“Il fatto che oscilliamo fra diversi generi musicali pare essere una fortuna per noi. Siamo stati inseriti nel filone easy listening, che sta diventando alquanto popolare. Il suo prossimo sviluppo sembrerebbe essere un rinnovato interesse per il pop francese degli anni ’60 e la gente che segue tale stile ci apprezza. Un anno fa, tutti a parlare di ambient e di Aphex Twin, e venivamo associati anche a quel sound. Così come veniamo chiamati in causa quando si parla di suono americano lo-fi e del revival del krautrock – si direbbe che ogni volta che una tendenza sotterranea si afferma siamo indicati fra i precursori!”
Ipse dixit, fra il compiaciuto e il perplesso, Tim Gane al giornalista di “The Wire” che lo intervistava sul finire d’estate del 1995, più o meno in contemporanea con la pubblicazione di “Refried Ectoplasm (Switched On Volume Two)”, formidabile raccolta di materiale uscito in precedenza su 45 giri dalle microscopiche tirature. Al tempo (quando si parla degli Stereolab sembra sempre di raccontare eventi chissà quanto lontani quando in effetti debuttarono nel ’91: curioso effetto determinato dalla loro iperproduttività) il gruppo di Tim Gane e Laetitia Sadier era ancora un oggetto di culto per pochi, ferventi adepti, in prevalenza musicisti, critici o editori di fanzine. Oggi il culto si è parecchio allargato. Il recente “Dots And Loops” a inizio ottobre era quinto nelle classifiche indipendenti britanniche e diciannovesimo in quella generale e sembra che si stia muovendo bene sul mercato americano. Appare tuttavia improbabile (lo facessero mantenendo inalterata la qualità della loro musica sarei lieto di venire smentito) che gli Stereolab possano mai conquistare il successo vero, quello da milioni di copie piuttosto che da decine di migliaia, anche se alla Elektra (che li ha sotto contratto dal 1993) evidentemente ci credono più che mai.
Il più memorabile e di gran lunga, con i suoi oltre diciassette minuti, il più ingombrante fra i dieci episodi che compongono “Dots And Loops”, Refractions In The Plastic Pulse, chiarisce eloquentemente perché gli Stereolab avrebbero tutte le carte in regola per conquistare il mondo e probabilmente non ci riusciranno mai (e ancora più probabilmente nulla gliene cale). Lo inaugura un organo solenne sorvolato dalla voce ondivaga di Leatitia Sadier, che si concede una delle sue non frequentissime incursioni nella lingua madre, il francese. C’è un break e improvvisamente l’andatura si fa funky. Un altro e il brano si sviluppa in un bizzarro reggae cosmicheggiante (tipo i Neu! in Giamaica, se riuscite a immaginarli). Per poi spostarsi in lande kraftwerkiane bordeggianti l’electro pura, e quindi fare salire un violino al proscenio, e infine congedarsi destreggiandosi fra stilemi funky-jazz. Sono minimo cinque canzoni in una e tutte splendide. Altri avrebbero costruito un album, se non una carriera, su un tale gruzzolo di idee: gli Stereolab lo scialano con fare distratto in un brano che, vista la lunghezza, nessuna radio al mondo passerà.
Se anche non li conoscete per nulla avrete compreso a questo punto perché la compagine guidata dal britannico (ex-McCarthy) Tim Gane e dalla francese Laetitia Sadier è il gruppo perfetto per fare delirare un critico: c’è un dispiego di citazioni in ciò che compongono che non ha pari in una musica pure ultracitazionista quale è quella odierna. Ma attenzione! Ove gli Oasis fotocopiano i Beatles, gli Stereolab prendono cento riferimenti diversi e assemblandoli creano un qualcosa di assolutamente peculiare. Ascoltatori appassionati prima che compositori, con smanie archeologiche ma attenti pure al presente, sempre pronti a mettersi in discussione: appena un anno fa Tim Gane esprimeva giudizi negativi sul fenomeno jungle e oggi, in Parsec, incolla una melodia zuccherosa e sbarazzina insieme su sincopi incontestabilmente drum’n’bass, che si riaffacciano anche nella non meno intrigante Ticker-tape Of The Unconscious.
È stato già scritto di “Dots And Loops” che con esso gli Stereolab hanno portato la difficile arte di suonare esattamente come gli Stereolab a inauditi apici di perfezione. È vero. Sebbene non sia il migliore dei loro cinque album veri e propri, titolo che spetta a “Transient Random-Noise Bursts With Announcements”, è però quello ideale per approcciarsi al gruppo. Quello che più armoniosamente fa convivere, rivestendole di una gustosa glassa pop, le mille influenze che l’hanno plasmato, dalla exotica al krautrock, passando per la psichedelia, il minimalismo, il cocktail-jazz, l’ambient. Accostate di norma in maniera arditissima: ascoltate come, nell’iniziale Brakhage, una base jazzy fa da impalcatura a una melodia vocale smaccatamente pop cui si contrappongono controcanti che inseguendosi disegnano fondali alla Philip Glass. No, non credo che gli Stereolab domineranno mai le classifiche: c’è tanto pop nella loro musica ma anche un surplus di geniale eccentricità che li renderà sempre ostici alle masse. Popolo bue.
Pubblicato per la prima volta su “Extreme Pulp”, n.2, dicembre 1997.