi che dispensano malinconie color pastello, strati su strati di voci, loop percussivi e sotto tutto, e a sorreggere tutto, un’onnipresente scansione downtempo. A volte down downtempo. Un corno sospira ed è subito sera. Ma era già sera, solo che era mattina. Pare un unicum, “Everyday Robots”, ma a farlo a pezzetti lo vedi che erano gemelli diversi: il bucolico post-moderno di Hostiles vicino al (quanto lontano dal) singultare di funk di Lonely Press Play (impossibilmente suadente la melodia); un interludio carillonesco a separare la festa caraibica di Mr Tembo dalla ballata glitch-jazz The Selfish Giant; la confessionale The History Of A Cheating Heart incastonata fra il Cohen traslocato a Bristol di Photographs (You Are Taking Now) e il gospel con Brian Eno a dare una mano di Heavy Seas Of Love. Ve l’ho già detto? Uno dei miei album dell’anno. L’ho capito al volo e poi ho dovuto pensarci a lungo.
Scrittura sublime. Calo il cappello.
Del disco non so 🙂
Erano anni che non sentivo parlare di Damon Albarn. Mi ricordo dei tempi dei Blur, di Modern Life is Rubbish, The Great Escape… ascolterò l’album.
Album fantastico, condivido ogni parola. Anche il fatto di scoprirlo pian piano. Eccezionale!
Disco di priofonda, arguta e matura intimità, questo.
Io sono d’accordo con il recensire il disco con calma. Troppe volte ho letto e seguito recensione troppo frettolose e ingannevoli scritte sull’onda dell’entusiasmo.