Non sprecherò spazio né offenderò il lettore raccontandogli chi è Brian Eno (che per bella coincidenza festeggia il sessantaseiesimo compleanno nel preciso giorno in cui scrivo queste righe) e perché sia così importante tanto per la musica “popular” che per quella colta degli ultimi quattro decenni. Due parole vanno invece magari spese per Karl Hyde, che pure non è nemmeno egli precisamente di primo pelo (cinquantasette anni e in giro da oltre trenta) ma i dischi li ha sempre venduti partecipando a progetti che coinvolgevano anche altri: prima declinando synth-pop un po’ dozzinale con i Freur, quindi coniugando con gli Underworld uno dei migliori e più popolari ibridi di sempre fra elettronica da ballo e forma canzone. Ve la ricordate la colonna sonora di Trainspotting? Ecco… Collaborazione pesante dunque quella che ha prodotto “Someday World” e solo colpa di Eno se le aspettative al riguardo erano però modeste, visto che lo ha presentato come una serie di bozzetti, dimenticati e poi ritrovati su un hard disk, che ha invitato Hyde a dargli una mano a completare, giusto per non lasciarli lì inutilizzati. Non c’era da eccitarsi troppo, eh?
Eppure ne è risultato un lavoro buono e in qualche frangente ottimo, che per certo non dice alcunché di nuovo ma nel suo raccontare storie risapute esibisce una grazia speciale. Più che gli Underworld, la cui ombra si allunga giusto su The Satellites (che parte però smaccatamente Radiohead) e Strip It Down, io ci ho colto l’Eno degli album pre-ambient di canzoni e delle produzioni per Talking Heads (A Man Wakes Up rammenta Once In A Lifetime, When I Built This World cita Burning Down The House) e U2 (To Us All praticamente una outtake di “Unforgettable Fire”).
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.352, giugno 2014.
Ma stiamo scherzando? Questa la mia reazione alla notizia che, a due mesi dalla precedente collaborazione (affrontata ovviamente due numeri fa), Brian Eno e Karl Hyde già tornavano nei negozi con un nuovo album insieme. Seguita da qualche frase irriguardosa e dal pensiero che non ci fosse da aspettarsi nulla: una raccolta di ulteriori scarti a seguire un disco già presentato in modo non lusinghiero da Eno stesso come un recupero di materiali a lungo dimenticati in un cassetto, come forse ricorderete visto che lo avete letto da poco. In tal caso ricorderete però anche che, a dispetto di premesse non entusiasmanti, “Someday World” alla prova dell’ascolto se l’è cavata più che bene. Il buffo è che toccherebbe ora ridimensionarlo, per quanto è superiore questo secondo capitolo, cui do un 8 pieno e il 7,5 del predecessore finisce per parere generoso. Fatto è che sono due lavori che niente condividono oltre agli artefici, dalle genesi affatto diverse come non sapevo prima di affrontare “High Life” e che a parere un errore, adesso, è non solo la scelta di pubblicarli uno a ridosso dell’altro ma che il primo sia uscito del tutto. Magari lo si sarebbe potuto recuperare parecchio più avanti, o anche no. Per non abbassare la media, ecco.
La migliore collaborazione di Brian Eno dall’epocale “My Life In The Bush Of Ghosts” con David Byrne, dico io. Lavoro quasi capolavoro con in comune con quello (il lettore più scaltro l’avrà intuito dal titolo) dosi massicce d’Africa: per cinque sesti del suo procedere un’orgia di funk dall’astratto al concreto e variamente ibridato, con minimalismo, industrial, electro, gospel, psichedelia e per l’appunto high life, e nello spettrale congedo Cells & Bells uno spiazzante omaggiare Fennesz, quando Fennesz è da una vita che omaggia Eno.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.354, agosto 2014.