Non c’è niente da fare. Sono in circolazione da dieci anni e degli statunitensi Clap Your Hands Say Yeah si continua a parlare partendo dal marketing. Dal loro essere stati il primo esempio di do-it-yourself totale nell’era di Internet: l’omonimo debutto del 2005 se lo registravano, producevano, stampavano, distribuivano e promuovevano da soli. E diventava un caso mediatico in forza dell’appoggio della rete dei blog e di una recensione da 9.0 su “Pitchfork”, non su un qualche giornale di carta. Nove anni, tre album e quattro defezioni dopo – “Only Run” è stato registrato dai due superstiti dei cinque fondatori, il cantante e chitarrista Alec Ounsworth e il batterista Sean Greenhalgh, e ora anche quest’ultimo se n’è andato – dei Clap Your Hands Say Yeah si seguita a scrutinare ogni mossa con un’attenzione minimo pari a quella riservata alla musica. E viene un sospetto: sarà mica perché la musica non è così interessante? Tutto quel rimasticare stilemi indie-rock, partendo principalmente dalla new wave, per poi rigurgitare canzoni ben fatte ma immancabilmente già sentite. Senza quel guizzo in più, senza quel sapere cambiare passo di gruppi come TV On The Radio o Vampire Weekend.
Questo disco è comunque meglio di quanto non stia leggendo in giro, capace com’è per un verso di trovare un punto d’incontro fra la tendenza “art” degli esordi e le successive evoluzioni in chiave di post-punk versante dance e, per un altro, capace di distinguersene in forza di un sound più tastieristico che chitarristico – per quanto i riffoni non manchino e ne è l’esempio più incisivo Coming Down. La techno-wave di Little Moments, una traccia omonima molto Ultravox e la possibile hit (in forza di un ritornello micidiale) Impossible Request gli altri episodi citabili e applaudibili.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.353, luglio 2014.