“Si dovesse cambiare nome al rock’n’roll tanto varrebbe chiamarlo Chuck Berry”, disse una volta John Lennon. “Ha scritto qualunque riff e qualunque melodia sia alla base di qualunque grande canzone rock’n’roll”, sostiene Brian Wilson. Lui: l’unico essere (sovra)umano di fronte al quale Keith Richards è in soggezione.

Vedere per credere Hail! Hail! Rock’n’Roll, eccellente collezione di interviste apologetiche più concerto con il quale, su istigazione proprio del chitarrista dei Rolling Stones, si celebrava il sessantesimo compleanno dell’autore di Johnny B. Goode e di qualche altra decina di classici e fa quasi paura pensare che è ormai pur’esso faccenda alquanto vetusta, giacché al dio della musica piacendo di anni il prossimo 18 ottobre Charles Edward Anderson Berry ne compirà ottantadue. Incredibile ma vero: fa ancora concerti. Incredibile ma vero: nel volto se non nelle movenze sembra tuttora rimarchevolmente meno vecchio del più devoto fra i suoi mille e mille discepoli. Vederlo, Kiff La Biffa: costantemente in ginocchio come manco Bruno Vespa dinnanzi al potente di turno. Solo che di fronte a questo signore ci si può – e anzi ci si deve – genuflettere eccome. Lui più di chiunque altro è il responsabile ultimo del fatto che io stia scrivendo queste righe e tu le stia leggendo. Lui, fra i padri del rock’n’roll il più padre di tutti.
Ipotizziamo per assurdo che un qualcuno con una conoscenza appena più che superficiale del rock dei ’60, da cui in linea diretta o indiretta discende gran parte dell’odierno pop occidentale, sia affatto digiuno di quanto accaduto nel decennio precedente. Che il nostro eroe non l’abbia mai sentito nominare. Di lui conoscerebbe nondimeno Roll Over Beethoven e Rock And Roll Music grazie ai Beatles, Come On, Around And Around, Carol, Little Queenie e un’abbondante mezza dozzina di altre via Rolling Stones. Avrebbe ascoltato dai Kinks Beautiful Delilah e Too Much Monkey Business (la canzone che inventò i New York Dolls). Gli sarebbero familiari pur senza averle mai sentite You Can’t Catch Me per tramite dei Fab Four di Come Together e Sweet Little Sixteen sotto le mentite spoglie di Surfin’ USA dei Beach Boys. Per non fare che pochissimi esempi quando a elencare senza ritegno se ne andrebbe per intero lo spazio previsto per questo articolo, né basterebbe. Tu che di rock ne sai dai primordi a oggi sei invece ben consapevole che, al di là degli innumerevoli brani che sono stati riletti da chiunque e hanno fatto da imprinting ciascuno a decine di altri (per dire: in All Aboard, che è del ’61, si rinviene il Dylan di Subterranean Homesick Blues, che è del ’65), l’influenza di Chuck Berry si è esplicata anche in altri modi. Chi ha fotografato l’esuberanza dell’adolescenza più nitidamente che in School Day? Il cui sottotitolo la dice lunga: Ring! Ring! Goes The Bell. Chi ha delirato per un motore, una carrozzeria e quattro ruote, e tutte le possibilità che recano in nuce per chi è “nato per correre”, più… eroticamente di quanto non accada in No Money Down? Bruce Springsteen insomma l’ennesimo evidente allievo.
Patendo gli album d’epoca, in un’epoca che non era ancora quella degli album, scarsa coerenza d’assieme e qualche riempitivo di troppo, il modo migliore per fare i conti con il nostro uomo è sempre stato quello di mettersi negli scaffali una corposa raccolta. Da due anni in qua “Reelin’ And Rockin’” (Chess/Universal), due CD stipati da complessivi cinquantasei pezzi, è la scelta migliore. Per contenere davvero tutto l’indispensabile tre sarebbe stato l’ideale, ma è un bell’accontentarsi, con i classici che rispondono all’appello in massa e spazio pure per qualche bella curiosità. Arco temporale coperto: dal 1955 del tellurico debutto Maybelline al 1972 dello scurrile e ultimo trionfo rappresentato da My Ding-A-Ling, numero uno (su entrambe le sponde dell’Atlantico) abbondantemente fuori tempo massimo rispetto a un’Età dell’Oro conclusasi a metà ’60 con il temporaneo trasloco dalla Chess alla Mercury, errore fatale che un ritorno alla casa madre non correggerà. Può bastare, ma sarebbe meglio se non vi bastasse. L’appassionato che desideri approfondire lo studio di un’opera assai più sfaccettata di quanto comunemente non si creda ha a disposizione da qualche settimana uno strumento formidabile per farlo: quadruplo CD contenuto in una curiosa confezione che si apre a fisarmonica e si chiude con un laccetto da far girare attorno a due rondelle, “Johnny B. Goode” (Hip-O Select; distribuzione sempre Universal) non è però che contenga proprio, come promette il sottotitolo, “His Complete ’50’s Chess Recordings”. Fatto è che, come ci informa Fred Rothwell nel più che adeguato libretto, fino al 1957 incluso presso l’etichetta chicagoana vigeva la pessima abitudine, per risparmiare qualche dollaro, di riutilizzare i nastri contenenti sedute non adatte alla pubblicazione e di conseguenza molto è andato perduto per sempre. Fatto è che dei brani di cui erano disponibili parecchie versioni oltre a quella poi data alle stampe si è scelto di proporre le più significative, non facendo trascendere una ricostruzione pur puntigliosa in filologia maniacale. Ne guadagna il piacere d’ascolto e non è il caso di fare i pignoli, siccome cinque Sweet Little Sixteen o tre Betty Jean dovrebbero bastare pure al musicologo più assatanato.

L’ordine di presentazione è ovviamente quello cronologico e si parte dunque da quell’a dir poco storico 21 maggio 1955 in cui, fiancheggiato oltre che dal pianista Johnnie Johnson, che resterà il suo principale collaboratore, dal bassista Chess per antonomasia, tal Willie Dixon (!), Chuck Berry eternava forse il più prodigioso singolo d’esordio di sempre: sul lato principale Maybellene, sull’altro Wee Wee Hours. Ove dieci mesi prima per il suo debutto Elvis aveva sistemato sulla prima facciata una canzone di ascendenza blues, That’s Alright Mama, e sulla seconda il country Blue Moon Of Kentucky, il Nostro faceva esattamente l’opposto: se Maybellene è sì un rock’n’roll ma basato su un brano in stile western swing di Bob Wills (Ida Red Likes To Boogie), Wee Wee Hours si iscrive senza esitazioni al canone del blues. Avete colto la situazione speculare? Alla Sun volevano un bianco che cantasse come i neri, alla Chess sognavano un nero che potesse essere spacciato per bianco e con Berry l’avevano trovato. In un tempo in cui la radio era regina e di musica in TV ne passava ancora poca, la mancanza di un accento identificabile e la dizione chiarissima del nostro eroe lo facevano scambiare per bianco il tempo bastante a che diventasse una star, l’equivoco non più emendabile. Ci si intristisce annotandolo e tuttavia è un inconfutabile dato di fatto: senza quella pronuncia di rara limpidezza Chuck Berry, che avrebbe oltretutto potuto patire pure l’handicap di un’età molto più avanzata rispetto alla giovanissima concorrenza (sette anni più di Presley, ad esempio), invece che fra i fondatori della musica più rivoluzionaria del XX secolo si sarebbe ritrovato al più fra gli ispiratori. Nella migliore delle ipotesi avrebbe raggiunto la relativa popolarità di un Muddy Waters, con un buon decennio di ritardo e soltanto in forza della propaganda di Beatles e Stones. Avete mai riflettuto sul perché una musica di derivazione prevalentemente afroamericana quale il rock’n’roll abbia avuto fra le sue stelle giusto un altro nero? Little Richard, che pareggiava l’ulteriore handicap dell’omosessualità con qualche anno meno di Chuck e una fiammeggiante sfacciataggine mai stata nelle corde del Nostro.
Oltre che comunque splendido per l’inclita entusiasta con la voglia di un corso di specializzazione subito, saltando qualunque mezza via propedeutica, “Johnny B. Goode” è naturalmente prezioso soprattutto per il già colto. Non per la sfilata di conclamati capolavori, va da sé, ma nemmeno per il suo mostrare la genesi di un gruzzolo di codesti, quanto piuttosto per il suo rispolverare delizie raramente o rarissimamente ascoltate. Salto quasi del tutto (ma che razza di abbacinanti gemme la romanticissima Together e un Untitled Instrumental di jazzato afflato!) certi blues da manuale e punto un faro su altro: su una Drifting Heart che ricorda cose western preconizzandone altre surf e sull’Harry Belafonte apocrifo di La Juanda, sulla narcolettica rumba di Hey Pedro e sulla ludica filastrocca Anthony Boy, su una That’s My Desire che sfiora la lounge e su una One O’Clock Jump che più Louis Jordan non si potrebbe, sulla mutazione hilbilly di Brown Eyed Handsome Man come sulla seduzione pop in punta di dita di 13 Questions Method. Su una Long Fast Jam e il suo altrettanto chilometrico controaltare, Long Slow Jam. Peccato sia ancora datato 2007, se no si potrebbe già eleggere questo cofanetto a migliore rivisitazione di archivi dell’anno. Non tutto è perduto però: chiedo come presente a Babbo Natale un altro box che svisceri i primi anni ’60 di Chuck Berry. Meno seminali ma al pari favolosi.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.646, maggio 2008. Chuck Berry compie oggi ottantotto anni.
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