E così, prossimo ai sessantaquattro anni (li compirà il 20 ottobre) e dopo esserci andato vicino in due occasioni (“Damn The Torpedoes” nel 1979 e “Mojo” nel 2010 arrestavano la loro corsa alla seconda posizione), Tom Petty vede per la prima volta un suo album capeggiare la classifica di “Billboard” e questo nella settimana di uscita, quella a cavallo fra luglio e agosto. Bella soddisfazione anche economica pur in un’epoca assai meno florida per la discografia di quei favolosi tardi ’70 cui il nuovo lavoro rimanda. Bastano vendite ben più modeste di allora per essere eletti a campioni di incassi e nondimeno leggo che questo suo numero uno “Hypnotic Eye” se l’è guadagnato totalizzando 131.000 copie nei fatidici sette giorni e non è davvero malaccio, oltretutto ricordando che è dei soli Stati Uniti che si parla. Ma sono certo che per il principale artefice e gli abituali complici la soddisfazione sia stata principalmente morale. Ben fatto, Tom, te lo meriti. E se per caso qualcuno che puoi leggere o ascoltare ha lamentato, come facevo io recensendo su altre colonne “Mojo”, che i quattro anni ormai abituali di intervallo fra un album e l’altro sono troppi, be’, puoi fargli notare che rispetto a certa concorrenza tu di dischi ne pubblichi sì di meno ma che in compenso i tuoi sono buoni. Spiace annotarlo, e lo si fa con tutto l’affetto di questo mondo, ma se Neil Young si fosse sempre comportato così, se Bruce Springsteen tornasse a farlo, ne guadagnerebbero sia loro che chi li ama.
“Hypnotic Eye” mi ha deluso solo quando come minutaggio è apparso un apparentemente misero 44’41” e subito mi è venuto in mente che lo stupendo predecessore superava in scioltezza l’ora. Ma ancora prima di arrivare a fondo corsa si coglie che è una scelta giusta, che così come era appropriato che “Mojo” avesse una durata da doppio d’antan in forza dell’eccezionale varietà della tavolozza sonora è sensato che il successore duri quei venti minuti in meno per via di un sound certamente non monolitico, certamente non monocromatico ma altrettanto indubitabilmente più compatto. Tirarlo in lungo ne avrebbe fatto venir meno un’intensità che resta così formidabile dal riffone che inaugura la canzone che inaugura l’album, American Dream Plan B, portandoci per mano a un ritornello da urlo, alle divagazioni psych che si concede la conclusiva Shadow People, dopo che per larga parte del resto del programma gli Heartbreakers hanno rivisitato i loro giorni garage con grinta invidiabilmente giovanile. Concedendosi come sola divagazione – di straordinaria classe e tuttavia presenza un po’ incongrua – l’elegante, swingante jazzeggiare di Full Grown Boy. Piccolo intervallo dopo il serrato e distorto swamp boogie di Fault Lines e lo sfoggio di potenza viceversa trattenuta (grande gancio chitarristico e grande melodia) di una byrdsiana Red River. Si torna a riffeggiare pesante con All You Can Carry e da lì alla fine si giocherà sapientemente fra tensione e rilascio. Dentro una Power Drunk che rimbalza fra fuzz e languore. Facendo andar dietro a quella novella American Girl (ma riarrangiata alla Bo Diddley) di Forgotten Man una Sins Of My Youth insieme onirica e noir, il funkeggiare alla Stones di U Get Me High, il bluesone Burnt Out Town. L’ultima nota si spegne e senti che sei felicemente sazio, ma che hai ancora fame. Schiacci di nuovo “play”.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.355, settembre 2014.
Bene, lunedì sarà mio !
“che mi prenda un colpo se questo non è rock’n roll”
è questo che sicuramente ha pensato il mio cane appena è partito Hypnotic Eye! L’ho capito da come ha alzato le orecchie e spalancato gli occhi! Grande Eddy! Ti aspettavo su Tom, ora ti aspetto su miss Marianne Faithfull!