Archivi del mese: ottobre 2014

Gli anti-Nirvana: il capolavoro power pop degli Weezer

Weezer - Weezer (Blue Album)

Nessun disco simboleggia e sintetizza il cambio generale d’umore che traversò a un certo punto dei ’90 il rock americano come l’omonimo esordio degli Weezer. Quello che a posteriori verrà battezzato il “Blue Album” per distinguerlo dal terzo e pure omonimo lavoro dei Californiani, il “Green Album”, e dal sesto, il “Red Album”, veniva pubblicato il 10 maggio 1994. Kurt Cobain si era infilato una pistola in bocca cinque settimane prima e, dopo quello sparo, chi aveva più voglia di nichilismo? Singolare contrappasso per un’epoca che il debutto di Rivers Cuomo e compagni vedesse la luce su DGC, dunque per la medesima etichetta dei Nirvana. Più che musicalmente, giacché sotto quell’aspetto non mancavano vicinanze (a cominciare dalla comune discendenza dai Pixies), gli Weezer si rivelavano antitesi del gruppo di “Nevermind” (e soprattutto di “In Utero”) esistenzialmente: la vita affrontata con piglio leggero e ne sintetizzava magistralmente lo “spirit” diversamente “teen” il geniale video del primo grande successo, Buddy Holly, con immagini dei ragazzi mischiate a scene tratte da Happy Days. Alla platea generalista gli Weezer piacevano subito, alla nazione alternative meno e anzi in tanti, stampa specializzata in testa, li intruppavano a torto nella terza – sfiatata e ruffiana – leva del grunge. All’uscita nel settembre ’96 di “Pinkerton” il linciaggio mediatico sarà montato a tal punto da danneggiare le vendite e indurre un giornale di solito buonista, e assolutamente mainstream, come “Rolling Stone” a eleggerlo peggiore disco dell’anno. Bizzarramente, nei ben cinque anni di attesa per il successore gli Weezer godranno invece di una costante rivalutazione e i 2000 li vedranno passare di trionfo in trionfo.

Se rivisitato con il senno e le prospettive del poi “Pinkerton” non sembra né l’obbrobrio di cui si disse né il mezzo capolavoro che in tanti hanno celebrato ultimamente, l’esordio dei Losangeleni si conferma ascolto dopo ascolto il capolavoro quasi intero di power pop rivisitato che parve da subito a chi lo affrontò senza pregiudizi. Sforbiceresti magari di qualche minuto una conclusiva Only In Dreams tirata troppo in lungo, ma il resto è perfetto, dalla collisione fra riff granitico e melodia morbida di My Name Is Jonas a una In The Garage alla Green Day, passando per una No One Else ramonesca, per una Undone nirvaniana con moderazione, ovviamente per la scanzonata quanto energica Buddy Holly. Qualche perplessità, nel contesto del solito ottimo remastering tipico di OMR, per il volume singolarmente basso al quale è stato pressato il silenziosissimo vinile.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.346, settembre 2013.

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Il blues di Duane Allman

Era un 29 ottobre, l’anno il 1971, quando un incidente motociclistico toglieva di mezzo uno dei più grandi chitarristi che mai abbiano calcato le scene del rock. Celebratissimo da allora, Duane Allman, ma paradossalmente anche piuttosto sottovalutato, come appuntavo a suo tempo recensendo un monumentale cofanetto Rounder (sette CD) “alla carriera”.

Duane Allman - Skydog

Ci va una sana follia in tempi come questi – di Spotify e iPod, di mp3, di musica fruita distrattamente e frettolosamente, perché tutto è a disposizione e per tutto non basta una vita e allora mordi e fuggi, due minuti a pezzo su YouTube, tanta roba se arrivi al ritornello – per porre mano a un’operazione così. Ci va fede nell’esistenza di un pubblico disposto, per cominciare, a investirci dei soldi – l’oggetto è sontuoso ma costa: tipo sette album separati a prezzo pieno – e poi a non abbandonarlo a fare mostra di sé e a prendere polvere in una libreria, che è spesso il destino dei cofanetti. Spendendoci invece la cosa più preziosa che si ha, più dei soldi, ossia del tempo. Nove ore per ascoltare tutto una volta e un primo ascolto non basta che a restare stupefatti dalla ricchezza (davvero non una mera questione di minutaggio) di quanto offerto. Figurarsi quanto ci vorrà ad acquisire una familiarità minima e infine sul serio a conoscerlo. Ci va fede, sì. Ci va tantissimo lavoro, perché un’operazione così non si improvvisa, e testardaggine, ché è da almeno un decennio che se ne favoleggiava ma rintracciare e mettere d’accordo tutti i detentori dei diritti pareva un’impresa impossibile. E ci va uno sconfinato amore per l’oggetto di questa fatica, e quello non manca a Galadrielle Allman, la donna che ha reso possibile l’esistenza di “Skydog” e che non era che una bambina di due anni quando il 29 ottobre 1971 un incidente motoclistico rubava a lei il padre e al rock probabilmente il suo chitarrista più straordinario dopo Jimi Hendrix.

Dice bene Stephen Thomas Erlewine: per quanto bizzarro possa sembrare affermarlo di uno che è citato immancabilmente fra i giganti dello strumento d’elezione, Duane Allman è un sottovalutato. Sarà che, diversamente dall’uomo di Seattle, il suo genio si riversava appieno nell’estro istantaneo dell’esecuzione – quello il suo modo di comporre – e non anche nella scrittura (tant’è che in questo box su centoventinove brani la sua firma sta giusto sotto tre). Sarà che Duane lo riconosci ma non dopo mezza nota come Jimi. Sarà che il suo passaggio su questa terra fu una meteora (non arrivava a festeggiare il venticinquesimo compleanno), sotto i riflettori non trascorreva da protagonista che due anni e quanto fatto con la Allman Brothers Band (con la quale, per inciso, il sottoscritto ha sempre avuto un rapporto un po’ problematico) metteva in secondo piano il resto. Di una vicenda artistica senza pari “Skydog” offre infine un ritratto completo e quella che ne emerge non è una storia alternativa di Duane Allman bensì “la” sua storia e c’è allora una giustizia e un senso nel fatto che la bellezza di centootto delle tracce che vi sfilano non siano della Band. Di cui ovviamente diversi capisaldi sono presenti ma, suvvia, non è per Statesboro Blues o per In Memory Of Elizabeth Reed che merita comprarlo, quelle ben le si conosceva. La vera meraviglia è data dall’avere infine tutto insieme il Duane turnista e nel godere dell’eclettismo di uno capace di fiancheggiare con la medesima disinvoltura Wilson Pickett e Aretha Franklin, Otis Rush e Boz Scaggs, Clarence Carter così come Ronnie Hawkins, King Curtis ed Eric Clapton ma anche Sam Samudio ed Herbie Mann, oltre che di jammare con i Grateful Dead come con Delaney & Bonnie. Sulle sue dita poco meno che l’intero scibile della musica popolare USA, blues e country, soul e surf, rock’n’roll, garage, funky, errebì e jazz. E poi l’invenzione del southern rock. I momenti più epifanici laddove meno te li aspetteresti. Ad esempio in due cover mimetiche degli Yardbirds eseguite dagli Allman Joys che possono parere superflue fintanto che non ci si rende conto dell’età di chi sta suonando. In una Norwegian Wood bastante a ridare dignità alla vicenda fors’anche giustamente negletta degli Hour Glass. In una Melissa già nel repertorio dei 31st Of February. E siamo ancora e solo sul primo CD. Cosa ci siamo persi quando ci perdemmo Duane Allman, cosa ci siamo persi…

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.180, maggio 2013.

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Basement Jaxx – Junto (Atlantic Jaxx)

Basement Jaxx - Junto

Atteso in ogni senso l’album con il quale la ditta londinese Buxton & Ratcliffe celebra il ventennale: quasi cinque gli anni trascorsi dacché il coraggioso ma non del tutto riuscito “Zephyr” vedeva la luce. Ma d’altro canto meglio prendersela comoda che errare e stiamo parlando di gente che metteva all’incirca lo stesso tempo, un lustro, fra il primo EP e il debutto in lungo. Che invece che passare all’incasso in forza di un sound capace di raccogliere consensi trasversali preferiva consolidare prima la sua fama presso l’élite del pubblico della dance, strategia ripagata con gli interessi dal successo riscosso da “Remedy”, “Rooty” e “Kish Kash” – ’99, 2001 e 2003. Dei quali almeno i primi due, e in particolare il secondo, sono da annoverare (con Chemical Brothers, Daft Punk e pochi altri) fra i classici di un’elettronica di consumo tagliata per il dancefloor ma capace di farsi apprezzare dalla platea del rock e regalare soddisfazioni anche all’ascolto domestico.

Travagliata la genesi di “Junto”. Già nel 2011 alcune tracce pensate per farne parte apparivano nei dj set della coppia e l’anno dopo venivano anticipati alla stampa diversi titoli che avrebbero dovuto figurarvi e se ne dava l’uscita come imminente. Ma di quei brani parrebbe che solo un paio siano sopravvissuti a una selezione spietata, il resto sostituito da materiale ritenuto evidentemente più soddisfacente. Non sappiamo che ci siamo persi, ma quanto ci viene ora proposto passa con disinvoltura il controllo di qualità: dalla pura innodia disco con coro radente il gospel di Power To The People a una inopinatamente solenne Love Is At Your Side. Se il martellone Rock This Road è destinato a riempire piste, da seduti ci si gode di più una Something About You sexy, poi una Mermaid Of Salinas brazileira.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.355, settembre 2014.

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Teenage Kicks Forever – Dieci anni senza John Peel

Se stai leggendo queste righe probabilmente sai già benissimo chi era John Peel, anche se forse non hai mai trafficato con una radio inadeguata per catturarne la voce asciutta e ironica e farti regalare da essa qualcosa di inaudito. Ma sei lo stesso consapevole di come sia stato – parole di Jack White – “the last important dj in the world”. O, come ha detto Ian McCulloch di Echo & The Bunnymen, “the most important bloke on the non-playing side of music”. Grande propagandista (per qualche tempo pure da discografico con la Dandelion, etichetta “da culto” se mai ve n’è stata una) della scena psichedelica, senza di lui punk e new wave non avrebbero causato i rivolgimenti che indussero. Generazione dopo generazione, ci si è rivolti a John Peel per farsi guidare fra i meandri dell’attualità e avere anticipazioni di futuro. Con fiducia tantopiù pronunciata quantopiù si allontanava dal gusto corrente. Sapendolo motivato unicamente da una smisurata passione. Una voce indipendente.

John Peel 1

Ho avuto una fortuna sfacciata. Tutto ciò che desideravo da ragazzo – una casa in campagna, una moglie meravigliosa, un impiego in radio – l’ho avuto. In nessun modo la mia esistenza sarebbe potuta essere migliore. Cascassi morto domani mattina, non potrei lamentarmi di nulla. A parte che mi perderei il nuovo album dei Fall.

Ipse dixit John Peel, in una recente intervista per quella BBC di cui per trentasette anni è stato la voce più amata, anche se forse nessuno – nemmeno lui stesso – aveva mai colto appieno l’intensità e le dimensioni di un affetto che il 12 novembre la cattedrale di Bury St. Edmunds non è bastata a contenere. Un migliaio sotto le auguste navate, che in cinque secoli avevano sentito tante volte musiche come la mozartiana Ave Verum, cantata dalla corale cittadina di cui fa parte Sheila, la compagna stupenda di cui sopra, ma nulla dello stampo di Going Down Slow di Howlin’ Wolf o di Running Scared di Roy Orbison, che sono parimenti risuonate. Alcune altre migliaia nella piazza antistante, da ogni parte del Regno Unito, da ogni angolo d’Europa, qualcuno dagli Stati Uniti. Sconosciuti e stelle di vario fulgore che John Ravenscroft, in arte Peel, aveva aiutato a diventare tali, da Billy Bragg a Jarvis Cocker, da Robert Plant a Jack White, e che non hanno dimenticato. Quest’ultimo racconta, nel tributo di dieci pagine prontamente allestito da “Mojo” in onore del caro estinto, finito pure in copertina lui che era uomo di timidezza e modestia assolute, che Peel aveva comprato il suo primo disco degli White Stripes per via della copertina bianca e rossa, i colori di quel Liverpool di cui era tifosissimo. Al punto di “sporcare” puntualmente, quando andava a mettere musica in giro, una canzone “intoccabile” come Love Will Tear Us Apart dei Joy Division con la radiocronaca di un gol dei Reds in una finale di coppa europea. Perfetto allora che alla fine della cerimonia il feretro si sia avviato all’uscita sulle note di You’ll Never Walk Alone, manco si fosse all’Anfield Road, e che nell’istante in cui lasciava la chiesa con un interminabile applauso sia partita la sua canzone preferita, Teenage Kicks degli Undertones, insuperabile ritratto di adolescenza in cerca di un amore su tre accordi di melodico punk-rock. Sicché le esequie hanno finito per essere il suo ultimo set, il che marchierà per sempre quel settimo volume della serie “Fabriclive” curato dal Nostro un paio di anni fa e riproposizione di una sua tipica scaletta festivaliera. Vi si incontrano la “blasfema” Love… summenzionata e proprio in chiusura You’ll Never Walk Alone e Teenage Kicks: che d’ora in poi ci faranno sempre spuntare una lacrima. Prima di tutto un po’, in un favoloso e a tratti cialtrone gioco di contrasti, con due assurde versioni bluegrass dell’inno di Iggy Pop Lust For Life e di quello dei Sex Pistols Pretty Vacant e una caraibica di In The Midnight Hour, la go-go dei Trouble Funk che sfuma nel doo-wop dei Capris che conduce ai Fall che rifanno gli Other Half e così via. Dalla techno al rhythm’n’blues al blues al reggae al garage alla new wave. Mancano grind e death metal, happy hardcore e gabba, che ai suoi ascoltatori radiofonici Peel aveva volentierissimo propinato negli ultimi tre lustri, scandalizzandoli come in quel ’76 in cui si era fatto vessillifero del punk e tempo sei mesi aveva visto l’età media del suo pubblico abbassarsi di dieci anni. La dice lunga su John Peel che l’ultimo gruppo a registrare per lui siano stati i fragorosi giapponesi Polysics, quando il primo furono i Pink Floyd con ancora Barrett in squadra, non meno rivoluzionari per la loro epoca e dirà il futuro se Polysics lasceranno pur’essi qualcosa, o resteranno uno dei mille eccentrici amori del felice possessore di sessanta o settantamila dischi per il quale il disco più eccitante era quello ancora da ascoltare. Per sempre giovane, ma giovane sul serio, non una vittima di quella sindrome di Peter Pan che affligge il rock dacché la generazione di quelli che “mai fidarsi di chi ha più di trent’anni” i trenta li passò.

John Peel 2

Le Peel Sessions

Una tradizione dei programmi di Peel quella di proporre brani registrati apposta. Cominciarono i Pink Floyd il 30 settembre 1967 e da allora migliaia sono state le sessions, presto e soprattutto in epoca new wave un luogo mitologico in cui tutto poteva accadere. A volte che si trovassero a incidere per la BBC gruppi senza un contratto discografico. Oggetto di scambio ambitissimo fra i collezionisti, i nastri si tramutavano in vinile e poi in CD a partire dal 1987, quando la Strange Fruit prendeva a pubblicarli, primo numero di un catalogo presto imponente i New Order. Dapprima degli EP con singole sedute, poi – nel caso di gente tornata più volte in sala – veri e propri album che sono spesso la raccolta più significativa dei nomi in questione. Ecco cinque Peel Sessions particolarmente appetibili.

Tim Buckley (2/4/1968) – Cinque pezzi fra cui il sublime, lacerante e poeticissimo incastro fra Hallucinations e Troubador, oltre dieci minuti di magia non per modo di dire.

Siouxsie & The Banshees (29/11/1977) – Molto prima di trovare un contratto, ecco i Banshees originali, mai più così taglienti e punk.

Wire (18/1 e 20/9/1978, 11/9/1979) – Per i quindici stralunatissimi minuti della rara Crazy About Love.

Undertones (22/1/1979, 21/1/1980, 8/11/1982) – Troppo poveri al primo giro, i ragazzi, per potersi permettere la trasferta a Londra. Peel pagò allora di suo uno studio di Belfast. Sono i soli a potere vantare un simile onore.

Joy Division (31/1 e 26/11/1979) – “In tutta la mia vita non ho mai visto nessuno eccitato quanto Ian (Curtis, n.d.r.) quando Peel gli telefonò per dirgli che avrebbe mandato in onda il nostro demo.” (Peter Hook)

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.606, gennaio 2005. Adattato.

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Il rock diversamente elettrico di “Blood On The Tracks” (della prima grande resurrezione di Bob Dylan)

Bob Dylan - Blood On The Tracks

Sorta di buco nero, di terra di nessuno e del nulla in una vicenda artistica che ha a oggi superato il mezzo secolo, i primi anni ’70 risultano paradossalmente un’età aurea per Bob Dylan se è ai tabulati delle vendite che si guarda. Nel ’70 quella presa per i fondelli all’universo mondo che è “Self Portrait” è quarto negli USA e persino primo in Gran Bretagna e l’anno dopo il secondo volume dei “Greatest Hits” va via come il pane. Comprensibile, dando un’occhiata al programma, laddove lascia invece piuttosto sbalorditi che il pubblico premi nel ’73 un “Dylan” raffazzonato dalla Columbia con una manciata di scarti per vendicarsi dell’essere stata tradita per la Asylum e, l’anno dopo, quello che resterà l’unico album in studio per la Asylum stessa, il veramente mediocre (eccezion fatta per una grande canzone come Going, Going, Gone e una immortale come Forever Young) “Planet Waves”. Addirittura il primo LP del Nostro ad andare al numero uno negli Stati Uniti. Insomma, della prima metà dei ’70 dell’artista che come nessuno plasmò il decennio precedente dopo “New Morning” e fino a un certo punto non salvi che tre tracce (essendo la terza Knockin’ On Heaven’s Door, dalla colonna sonora di “Pat Garrett & Billy The Kid”) e un doppio dal vivo (il classico “Before The Flood”, con The Band). L’uomo nato Robert Allen Zimmerman sta diventando irrilevante per la contemporaneità, elemento residuale di un’epoca che (fa strano dirlo) allora si percepisce più lontana di quanto non sembri a noi. Dylan non sarà mai più al centro della scena culturale e tuttavia proprio il 1975 è testimone della sua prima grande resurrezione. Ce ne saranno altre forse pure più sorprendenti, ma artisticamente così felici no.

Sono una riappacificazione e un divorzio ad andare in scena con e in “Blood On The Tracks”. La prima con la Columbia, il secondo dalla moglie Sara e ha un bel dire Sua Bobbitudine che le dieci canzoni qui contenute nulla hanno a che vedere con la sua vita sentimentale, ha un bello scrivere (nel 2004, in Chronicles, Vol.1) che furono ispirate dai racconti brevi di Anton Chekhov. Nemmeno serve a smentirlo che sia lo stesso figlio Jakob a inquadrare il disco come una collezione di conversazioni famigliari. Basta e avanza l’evidenza di un lavoro intimo e confessionale (per quanto in maniera dylaniana e dunque ellittica) come mai prima e dopo ed è rivelatore il titolo: sangue nei solchi. Fenomenale ritorno in quota dopo gli anni modesti di cui si è detto, il disco vale come affresco complessivo di rock diversamente elettrico rispetto ai furori giovanili di una Like A Rolling Stone; in ogni senso maturo e classico. Il che non toglie che diversi brani si staglino con perentorietà nell’emotivamente densissimo programma, da una Tangled Up In Blue di spumeggiante urgenza a una Simple Twist Of Fate viceversa struggente, dalla serenata spagnoleggiante You’re A Big Girl Now a una declamatoria Idiot Wind, alla torrenziale marcetta Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts, a un’affilata e ipnotica Shelter From The Storm in attesa di trasformarsi, dal vivo, in uno dei più incalzanti rock’n’roll dello sterminato catalogo dell’autore. “Blood On The Tracks” risulterà fino a quel punto il suo più grande successo ed è da allora e all’unanimità considerato il suo album da avere se, post-’60, se ne vuole avere uno solo.

Notevole questa riedizione Original Master Recording dalla dinamica apprezzabile a dispetto di una durata oltre i venticinque minuti per lato e dai cui… ahem… solchi emergono dettagli che prima andavano persi: in un disco che credevo di conoscere a memoria mai avevo percepito così nitidamente – per dire – certe linee di basso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 350, aprile 2014.

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L’uneasy easy listening degli Stereolab

Il fatto che oscilliamo fra diversi generi musicali pare essere una fortuna per noi. Siamo stati inseriti nel filone easy listening, che sta diventando alquanto popolare. Il suo prossimo sviluppo sembrerebbe essere un rinnovato interesse per il pop francese degli anni ’60 e la gente che segue tale stile ci apprezza. Un anno fa, tutti a parlare di ambient e di Aphex Twin, e venivamo associati anche a quel sound. Così come veniamo chiamati in causa quando si parla di suono americano lo-fi e del revival del krautrock – si direbbe che ogni volta che una tendenza sotterranea si afferma siamo indicati fra i precursori!

Stereolab

Ipse dixit, fra il compiaciuto e il perplesso, Tim Gane al giornalista di “The Wire” che lo intervistava sul finire d’estate del 1995, più o meno in contemporanea con la pubblicazione di “Refried Ectoplasm (Switched On Volume Two)”, formidabile raccolta di materiale uscito in precedenza su 45 giri dalle microscopiche tirature. Al tempo (quando si parla degli Stereolab sembra sempre di raccontare eventi chissà quanto lontani quando in effetti debuttarono nel ’91: curioso effetto determinato dalla loro iperproduttività) il gruppo di Tim Gane e Laetitia Sadier era ancora un oggetto di culto per pochi, ferventi adepti, in prevalenza musicisti, critici o editori di fanzine. Oggi il culto si è parecchio allargato. Il recente “Dots And Loops” a inizio ottobre era quinto nelle classifiche indipendenti britanniche e diciannovesimo in quella generale e sembra che si stia muovendo bene sul mercato americano. Appare tuttavia improbabile (lo facessero mantenendo inalterata la qualità della loro musica sarei lieto di venire smentito) che gli Stereolab possano mai conquistare il successo vero, quello da milioni di copie piuttosto che da decine di migliaia, anche se alla Elektra (che li ha sotto contratto dal 1993) evidentemente ci credono più che mai.

Il più memorabile e di gran lunga, con i suoi oltre diciassette minuti, il più ingombrante fra i dieci episodi che compongono “Dots And Loops”, Refractions In The Plastic Pulse, chiarisce eloquentemente perché gli Stereolab avrebbero tutte le carte in regola per conquistare il mondo e probabilmente non ci riusciranno mai (e ancora più probabilmente nulla gliene cale). Lo inaugura un organo solenne sorvolato dalla voce ondivaga di Leatitia Sadier, che si concede una delle sue non frequentissime incursioni nella lingua madre, il francese. C’è un break e improvvisamente l’andatura si fa funky. Un altro e il brano si sviluppa in un bizzarro reggae cosmicheggiante (tipo i Neu! in Giamaica, se riuscite a immaginarli). Per poi spostarsi in lande kraftwerkiane bordeggianti l’electro pura, e quindi fare salire un violino al proscenio, e infine congedarsi destreggiandosi fra stilemi funky-jazz. Sono minimo cinque canzoni in una e tutte splendide. Altri avrebbero costruito un album, se non una carriera, su un tale gruzzolo di idee: gli Stereolab lo scialano con fare distratto in un brano che, vista la lunghezza, nessuna radio al mondo passerà.

Se anche non li conoscete per nulla avrete compreso a questo punto perché la compagine guidata dal britannico (ex-McCarthy) Tim Gane e dalla francese Laetitia Sadier è il gruppo perfetto per fare delirare un critico: c’è un dispiego di citazioni in ciò che compongono che non ha pari in una musica pure ultracitazionista quale è quella odierna. Ma attenzione! Ove gli Oasis fotocopiano i Beatles, gli Stereolab prendono cento riferimenti diversi e assemblandoli creano un qualcosa di assolutamente peculiare. Ascoltatori appassionati prima che compositori, con smanie archeologiche ma attenti pure al presente, sempre pronti a mettersi in discussione: appena un anno fa Tim Gane esprimeva giudizi negativi sul fenomeno jungle e oggi, in Parsec, incolla una melodia zuccherosa e sbarazzina insieme su sincopi incontestabilmente drum’n’bass, che si riaffacciano anche nella non meno intrigante Ticker-tape Of The Unconscious.

È stato già scritto di “Dots And Loops” che con esso gli Stereolab hanno portato la difficile arte di suonare esattamente come gli Stereolab a inauditi apici di perfezione. È vero. Sebbene non sia il migliore dei loro cinque album veri e propri, titolo che spetta a “Transient Random-Noise Bursts With Announcements”, è però quello ideale per approcciarsi al gruppo. Quello che più armoniosamente fa convivere, rivestendole di una gustosa glassa pop, le mille influenze che l’hanno plasmato, dalla exotica al krautrock, passando per la psichedelia, il minimalismo, il cocktail-jazz, l’ambient. Accostate di norma in maniera arditissima: ascoltate come, nell’iniziale Brakhage, una base jazzy fa da impalcatura a una melodia vocale smaccatamente pop cui si contrappongono controcanti che inseguendosi disegnano fondali alla Philip Glass. No, non credo che gli Stereolab domineranno mai le classifiche: c’è tanto pop nella loro musica ma anche un surplus di geniale eccentricità che li renderà sempre ostici alle masse. Popolo bue.

Pubblicato per la prima volta su “Extreme Pulp”, n.2, dicembre 1997.

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Tricky – Adrian Thaws (!K7)

Tricky - Adrian Thaws

Se ricordo al lettore che sulla carta d’identità del Bad Boy della musica inglese dei ’90 sta scritto Adrian Nicholas Matthews Thaws egli subito intenderà che per Tricky questo suo decimo lavoro in studio ha una valenza particolare: “L’ho chiamato con il mio vero nome per dire al mondo che non mi conosce sul serio. Troppe volte hanno cercato di costringermi in una casella, quando in realtà con ogni mio disco ho visitato luoghi diversi”. Il che è vero fino a un certo punto ma tant’è, quel che conta è che il nostro uomo dopo degli anni 2000 dignitosi ma opachi stia recuperando smalto e cominciava nel 2013 con un altro album dal titolo significativo, “False Idols”, come l’etichetta da lui fondata una volta venuto a esaurirsi il rapporto, da un certo punto in poi problematico, con la Domino. Sulla copertina di quello una foto che quasi lo riduceva a mera silhouette, su questa brucia fra le fiamme presumibilmente di un inferno tante volte adombrato. Comincia a misurarsi da lì la distanza fra i due lavori, il predecessore pacificato quanto può esserlo un disco di Tricky, questo (confortantemente per gli estimatori) decisamente più teso, di un’intensità a tratti – ebbene sì – bruciante.

Squadrata, strascicata e fosca, Sun Down riporta come atmosfere a quella pietra miliare di “Maxinquaye”, debutto epocale dopo il distacco dai Massive Attack con il torto di stabilire uno standard impossibilmente alto. Ma ben diciannove anni dopo l’artefice ancora sa volare alto – o bassissimo, in catacombe dell’animo – ed eloquentemente lo certificano la torpida industrial downtempo di Lonnie Listen, l’ipnosi blues di Keep Me In Your Shake, l’hip hop sferzante di Gangster Chronicles, l’electrofunk Right Here. Come sempre da applausi le voci femminili elette a co-protagoniste.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.355, settembre 2014.

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Get Your Kicks On Route 88 (per Chuck Berry)

Si dovesse cambiare nome al rock’n’roll tanto varrebbe chiamarlo Chuck Berry”, disse una volta John Lennon. “Ha scritto qualunque riff e qualunque melodia sia alla base di qualunque grande canzone rock’n’roll”, sostiene Brian Wilson. Lui: l’unico essere (sovra)umano di fronte al quale Keith Richards è in soggezione.

Chuck Berry

Vedere per credere Hail! Hail! Rock’n’Roll, eccellente collezione di interviste apologetiche più concerto con il quale, su istigazione proprio del chitarrista dei Rolling Stones, si celebrava il sessantesimo compleanno dell’autore di Johnny B. Goode e di qualche altra decina di classici e fa quasi paura pensare che è ormai pur’esso faccenda alquanto vetusta, giacché al dio della musica piacendo di anni il prossimo 18 ottobre Charles Edward Anderson Berry ne compirà ottantadue. Incredibile ma vero: fa ancora concerti. Incredibile ma vero: nel volto se non nelle movenze sembra tuttora rimarchevolmente meno vecchio del più devoto fra i suoi mille e mille discepoli. Vederlo, Kiff La Biffa: costantemente in ginocchio come manco Bruno Vespa dinnanzi al potente di turno. Solo che di fronte a questo signore ci si può – e anzi ci si deve – genuflettere eccome. Lui più di chiunque altro è il responsabile ultimo del fatto che io stia scrivendo queste righe e tu le stia leggendo. Lui, fra i padri del rock’n’roll il più padre di tutti.

Ipotizziamo per assurdo che un qualcuno con una conoscenza appena più che superficiale del rock dei ’60, da cui in linea diretta o indiretta discende gran parte dell’odierno pop occidentale, sia affatto digiuno di quanto accaduto nel decennio precedente. Che il nostro eroe non l’abbia mai sentito nominare. Di lui conoscerebbe nondimeno Roll Over Beethoven e Rock And Roll Music grazie ai Beatles, Come On, Around And Around, Carol, Little Queenie e un’abbondante mezza dozzina di altre via Rolling Stones. Avrebbe ascoltato dai Kinks Beautiful Delilah e Too Much Monkey Business (la canzone che inventò i New York Dolls). Gli sarebbero familiari pur senza averle mai sentite You Can’t Catch Me per tramite dei Fab Four di Come Together e Sweet Little Sixteen sotto le mentite spoglie di Surfin’ USA dei Beach Boys. Per non fare che pochissimi esempi quando a elencare senza ritegno se ne andrebbe per intero lo spazio previsto per questo articolo, né basterebbe. Tu che di rock ne sai dai primordi a oggi sei invece ben consapevole che, al di là degli innumerevoli brani che sono stati riletti da chiunque e hanno fatto da imprinting ciascuno a decine di altri (per dire: in All Aboard, che è del ’61, si rinviene il Dylan di Subterranean Homesick Blues, che è del ’65), l’influenza di Chuck Berry si è esplicata anche in altri modi. Chi ha fotografato l’esuberanza dell’adolescenza più nitidamente che in School Day? Il cui sottotitolo la dice lunga: Ring! Ring! Goes The Bell. Chi ha delirato per un motore, una carrozzeria e quattro ruote, e tutte le possibilità che recano in nuce per chi è “nato per correre”, più… eroticamente di quanto non accada in No Money Down? Bruce Springsteen insomma l’ennesimo evidente allievo.

Patendo gli album d’epoca, in un’epoca che non era ancora quella degli album, scarsa coerenza d’assieme e qualche riempitivo di troppo, il modo migliore per fare i conti con il nostro uomo è sempre stato quello di mettersi negli scaffali una corposa raccolta. Da due anni in qua “Reelin’ And Rockin’” (Chess/Universal), due CD stipati da complessivi cinquantasei pezzi, è la scelta migliore. Per contenere davvero tutto l’indispensabile tre sarebbe stato l’ideale, ma è un bell’accontentarsi, con i classici che rispondono all’appello in massa e spazio pure per qualche bella curiosità. Arco temporale coperto: dal 1955 del tellurico debutto Maybelline al 1972 dello scurrile e ultimo trionfo rappresentato da My Ding-A-Ling, numero uno (su entrambe le sponde dell’Atlantico) abbondantemente fuori tempo massimo rispetto a un’Età dell’Oro conclusasi a metà ’60 con il temporaneo trasloco dalla Chess alla Mercury, errore fatale che un ritorno alla casa madre non correggerà. Può bastare, ma sarebbe meglio se non vi bastasse. L’appassionato che desideri approfondire lo studio di un’opera assai più sfaccettata di quanto comunemente non si creda ha a disposizione da qualche settimana uno strumento formidabile per farlo: quadruplo CD contenuto in una curiosa confezione che si apre a fisarmonica e si chiude con un laccetto da far girare attorno a due rondelle, “Johnny B. Goode” (Hip-O Select; distribuzione sempre Universal) non è però che contenga proprio, come promette il sottotitolo, “His Complete ’50’s Chess Recordings”. Fatto è che, come ci informa Fred Rothwell nel più che adeguato libretto, fino al 1957 incluso presso l’etichetta chicagoana vigeva la pessima abitudine, per risparmiare qualche dollaro, di riutilizzare i nastri contenenti sedute non adatte alla pubblicazione e di conseguenza molto è andato perduto per sempre. Fatto è che dei brani di cui erano disponibili parecchie versioni oltre a quella poi data alle stampe si è scelto di proporre le più significative, non facendo trascendere una ricostruzione pur puntigliosa in filologia maniacale. Ne guadagna il piacere d’ascolto e non è il caso di fare i pignoli, siccome cinque Sweet Little Sixteen o tre Betty Jean dovrebbero bastare pure al musicologo più assatanato.

Keith Richards & Chuck-Berry

L’ordine di presentazione è ovviamente quello cronologico e si parte dunque da quell’a dir poco storico 21 maggio 1955 in cui, fiancheggiato oltre che dal pianista Johnnie Johnson, che resterà il suo principale collaboratore, dal bassista Chess per antonomasia, tal Willie Dixon (!), Chuck Berry eternava forse il più prodigioso singolo d’esordio di sempre: sul lato principale Maybellene, sull’altro Wee Wee Hours. Ove dieci mesi prima per il suo debutto Elvis aveva sistemato sulla prima facciata una canzone di ascendenza blues, That’s Alright Mama, e sulla seconda il country Blue Moon Of Kentucky, il Nostro faceva esattamente l’opposto: se Maybellene è sì un rock’n’roll ma basato su un brano in stile western swing di Bob Wills (Ida Red Likes To Boogie), Wee Wee Hours si iscrive senza esitazioni al canone del blues. Avete colto la situazione speculare? Alla Sun volevano un bianco che cantasse come i neri, alla Chess sognavano un nero che potesse essere spacciato per bianco e con Berry l’avevano trovato. In un tempo in cui la radio era regina e di musica in TV ne passava ancora poca, la mancanza di un accento identificabile e la dizione chiarissima del nostro eroe lo facevano scambiare per bianco il tempo bastante a che diventasse una star, l’equivoco non più emendabile. Ci si intristisce annotandolo e tuttavia è un inconfutabile dato di fatto: senza quella pronuncia di rara limpidezza Chuck Berry, che avrebbe oltretutto potuto patire pure l’handicap di un’età molto più avanzata rispetto alla giovanissima concorrenza (sette anni più di Presley, ad esempio), invece che fra i fondatori della musica più rivoluzionaria del XX secolo si sarebbe ritrovato al più fra gli ispiratori. Nella migliore delle ipotesi avrebbe raggiunto la relativa popolarità di un Muddy Waters, con un buon decennio di ritardo e soltanto in forza della propaganda di Beatles e Stones. Avete mai riflettuto sul perché una musica di derivazione prevalentemente afroamericana quale il rock’n’roll abbia avuto fra le sue stelle giusto un altro nero? Little Richard, che pareggiava l’ulteriore handicap dell’omosessualità con qualche anno meno di Chuck e una fiammeggiante sfacciataggine mai stata nelle corde del Nostro.

Oltre che comunque splendido per l’inclita entusiasta con la voglia di un corso di specializzazione subito, saltando qualunque mezza via propedeutica, “Johnny B. Goode” è naturalmente prezioso soprattutto per il già colto. Non per la sfilata di conclamati capolavori, va da sé, ma nemmeno per il suo mostrare la genesi di un gruzzolo di codesti, quanto piuttosto per il suo rispolverare delizie raramente o rarissimamente ascoltate. Salto quasi del tutto (ma che razza di abbacinanti gemme la romanticissima Together e un Untitled Instrumental di jazzato afflato!) certi blues da manuale e punto un faro su altro: su una Drifting Heart che ricorda cose western preconizzandone altre surf e sull’Harry Belafonte apocrifo di La Juanda, sulla narcolettica rumba di Hey Pedro e sulla ludica filastrocca Anthony Boy, su una That’s My Desire che sfiora la lounge e su una One O’Clock Jump che più Louis Jordan non si potrebbe, sulla mutazione hilbilly di Brown Eyed Handsome Man come sulla seduzione pop in punta di dita di 13 Questions Method. Su una Long Fast Jam e il suo altrettanto chilometrico controaltare, Long Slow Jam. Peccato sia ancora datato 2007, se no si potrebbe già eleggere questo cofanetto a migliore rivisitazione di archivi dell’anno. Non tutto è perduto però: chiedo come presente a Babbo Natale un altro box che svisceri i primi anni ’60 di Chuck Berry. Meno seminali ma al pari favolosi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.646, maggio 2008. Chuck Berry compie oggi ottantotto anni.

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Robyn Hitchcock – The Man Upstairs (Yep Roc)

Robyn Hitchcock - The Man Upstairs

È un uomo affidabile, Robyn Hitchcock. Puoi anche perderlo di vista, ma stai sereno che quando lo ritroverai sarà come lo avevi lasciato e ti chiederai come hai potuto fare a meno di quel suo pop chitarristico quintessenzialmente British nella sua eccentricità. Folk, folk-rock e acid folk, un po’ Dylan, un po’ Ray Davies in versione surrealista e un po’ tanto Syd Barrett, ma un Barrett cresciuto a Byrds e in epoca punk e sbocciato in piena new wave. Lo scorso anno mi imbattevo in “Love From London” e, per quanto mi paresse sotto media per il nostro eroe, mi pigliava la voglia matta di recuperare la manciata di titoli mancanti di un artista di cui negli ’80 attendevo le uscite con un fervore quasi religioso. E così facevo, ricavandone piccoli e grandi piaceri. Bello ascoltare ora “The Man Upstairs” e constatare che può invece essere collocato nella produzione maggiore del cantautore londinese.

È un uomo con un sacco di amici famosi più di lui, rimasto solo un culto anche quando per qualche tempo soggiornava in area major, Robyn Hitchcock: Jonathan Demme, John Paul Jones, Johnny Marr, Nick Lowe, Peter Buck, per non citarne che alcuni. Ed è stato uno di costoro, quella leggenda di Joe Boyd, a curare la regia di un lavoro singolare nel suo dividersi a metà fra brani autografi e cover. È una rilettura vivace e sobria insieme di The Ghost in You degli Psychedelic Furs a inaugurare il programma e prima di arrivare in fondo ci si godono rivisitati “alla Hitchcock” Roxy Music, Grant-Lee Phillips, I Was A King e persino i Doors (una The Crystal Ship alquanto fedele). Tutto bello e intrigante, ma il gradino più alto del podio se lo contendono due originali: lo psych-folk da camera Trouble In Your Blood e una romanticissima e mezza in francese Comme toujours.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.355, settembre 2014.

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L’ultimo Santana (il primo e forse ultimo Neal Schon) da salvare

Santana - III

Dire che nutro scarsa simpatia per i Journey – o quantomeno per quei Journey (i primi tre LP oggettivamente tutt’altra e più nobile faccenda) che a partire dal ’78 e da “Infinity” lucravano immense fortune con un hard da stadio insieme patinato e becero – è un eufemismo. Ciò premesso: che razza di inizio di carriera ebbe Neal Schon! Ogni volta che faccio girare il terzo album dei Santana – non accadeva da un tot ma adesso avevo un’ottima scusa per tornarci su e ne ho approfittato a più riprese – resto invariabilmente a bocca aperta dinnanzi alla fantasmagoria dei duelli e dei duetti inscenati nei suoi solchi dal leader e da un Neal Schon appena entrato (era il 1971) a far parte della compagnia. Non mi vengono in mente molti altri esempi di due chitarre soliste così felicemente predisposte a dialogare e integrarsi, fuoco d’artificio continuo cui nondimeno resta estraneo il virtuosimo fine a se stesso. Sarebbe stupefacente di per sé e tanto di più lo diventa quando ci si ricorda o si viene a conoscenza di un dettaglio: all’epoca Schon aveva diciassette anni. E più lo si ascolta e meno ci si crede. Diciassette anni. C’è mai stato o ci sarà mai un altro come lui?

Lo scrivevo su queste pagine, in questa stessa rubrica, sei anni fa: a radunare tutte le cose davvero degne di nota di Carlos Santana dal jazzato e non disprezzabile “Caravanserai”, che è del ’72, in poi basterebbe un CD. Di altro e infinitamente superiore livello i primi tre LP, da affrontare in ordine cronologico anche perché di valore decrescente, ma di frazioni di punto e partendo in ogni caso da un capolavoro. Per quanto più lo faccio andare, “III”, e più mi pare poco sensato porlo in competizione con i predecessori. È che qui, con le due chitarre al centro del proscenio e le tastiere di Gregg Rolie spinte un po’ indietro, si gioca proprio a un altro sport. E se non vi si toccano gli apici di quegli altri due dischi in termini di puro impatto addirittura li si sorpassa. Album travolgente sin dal secco rutilare percussivo di una Batuka incandescentemente funky e fino a una Para los rumberos di cui il titolo dice tutto, passando fra il resto per i vortici mozzafiato di Toussaint L’Overture, un errebì esplosivo quale Everybody’s Everything e il romantico ballabile in tempo medio Guajira. Qui il Santana per molti versi più etnico e contemporaneamente, grazie a Schon, il più rock. Da ovazioni questa stampa su Mobile Fidelity capace di riprodurre fedelmente ciascun colore di una tavolozza eccezionalmente policroma e di farlo individuare con facilità, nel mentre rende giustizia alle dinamiche di un gruppo dalla sezione ritmica di ben quattro elementi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.354, agosto 2014.

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