Come avrete letto più o meno ovunque, dopo quattro anni di più o meno silenzio Prince torna oggi nei negozi non con uno ma con ben due album nuovi. Naturalmente farò lo sforzo di ascoltarli, senza attendermi nulla di buono e tuttavia sapendo che potrebbero regalarmelo eccome. Mi è parsa in ogni caso un’ottima scusa per recuperare questo articolo che scrissi nel 2011, come prefazione a un volume della Odoya che già avevo letto in originale. Non ho mai avuto il fegato di andare a verificare se la traduzione sia almeno un po’ superiore ai discutibili standard della casa.
D’accordo: solo chi cade può risorgere e tuttavia a cadere troppe volte i lividi rimangono e magari anche sulla pelle di chi osserva. Nel marzo 2009 l’Artista che è tornato a farsi chiamare Prince dava alle stampe un’opera mastondontica e sconcertante, non tanto un triplo album quanto tre album non acquistabili separatamente e di uno dei quali manco figura come titolare. Parto dai restanti. Uno non male ma nemmeno niente di che, se si considerano i precedenti dell’artefice: occasionalmente esagerato in grinta e volumi, “LotusFlow3r” hendrixeggia come mai prima il nostro eroe (mai in questa misura almeno), abbastanza piacevolmente ma regalando appena una canzone (Feel Good, Feel Better, Feel Wonderful) passibile di essere consegnata a future antologie. Un secondo, “MPLSound”, è invece brutto assai (imperdonabilmente lagnoso), se si eccettua un attacco convincentemente quanto ingannevolmente alla Parliament. Nondimeno la pietra dello scandalo è il terzo, “Elixer”, attribuito a tal Bria Valente le cui foto testimoniano doti fisiche di cui quelle vocali sono lungi dall’essere all’altezza. È però soprattutto il livello dei materiali che il signor Rogers Nelson ha creduto bene di consegnare a costei a colpire in negativo: indigeribile pappetta pseudo-soul che neppure la maestria ai fornelli dell’anima di una Aretha avrebbe potuto trasformare in una ricetta onesta. Ammetterò di avere pensato male. Anyway: sebbene diretto in questa circostanza da un organo che non era chiaramente il cervello, Prince qualche pezzo decente (al limite pescando nel calderone delle minutaglie anni ’90-2000) non avrebbe potuto affidarglielo? Sono rimasto a tal punto irritato da quanto esposto che il successivo “20Ten” ho fatto finta non esistesse. E chissà se l’avrei mai ascoltato non mi avesse indotto a farlo l’incombenza di dovere scrivere queste poche pagine. Come esimermi, visto che con tutto ciò di cui si parla nelle centinaia a seguire ho familiarità minimo discreta? Ora che ho provveduto, posso serenamente affermare che la cosa migliore che offre è una copertina che rimanda (con tratto più fumettistico che psichedelico) a quella del lontano, incompreso e in qualche frangente grandioso “Around The World In A Day”. Il resto non è che sia pessimo. È peggio: è istantaneamente dimenticabile. Le melodie sono acqua fresca, le ritmiche hanno un che di meccanico, il funky accenna a partire senza decollare mai. Arrivi in fondo, ricominci per essere sicuro di non dovere rimpiangere un giorno di avere scritto sciocchezze al riguardo, riarrivi in fondo e l’impressione di ascoltare non Prince bensì uno che lo imita si è accentuata a dismisura. Da un tot di anni c’è in giro un sacco di gente che fa Prince meglio di Prince stesso. Penso agli OutKast e a Felix Da Housecat, ai Plantlife e a talune cose di Jimi Tenor, a Jamie Lidell e al “missing in action” Cody ChesnuTT, a Van Hunt come a Vikter Duplaix e ancora ai N.E.R.D., a Raphael Saadiq, addirittura ai Trans Am. Penso agli straordinari TV On The Radio, di cui ho giusto adesso finito di recensire il nuovo e favoloso “Nine Types Of Light” e che non è che all’uomo di Minneapolis somiglino mai sul serio ma che principalmente da lui hanno appreso l’arte del meticciato stilistico e orgogliosamente lo rivendicano. Penso naturalmente a quel D’Angelo che, dopo essersi proposto nel ’95 con “Brown Sugar” ed essersi confermato nel 2000 con “Voodoo” come l’erede più plausibile, è inopinatamente scomparso dai radar. Come obnubilato dall’enormità della responsabilità assunta.
Ecco: tutta questa gente nell’ultimo paio di decenni e in particolare in quello che ci siamo da poco lasciati alle spalle è stata indubitabilmente più rilevante di Prince. Altrettanto indubitabilmente, alcuni di loro senza Prince sarebbero però inimmaginabili. E poi è nell’ordine delle cose che non si possa essere rivoluzionari per sempre. Ci parrebbe insensato misurare ogni canzone nuova che scrive Dylan assumendo a parametri Blowin’ In The Wind o Like A Rolling Stone, folle aspettarsi che ogni sua collezione di inediti sia un altro “Highway 61 Revisited” e restare delusi se è (puta caso) un novello “Time Out Of Mind”. Da un disco di Neil Young non pretendiamo che valga “After The Gold Rush” o “Ragged Glory”, “Harvest” o “Zuma” e allora perché chiedere a Prince altri “1999” e “Purple Rain”, “Parade” o “Sign ‘O’ The Times”? L’ultimo suo autentico capolavoro rimane quel disco senza titolo, una faccenda dell’ottobre ’92, che c’è chi chiama “The Love Symbol Album” e che per me è “Prince & The New Power Generation”. Se vogliamo è già quello un indizio di come il Nostro avesse ormai esaurito la sua forza propulsiva: lì per la prima volta si adegua ai tempi, aggiornandosi all’era dell’hip hop lui che a lungo aveva fatto finta di niente, invece che farne la cronaca o precorrerli. Pur tuttavia per qualità della scrittura è un’opera eccezionale e persino la prima che sceglierei per illustrare a un qualcuno assolutamente digiuno al riguardo l’immensità di un artista con pochi pari nella popular music (non solo versante black) a cavallo fra il giro di boa degli ’80 e il principio del decennio seguente. Conosciuto quello, potrebbe andare a ritroso.
Solo chi cade può risorgere e nondimeno dopo il profluvio di materiali senza un centro di gravità permanente seguito al tempestoso divorzio dalla Warner nessuno, eccetto gli estimatori più esagitati, avrebbe scommesso un centesimo sulla possibilità che il protagonista di questa storia potesse almeno saltuariamente invertire una parabola commerciale, oltre che artistica, inesorabilmente discendente. Lui c’è riuscito. A più riprese. È vero: c’è troppo Prince nei due decenni scorsi e questo è insieme il problema e, in un certo qual senso, la sua soluzione. Personalmente avrei preferito, tornando ai due esempi di prima, che facesse come Dylan, centellinando la produzione, rendendo ciascuna uscita un evento, sistemando immancabilmente una pietra miliare ogni paio di lustri lui che già sulla sua strada da giovane ne piazzò tante. È viceversa un Neil Young bulimico con addirittura due produzioni parallele, una per così dire ufficiale e una per cultori di stretta osservanza come ben si spiega nel bel postscritto a questo volume di cui condivido in toto l’impostazione pur discordando su alcuni (pochi) singoli giudizi. Ma non sarebbe Prince altrimenti: uno dall’attitudine incompromissoria fino all’autolesionismo; uno con una propensione a un tipo di fallimento grandioso in cui fra l’eroico e il ridicolo il confine è sottilissimo; infine, uno che butta fuori musica a ritmi pazzeschi semplicemente perché ama far musica e l’ozio lo ucciderebbe. Vale comunque la pena, al limite concedendosi qualche pausa quando proprio non ce la si fa più e riservandosi di riprendere il filo del discorso quando capiterà, di seguirlo. Perché su questo mare magnum galleggiano ancora lavori in studio complessivamente di ottimo livello (“Musicology”, “3121”) e quella formidabile summa dal vivo che è “One Nite Alone… Live!”. Perché pure dalla prova più solipsistica un momento o due o tre di genio puro ce la fai sempre a cavarli. Come anche nel Frank Zappa più tardo e che fra il baffo di Cucamonga e lo gnomo di Minneapolis ci sia più di qualche affinità dovrebbe risultare lampante pure all’osservatore più superficiale.
A ripensarci, “20Ten” un bel dì l’avrei recuperato in ogni caso. Perché sono sicuro che in futuro, sia fra tre mesi o dieci anni, questo signore caverà dalla manica l’asso che non ti attendi, mi stupirà, mi costringerà ad andare a verificare se nelle fasi della partita che mi sarò perso nel frattempo non abbia esibito l’ennesimo gioco di prestigio. Prince risorge immancabilmente dalle sue ceneri, sempiterna araba fenice. Oltre che (chi segue un po’ il calcio intenderà) imitatissimo ma inimitabile camaleonte solido.
Torino, 26 aprile 2011
Pubblicato per la prima volta come prefazione a Prince – Schiavo del ritmo di Liz Jones, Odoya.