Teenage Kicks Forever – Dieci anni senza John Peel

Se stai leggendo queste righe probabilmente sai già benissimo chi era John Peel, anche se forse non hai mai trafficato con una radio inadeguata per catturarne la voce asciutta e ironica e farti regalare da essa qualcosa di inaudito. Ma sei lo stesso consapevole di come sia stato – parole di Jack White – “the last important dj in the world”. O, come ha detto Ian McCulloch di Echo & The Bunnymen, “the most important bloke on the non-playing side of music”. Grande propagandista (per qualche tempo pure da discografico con la Dandelion, etichetta “da culto” se mai ve n’è stata una) della scena psichedelica, senza di lui punk e new wave non avrebbero causato i rivolgimenti che indussero. Generazione dopo generazione, ci si è rivolti a John Peel per farsi guidare fra i meandri dell’attualità e avere anticipazioni di futuro. Con fiducia tantopiù pronunciata quantopiù si allontanava dal gusto corrente. Sapendolo motivato unicamente da una smisurata passione. Una voce indipendente.

John Peel 1

Ho avuto una fortuna sfacciata. Tutto ciò che desideravo da ragazzo – una casa in campagna, una moglie meravigliosa, un impiego in radio – l’ho avuto. In nessun modo la mia esistenza sarebbe potuta essere migliore. Cascassi morto domani mattina, non potrei lamentarmi di nulla. A parte che mi perderei il nuovo album dei Fall.

Ipse dixit John Peel, in una recente intervista per quella BBC di cui per trentasette anni è stato la voce più amata, anche se forse nessuno – nemmeno lui stesso – aveva mai colto appieno l’intensità e le dimensioni di un affetto che il 12 novembre la cattedrale di Bury St. Edmunds non è bastata a contenere. Un migliaio sotto le auguste navate, che in cinque secoli avevano sentito tante volte musiche come la mozartiana Ave Verum, cantata dalla corale cittadina di cui fa parte Sheila, la compagna stupenda di cui sopra, ma nulla dello stampo di Going Down Slow di Howlin’ Wolf o di Running Scared di Roy Orbison, che sono parimenti risuonate. Alcune altre migliaia nella piazza antistante, da ogni parte del Regno Unito, da ogni angolo d’Europa, qualcuno dagli Stati Uniti. Sconosciuti e stelle di vario fulgore che John Ravenscroft, in arte Peel, aveva aiutato a diventare tali, da Billy Bragg a Jarvis Cocker, da Robert Plant a Jack White, e che non hanno dimenticato. Quest’ultimo racconta, nel tributo di dieci pagine prontamente allestito da “Mojo” in onore del caro estinto, finito pure in copertina lui che era uomo di timidezza e modestia assolute, che Peel aveva comprato il suo primo disco degli White Stripes per via della copertina bianca e rossa, i colori di quel Liverpool di cui era tifosissimo. Al punto di “sporcare” puntualmente, quando andava a mettere musica in giro, una canzone “intoccabile” come Love Will Tear Us Apart dei Joy Division con la radiocronaca di un gol dei Reds in una finale di coppa europea. Perfetto allora che alla fine della cerimonia il feretro si sia avviato all’uscita sulle note di You’ll Never Walk Alone, manco si fosse all’Anfield Road, e che nell’istante in cui lasciava la chiesa con un interminabile applauso sia partita la sua canzone preferita, Teenage Kicks degli Undertones, insuperabile ritratto di adolescenza in cerca di un amore su tre accordi di melodico punk-rock. Sicché le esequie hanno finito per essere il suo ultimo set, il che marchierà per sempre quel settimo volume della serie “Fabriclive” curato dal Nostro un paio di anni fa e riproposizione di una sua tipica scaletta festivaliera. Vi si incontrano la “blasfema” Love… summenzionata e proprio in chiusura You’ll Never Walk Alone e Teenage Kicks: che d’ora in poi ci faranno sempre spuntare una lacrima. Prima di tutto un po’, in un favoloso e a tratti cialtrone gioco di contrasti, con due assurde versioni bluegrass dell’inno di Iggy Pop Lust For Life e di quello dei Sex Pistols Pretty Vacant e una caraibica di In The Midnight Hour, la go-go dei Trouble Funk che sfuma nel doo-wop dei Capris che conduce ai Fall che rifanno gli Other Half e così via. Dalla techno al rhythm’n’blues al blues al reggae al garage alla new wave. Mancano grind e death metal, happy hardcore e gabba, che ai suoi ascoltatori radiofonici Peel aveva volentierissimo propinato negli ultimi tre lustri, scandalizzandoli come in quel ’76 in cui si era fatto vessillifero del punk e tempo sei mesi aveva visto l’età media del suo pubblico abbassarsi di dieci anni. La dice lunga su John Peel che l’ultimo gruppo a registrare per lui siano stati i fragorosi giapponesi Polysics, quando il primo furono i Pink Floyd con ancora Barrett in squadra, non meno rivoluzionari per la loro epoca e dirà il futuro se Polysics lasceranno pur’essi qualcosa, o resteranno uno dei mille eccentrici amori del felice possessore di sessanta o settantamila dischi per il quale il disco più eccitante era quello ancora da ascoltare. Per sempre giovane, ma giovane sul serio, non una vittima di quella sindrome di Peter Pan che affligge il rock dacché la generazione di quelli che “mai fidarsi di chi ha più di trent’anni” i trenta li passò.

John Peel 2

Le Peel Sessions

Una tradizione dei programmi di Peel quella di proporre brani registrati apposta. Cominciarono i Pink Floyd il 30 settembre 1967 e da allora migliaia sono state le sessions, presto e soprattutto in epoca new wave un luogo mitologico in cui tutto poteva accadere. A volte che si trovassero a incidere per la BBC gruppi senza un contratto discografico. Oggetto di scambio ambitissimo fra i collezionisti, i nastri si tramutavano in vinile e poi in CD a partire dal 1987, quando la Strange Fruit prendeva a pubblicarli, primo numero di un catalogo presto imponente i New Order. Dapprima degli EP con singole sedute, poi – nel caso di gente tornata più volte in sala – veri e propri album che sono spesso la raccolta più significativa dei nomi in questione. Ecco cinque Peel Sessions particolarmente appetibili.

Tim Buckley (2/4/1968) – Cinque pezzi fra cui il sublime, lacerante e poeticissimo incastro fra Hallucinations e Troubador, oltre dieci minuti di magia non per modo di dire.

Siouxsie & The Banshees (29/11/1977) – Molto prima di trovare un contratto, ecco i Banshees originali, mai più così taglienti e punk.

Wire (18/1 e 20/9/1978, 11/9/1979) – Per i quindici stralunatissimi minuti della rara Crazy About Love.

Undertones (22/1/1979, 21/1/1980, 8/11/1982) – Troppo poveri al primo giro, i ragazzi, per potersi permettere la trasferta a Londra. Peel pagò allora di suo uno studio di Belfast. Sono i soli a potere vantare un simile onore.

Joy Division (31/1 e 26/11/1979) – “In tutta la mia vita non ho mai visto nessuno eccitato quanto Ian (Curtis, n.d.r.) quando Peel gli telefonò per dirgli che avrebbe mandato in onda il nostro demo.” (Peter Hook)

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.606, gennaio 2005. Adattato.

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3 risposte a “Teenage Kicks Forever – Dieci anni senza John Peel

  1. Venerato scusa l’ignoranza ma cos’è Fabriclive ?

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