Archivi del mese: ottobre 2014

Lenny Kravitz – Strut (Roxie)

Lenny Kravitz - Strut

Ci si abitua a tutto, alle cose belle, a quelle brutte, a considerare di default Lenny Kravitz il fantasma del grande artista che fu. Uno che a cavallo fra ’80 e ’90 incastonò un capolavoro quale “Mama Said” fra il già eccellente “Let Love Rule” e l’ancora pregevole “Are You Gonna Go My Way”. Uno che non diceva nulla di nuovo e nondimeno lo diceva splendidamente, firmando canzoni egualmente ispirate a Curtis Mayfield e John Lennon, a Sly Stone come a Jimi Hendrix ed erano canzoni che al loro meglio quasi eguagliavano il meglio di cotanti maestri. E poi basta. Nel preciso momento in cui da star si faceva superstar (non dico che le due cose siano consequenziali, ma il sospetto c’è) l’artista newyorkese da epigono di classe si trasformava in macchietta, nel mediocre “Circus”, nell’imbarazzante e vendutissimo “5”. Senza mai riprendersi e anzi sempre più una parodia di un certo tipo di musicista rock. Uno che quando esce un suo album (e da inizio millennio ne aveva pubblicati a oggi altri quattro) un mezzo ascolto glielo dai per dovere, ma già a metà della prima canzone sai che tutte le altre ti sembrerà di averle già sentite e che faticherai ad arrivare al fondo.

Però “Strut” parte insolitamente bene, al netto del fastidio che dà (madonna che arroganza) che il pezzo si chiami Sex. Perdonabile, a fronte di un funk di questa efficacia. E tiene fino alla fine, a una cover piacevole quanto superflua del classico dei Miracles Ooo Baby Baby, riparando a ogni eccesso di ruffianeria (il rockaccio fra Oasis e Black Crowes Dirty White Boots, il Lennon più “cheap” evocato da Happy Birthday) con una zampata di classe (graffia più di tutte una I’m A Believer irresistibilmente al bivio fra soul e power pop). Ci si potrebbe azzardare a parlare di rinascita e chi mai se lo sarebbe aspettato.

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Joe Meek – Lone Rider: Maximum Pop! (Hoodoo)

Joe Meek - Lone Rider

Fuori dal reggae, nella storia della popular music non vi sono che due produttori che impressero a tal punto un marchio inconfondibile su ogni cosa che toccarono da vedere rubricate immancabilmente le raccolte di loro produzioni non alla voce “autori vari”, bensì sotto il loro nome. Le epoche auree coincisero quasi esattamente, entrambi furono gradualmente messi fuori gioco dall’avvento dei Beatles e l’uno e l’altro conservano fama di mattoidi. All’uno e all’altro poi (vorrà probabilmente dire qualcosa, ma non è argomento che si possa affrontare in una recensione) sono toccati finali tragici per le loro parabole gloriose. L’americano Phil Spector sconta dal 2009 una condanna per omicidio che lo terrà probabilmente in carcere fino all’ultimo dei suoi giorni (oggi settantaquattrenne, non ha speranza di uscire prima del 2028), l’inglese Joe Meek scansava un analogo destino suicidandosi nel 1967, trentasettenne. Un uomo che appena cinque anni prima si era ritrovato in cima al mondo e per cominciare alle graduatorie di vendita USA con quello che resta (al netto di un coro a bocca chiusa) il più memorabile (e allora futuristico) strumentale rock di sempre: Telstar dei Tornados. Pezzo in ogni senso enorme – dal suono di un razzo al decollo che lo apre al twang riverberato delle due chitarre accoppiate, alla melodia istantanea disegnata dal clavioline – con il torto di fare ogni tanto dimenticare che non fu che uno dei duecentoquarantacinque singoli cui il Nostro pose mano, quarantacinque dei quali entrarono nelle classifiche del Regno Unito.

Questa eccezionale raccolta ne mette insieme trenta del periodo maggiore, ’58-’62, e non ci si crede ancora né si riuscirà a crederci mai che Meek immortalò questi rock’n’roll di rado derivativi e più spesso “from the outer space” in uno studiolo casalingo, letteralmente nella sua camera da letto, con i poveri mezzi tecnici del tempo. C’era della follia in costui e, oltre a una folta aneddotica, lo certifica l’approdo drammatico della sua esistenza terrena, ma per certo c’era pure del genio.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.

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Tom Petty & The Heartbreakers – Hypnotic Eye (Reprise)

Tom Petty & The Heartbreakers - Hypnotic Eye

E così, prossimo ai sessantaquattro anni (li compirà il 20 ottobre) e dopo esserci andato vicino in due occasioni (“Damn The Torpedoes” nel 1979 e “Mojo” nel 2010 arrestavano la loro corsa alla seconda posizione), Tom Petty vede per la prima volta un suo album capeggiare la classifica di “Billboard” e questo nella settimana di uscita, quella a cavallo fra luglio e agosto. Bella soddisfazione anche economica pur in un’epoca assai meno florida per la discografia di quei favolosi tardi ’70 cui il nuovo lavoro rimanda. Bastano vendite ben più modeste di allora per essere eletti a campioni di incassi e nondimeno leggo che questo suo numero uno “Hypnotic Eye” se l’è guadagnato totalizzando 131.000 copie nei fatidici sette giorni e non è davvero malaccio, oltretutto ricordando che è dei soli Stati Uniti che si parla. Ma sono certo che per il principale artefice e gli abituali complici la soddisfazione sia stata principalmente morale. Ben fatto, Tom, te lo meriti. E se per caso qualcuno che puoi leggere o ascoltare ha lamentato, come facevo io recensendo su altre colonne “Mojo”, che i quattro anni ormai abituali di intervallo fra un album e l’altro sono troppi, be’, puoi fargli notare che rispetto a certa concorrenza tu di dischi ne pubblichi sì di meno ma che in compenso i tuoi sono buoni. Spiace annotarlo, e lo si fa con tutto l’affetto di questo mondo, ma se Neil Young si fosse sempre comportato così, se Bruce Springsteen tornasse a farlo, ne guadagnerebbero sia loro che chi li ama.

“Hypnotic Eye” mi ha deluso solo quando come minutaggio è apparso un apparentemente misero 44’41” e subito mi è venuto in mente che lo stupendo predecessore superava in scioltezza l’ora. Ma ancora prima di arrivare a fondo corsa si coglie che è una scelta giusta, che così come era appropriato che “Mojo” avesse una durata da doppio d’antan in forza dell’eccezionale varietà della tavolozza sonora è sensato che il successore duri quei venti minuti in meno per via di un sound certamente non monolitico, certamente non monocromatico ma altrettanto indubitabilmente più compatto. Tirarlo in lungo ne avrebbe fatto venir meno un’intensità che resta così formidabile dal riffone che inaugura la canzone che inaugura l’album, American Dream Plan B, portandoci per mano a un ritornello da urlo, alle divagazioni psych che si concede la conclusiva Shadow People, dopo che per larga parte del resto del programma gli Heartbreakers hanno rivisitato i loro giorni garage con grinta invidiabilmente giovanile. Concedendosi come sola divagazione – di straordinaria classe e tuttavia presenza un po’ incongrua – l’elegante, swingante jazzeggiare di Full Grown Boy. Piccolo intervallo dopo il serrato e distorto swamp boogie di Fault Lines e lo sfoggio di potenza viceversa trattenuta (grande gancio chitarristico e grande melodia) di una byrdsiana Red River. Si torna a riffeggiare pesante con All You Can Carry e da lì alla fine si giocherà sapientemente fra tensione e rilascio. Dentro una Power Drunk che rimbalza fra fuzz e languore. Facendo andar dietro a quella novella American Girl (ma riarrangiata alla Bo Diddley) di Forgotten Man una Sins Of My Youth insieme onirica e noir, il funkeggiare alla Stones di U Get Me High, il bluesone Burnt Out Town. L’ultima nota si spegne e senti che sei felicemente sazio, ma che hai ancora fame. Schiacci di nuovo “play”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.355, settembre 2014.

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Malavitosi, latin soul e la nascita della salsa: la leggenda della Fania Records

El Barrio - Gangsters, Latin Soul & The Birth Of Salsa

Come è proprio delle leggende, su alcune date degli inizi di questa vicenda c’è incertezza o come minimo approssimazione. È più o meno assodato ad esempio che fu nel 1964, ma esattamente quando non si sa, che una consolidata celebrità della musica latino-americana, il polistrumentista dominicano (flautista, principalmente) Johnny Pacheco, e uno sconosciuto avvocato newyorkese, Jerry Masucci (“a little man with big cojones”, secondo la fulminante definizione di James Maycock), univano le forze per fondare un’etichetta discografica che battezzavano Fania. Nata per consentire al primo di pubblicare in libertà in un momento in cui le multinazionali erano in tutt’altre faccende affaccendate, sarebbe diventata il marchio leader di uno dei settori più floridi dell’industria nei primi ’70. Ma non è sicuro se fu nel ’68 o nel ’69 (e dire che dall’evento furono tratti due live) che, con un concerto in un club minore della Grande Mela, il Red Garter, faceva la sua prima apparizione alla ribalta la big band di stelle della casa, Fania All-Stars, assemblata con il modesto intento di ottimizzarne le iniziative promozionali. Un altro è allora il giorno inciso a cubitali lettere d’oro negli annali di una musica che è riduttivo definire salsa e basta (lo si fa per intendersi), quando in essa confluivano con le tradizioni cubana (principalmente) e poi messicana tanto jazz e una non meno robusta dose di soul e funky ed errebì, e rock non solo nell’accezione santaniana del termine, e un mucchio di Africa. È il 26 agosto 1971. In quella sera bollente non soltanto sotto il profilo meteorologico in quattromila si accalcavano in una sala per concerti, il Cheetah, abilitata ad accoglierne al massimo la metà per lo spettacolo con cui Fania All-Stars diventavano un gruppo vero e proprio, seppure dalla formazione sempre “aperta”. E che gruppo! Il più cruciale che la musica latina abbia mai conosciuto. Non c’è nessuno che in quell’ambito abbia rappresentato qualcosa che non sia in qualche modo o momento passato per le sue fila, da membro ufficiale, da ospite in un disco, in un tour o semplicemente in una delle interminabili jam che ne hanno fatto un Mito persino più delle tante canzoni assurte all’Olimpo dei classici. Come si annotava lo scorso mese, per dare un’idea del boom vissuto dalla salsa nei primi ’70 basti annotare che da lì a tre anni in quarantamila si ritroveranno allo Yankee Stadium per applaudire Fania All-Stars, e ballare fino allo sfinimento, e addirittura in ottantamila in un altro stadio ma africano, quello di Kinshasa, epocale concerto a contorno dell’epocale match di pugilato fra Muhammad Ali e George Foreman immortalato nel film Live In Afrika. Avevano già provveduto rispettivamente Our Latin Film e Salsa – The Film a fermare su pellicola gli altri due concerti di cui sopra.

Campioni di vendite al loro tempo in modi e quantità di cui le classifiche non diedero mai adeguatamente conto, come spesso capita a musiche che godono di grandissima popolarità ma in segmenti commerciali specifici e per così dire “etnici” (un buon parallelo può essere fatto con l’incredibile mercato che ha da noi certa musica napoletana, senza che di ciò si trovi traccia nelle graduatorie ufficiali di vendita), i dischi della Fania erano diventati nel tempo una sempre più esosa faccenda per collezionisti, soprattutto dj. Questo fintanto che qualche anno fa la benemerita (sorge però qualche perplessità sulla legalità di tali ristampe) Vampisoul non ha preso a rieditarli in sempre più massicci quantitativi. Ora che la stessa Fania, rediviva, ha messo mano al mostruoso catalogo l’appassionato avrà da scialare più di quando doveva rivolgersi ai mercanti di rarità, con però la consolazione di potere comprare cinque, sette, dieci con i soldi con cui prima poteva acquistare uno o due, al massimo. Fantastica una prima emissione in cui spicca, per quanto riguarda le All-Stars, il secondo dei due succitati “Live At The Red Garter”. Ma sono una festa non meno grande, per orecchie incantate dalla raffinatezza di melodie dall’immediatezza ingannevole e piedi che se ne vanno per conto loro sui binari di grooves invincibili, una memorabile, omonima collaborazione fra lo stesso Pacheco e la diva massima della canzone cubana Celia Cruz e “Acid” del percussionista Ray Barretto, “Riot!” del pianista Joe Bataan e l’esplosivo “Bang! Bang! Push Push Push” del maestro di boogaloo Joe Cuba, l’ammiccantissimo “Ali Baba” del timbalista Louie Ramirez e un incantevole “Black Out” in cui Monguito Santamaria, pianista esimio, dà eclatante dimostrazione del fatto che in famiglia non tutto il talento apparteneva al patriarca (Mongo: ça va sans dire). Un’avvertenza: è roba che può dare assuefazione, una volta che la si è assaggiata e ci si è arresi alla sua ipnotica danzabilità, ma che a un orecchio non avezzo potrebbe pure parere un’indistinta e respingente massa di suoni da un altro pianeta. Vale come assaggio ideale per capire se la ricetta può piacere la raccolta “El Barrio”. Sottotitolo: “Gangsters, Latin Soul & The Birth Of Salsa”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.626, settembre 2006.

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Audio Review n.356

Audio Review 356

È in edicola il numero 356 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di Aphex Twin, Chuck D, Counting Crows, Joe Ely, John Garcia, Gaslight Anthem, Lisa Gerrard, Inspiral Carpets, J Mascis, My Brightest Diamond, New Pornographers, Pere Ubu, Brian Setzer e Roni Size e di una ristampa degli Underworld. Nella rubrica del vinile ho scritto di Los Lobos e Men At Work.

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Come On, Kevin – I giorni gloriosi dei Dexys Midnight Runners

Dexys Midnight Runners - Too-Rye-Ay

Cara vecchia audiocassetta… Un modo economico per scambiarsi musica fra appassionati quando i prezzi degli LP in vinile erano niente affatto economici (quelli sì che costavano una cifra, altro che i CD oggi!) e che paura che si prese un’industria discografica al solito poco preveggente: tant’è che nelle mie librerie ho un sacco di album con sul retro di copertina la scritta “home taping is killing music”. D’altro canto: spendendo quanto ci voleva per comprare un 33 giri potevi registrartene una dozzina e pazienza se i suoni (esattamente come ora con gli mp3) non erano proprio una meraviglia. Prima dei bootleg legalizzati, prima del p2p, le c7 servivano pure a fare circolare incisioni dal vivo clandestine quanto ancora meno fedeli. Doveva essere il 1984 – all’esatto apice dunque di quella mia infatuazione per i Dexys Midnight Runners che l’anno dopo mi porterà a scrivere bene di “Don’t Stand Me Down”, lavoro di cui al più si può apprezzare il coraggio, non certo la riuscita – quando qualcuno mi passò la registrazione di uno spettacolo dell’82 – parigino, mi pare – di Kevin Rowland e sempre mutevoli soci. Fu allora che scoprii che, se i dischi in studio dei Dexys erano ottimi, era sul palco che il gruppo sul serio “spaccava”. Non ho più quella Sony HF (ho ancora presenti marca e modello, potete immaginare quanto lo ascoltai quel cigolante nastrino) e a farmela tornare in mente è stato il secondo dei compact che costituiscono la Deluxe Edition fresca di stampa di “Too-Rye-Ay”: occupato in larga parte da un concerto a Newcastle del giugno sempre dell’82 (e per il resto da una “BBC Session” di pochi giorni successiva) mette in un’altra prospettiva un album comunque ritenuto, giustamente, un classico e che non sarebbe uscito che qualche settimana dopo ancora. A dirla tutta lo surclassa, fra l’altro regalando una Respect (che non troverete altrove) degna di quelle di Otis e di Aretha e scusate se è poco. Se già non possedevate il secondo Dexys, è una ragione in più per mettervelo in casa. Se lo avete, vale la pena di investire su una seconda copia.

Dici Dexys Midnight Runners ma in realtà dovresti dire Kevin Rowland e stop: più che un leader un demiurgo nel senso filosofico del termine, sempre pronto a cambiare squadra oltre che schemi di gioco ed esteriorità di uno dei gruppi più inafferrabili che la storia del pop ricordi. Anche con a disposizione il doppio dello spazio che mi è stato concesso, dubito che ne avrei sprecato per dar conto del vortice di avvicendamenti caratterizzanti una vicenda cominciata nel ’78 e conclusasi nell’86, con nel perfetto centro l’apice commerciale oltre che artistico di un singolo al vertice delle classifiche su entrambe le sponde dell’Atlantico. 1978, dunque. L’anno in cui il punk da rivoluzione comincia a farsi reazione mentre un’indefinita cosa chiamata new wave prende a tradirne la lettera per cercare di salvarne lo spirito. All’incendio settantasettino il nostro eroe ha dato un contributo (quantomai minore) alla testa dei rozzi Killjoys. Alla ricerca che si rivelerà perenne di una nuova direzione e schifando una scena che gli sembra senz’anima, decide di dar vita a una creatura dedita al recupero di una musica che l’anima ce l’ha persino nel nome. I primi Dexys Midnight Runners – nella ragione sociale un riferimento obliquo (“dexy” da dexedrina) a una cultura della droga poi rigettata (salvo ritrovarsi quarantenne, il Nostro, cocainomane perso) – recuperano l’Hammond e gli ottoni della Stax ed è omaggiando un’oscura leggenda rhythm’n’blues quale Geno Washington che colgono quasi subito – il brano si chiama giustappunto Geno – un inatteso ed epocale numero uno. “Searching For The Young Soul Rebels” nel luglio 1980 estende con successo la formula per le due facciate di un LP, regalando almeno un altro paio di canzoni (Burn It Down e Seven Days Too Long) al pari memorabili. Dopo di che, non sopportandone più le egocentriche bizze, l’equipaggio abbandonava in massa la nave e il capitano si scopriva costretto, per intraprendere la nuova rotta che già aveva in mente, ad arruolare ex novo quasi tutta la ciurma. Cambio di look anche, da un guardaroba da classe operaia ispirato da Fronte del porto a uno da zingareschi straccioni.

A riascoltarli adesso, la distanza fra “Searching…” e “Too-Rye-Ay” pare assai meno marcata di quanto non sembrò al tempo, armonioso l’innesto di robusti rami folk sulla pianta pre-esistente. Primo brano in scaletta, la giocosa The Celtic Soul Brothers espone fin dal titolo un programma che al randellare dei fiati accoppia uno svolazzare di violini, confondendo felicemente Memphis con Dublino ed ecco Let’s Make This Precious, ecco il duplice omaggio di Jackie Wilson Said (meglio di quella di Van Morrison!), ecco una Until I Believe In My Soul che fa irlandesi Marvin e Curtis. Suggella l’apoteosi giocosa, pestona, slanciata, impossibilmente orecchiabile di Come On, Eileen. Poi sarà tutta discesa, con i tristi abiti impiegatizi e le seghe da Van The Man quando le seghe se le fa sul serio di “Don’t Stand Me Down”. Quindi lo scioglimento. Da uomo con un grande futuro alle spalle, Rowland darà imbarazzante spettacolo di sé soprattutto con il tragico “My Beauty”, album di cui non si sa dire se sia più ridicola una musica di un tronfio inaudito o una copertina che immortala il titolare in slippino nero e autoreggenti.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.639, ottobre 2007.

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Il capolavoro non autografo di Harry Nilsson

Harry Nilsson - Nilsson Sings Newman

Il genio di cui i Beatles hanno detto che “è il nostro gruppo americano preferito” nell’agosto 1969 non è ancora la star che diverrà da lì a poche settimane grazie alla ripubblicazione di un 45 giri già uscito l’anno prima con un impatto sulle classifiche modestissimo. Riedita in forza dell’inclusione nella colonna sonora di Midnight Cowboy, la sua versione di Everybody’s Talkin’ di Fred Neil a questo giro sarà invece un numero 6 USA, successone che il nostro uomo replicherà e migliorerà due anni dopo con un’altra cover, questa volta dei Badfinger, Without You, prima negli Stati Uniti, in Canada, in Gran Bretagna, in Irlanda, in Australia. Ironico che due canzoni scritte da altri siano rimaste i successi più grandi di un autore eccezionale quale Nilsson. Ironico che quello che in molti considerano uno dei suoi due LP classici essendo l’altro proprio l’album che contiene Without You (ma che è per il resto quasi tutto autografo), “Nilsson Schmilsson”, sia una collezione di cover e tutte di un uomo che a sua volta Nilsson considerava un genio, ossia Randy Newman. Che di suo nel 1969 di successi ne aveva già mietuti diversi ma tutti scrivendo per altri, laddove l’esordio in prima persona “Creates Something New Under The Sun” era passato inosservato. Registrato nell’arco di sei settimane l’estate prima ed edito su RCA Victor nel gennaio ’70, “Nilsson Sings Newman” a dispetto del fresco stardom del titolare collezionerà recensioni ditirambiche ma commercialmente non avrà sorte migliore. Lo ha vendicato la posterità, acclamandolo per il capolavoro che è.

Realizzato in totale collaborazione (solo loro due nello studio) con un Randy seduto al pianoforte e lietamente incredulo di avere trovato un’anima gemella, aperto come già quell’altra pietra miliare di “Song Cycle” di Van Dyke Parks da Vine Street, è un album imprescindibile per i cultori di entrambi gli artisti. Per sei settimane filate Nilsson cantava e ricantava ossessivamente ogni brano (diversi provenienti da “Something New”, di altri non si ascolteranno le versioni dell’autore che anni dopo), fintanto che non era certo di averne catturato l’anima. E quell’anima la liberava poi in interpretazioni dove lirismo ed eleganza pari sono e lo sguardo al mondo newmaniano tradizionalmente cinico si scopre raddolcito, improvvisamente simpatizzante con un’umanità dolente. Sono dieci canzoni e ciascuna a suo modo indimenticabile, si tratti di una Love Story ultra Beatles o di una Caroline che mette insieme Brian Wilson e Paul Simon, di una The Beehive State che Dylan riecheggerà in Blind Willie McTell, di una I’ll Be Home da risentire gospel o dalla Band o di una Dayton, Ohio 1903 che trasloca Ray Davies oltre Atlantico. Non fa naturalmente male: incisione sontuosa, che questa riedizione Speakers Corner rende al meglio, per essere un disco sostanzialmente di soli piano e voce.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.349, gennaio 2014.

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Blow Up n.197

Blow Up

È in edicola dallo scorso lunedì il numero 197 di “Blow Up”. Il mio principale contributo è stato la curatela (in collaborazione con Stefano I. Bianchi, Federico Guglielmi, Roberto Municchi, Piergiorgio Pardo e Fabio Polvani) della rubrica 20 Essentials dedicata all’hard rock USA classico (1968-1976). Ho inoltre firmato recensioni e/o segnalazioni degli ultimi album di Cymbals Eat Guitars, David Kilgour & The Heavy 8’s ed Empty Hearts e di un box antologico degli Hawkwind.

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Breve la vita felice di Stevie Ray Vaughan

Non fosse volato un po’ troppo anzitempo a insegnare agli angeli a suonare Jimi Hendrix, Stevie Ray Vaughan compirebbe oggi sessant’anni.

Stevie Ray Vaughan

Galeotta fu Montreux, tranquilla cittadina svizzera “on the lake Geneva shoreline” (come cantato da Ian Gillan in Smoke On The Water) che così entrava nella storia del rock per la seconda volta. All’edizione 1982 del locale festival jazz – già all’epoca uno dei più importanti al mondo; già all’epoca quello di più larghe vedute (e lo dice uno che del jazz ha una visione molto, molto ampia) – veniva invitato Stevie Ray Vaughan, ventisettenne chitarrista nativo di Dallas che arrivava naturalmente fiancheggiato dagli usuali accompagnatori, ossia il bassista Tommy Shannon e il batterista Chris Layton. Tutti insieme Double Trouble. Che c’è di particolarmente strano o rilevante, direte voi, a Montreux hanno suonato in centinaia e in mezzo più di qualcuno non particolarmente degno. Certo. Però non era mai accaduto prima di allora che fosse chiamato a esibirsi un artista non solo senza contratto discografico in quel momento ma che un contratto discografico mai lo aveva avuto. Chissà come fu che andò davvero. Chissà come fu che, maneggia maneggia, il manager Chesley Millikin procurò il pass per la prestigiosa ribalta a uno che, fuori dai confini texani per non dire fuori da Austin, era un emerito sconosciuto negli Stati Uniti stessi, figurarsi in Europa.

C’è chi dice che Millikin avesse da farsi perdonare di averlo rifiutato un contratto per il suo assistito, che avrebbe potuto sottoscriverne uno per la Takoma (l’etichetta di John Fahey, che già aveva in scuderia i Fabulous Thunderbirds del fratello maggiore di Stevie, Jimmy) sin dal 1980. C’è chi sostiene che l’aveva invece vista lunga rigettando quell’offerta. Aveva scorto in Stevie Ray un potenziale che solo l’industria maggiore avrebbe potuto sfruttare appieno, intuizione notevole se si considera che poco c’era di più invendibile del blues nei primi ’80. Comunque sia: da tempo intratteneva una fitta corrispondenza nientemeno che con John Hammond, l’uomo che – potendo vantare nel suo curriculum di scoperte Billie Holiday, Pete Seeger, Aretha Franklin, Bob Dylan, Leonard Cohen e Bruce Springsteen, per non citarne che alcune – come nessuno avrebbe potuto spalancargli le porte dell’impero CBS. Comunque sia: l’invito a esibirsi in Svizzera arrivava. I Double Trouble lasciavano il palco sotto un diluvio di applausi e al rientro nei camerini scoprivano di essersi conquistati, fra i nuovi estimatori, due superstar. Jackson Browne faceva presente ai ragazzi che, se serviva loro una sala in cui realizzare dei demo, gli studi losangeleni di sua proprietà erano a loro completa disposizione: gratis. David Bowie dal canto suo chiedeva al leader di dargli una mano a registrare “Let’s Dance”: l’ultimo chitarrista a mettersi al suo servizio prima di Vaughan tal Robert Fripp. Da lì a breve pure Hammond si sarebbe fatto definitivamente conquistare. Accasatisi presso la Epic, domicilio che resterà unico per loro, Stevie Ray e soci agli studi Down Town ci andavano non per incidere dei provini bensì per mettere su nastro, con la supervisione proprio di John Hammond, l’esordio a 33 giri “Texas Flood”. Oggi di nuovo disponibile in vinile, in una stampa per audiofili Pure Pleasure che lo fa doppio aggiungendo ai dieci brani del programma originale un estratto da un’intervista e quattro fumiganti registrazioni dal vivo, le medesime chiamate qualche tempo fa a integrare l’edizione digitale (definitiva?) per Sony/Legacy.

Fa bene a ricordarlo e rimarcarlo Stephen Thomas Erlewine: è difficile fare capire appieno a chi non c’era che razza di impatto ebbe il primo LP di Stevie Ray Vaughan & Double Trouble, con i suoi sei mesi di permanenza nelle classifiche USA trascorsi perlopiù nei Top 40. Grazie a quel singolo album il blues tornava a essere alla moda come non accadeva dal revival elettrico dei tardi ’60 e, per non fare che due nomi, John Lee Hooker se ne vedrà rivitalizzata la carriera e Robert Cray (coevo il suo “Bad Influence”) scoprirà di averne una. Come sovente capita con i dischi che fanno scalpore, all’entusiasmo seguirà il ridimensionamento. A certe iperboli, da “il chitarrista più rilevante dopo Jimi Hendrix” in giù, faranno da controaltare quanti sottolineeranno che, a fronte di una tecnica rimarchevole e un sentimento indubbio e anche una discreta scrittura, l’originalità latitava, il Nostro un concentrato di stili altrui. Vero, dico io, ma ponendomi in mezzo dichiaro che non di scimmiottatura si trattava ma di sapiente rivisitazione. Prendendo da questo e da quello, da Hendrix come da un maestro di jazz quale Kenny Burrell, da Otis Rush come da Albert King, Vaughan sapeva elaborare uno stile suo, insieme eclettico e peculiare. Lo chiariva alla perfezione già “Texas Flood”, che suona fresco e avvincente oggi come allora, dall’attacco a rotta di collo fra rock’n’roll ed errebì di Love Struck Baby che lo inaugura all’incantata dedica alla moglie Lenny che lo suggella. Passando – ad esempio – per l’esuberanza di Pride And Joy e la possenza della traccia omonima, una Testify bersagliera e irriconoscibile (l’originale dei Parliaments di George Clinton), il funk sornione di Mary Had A Little Lamb, una I’m Cryin’ sexy in luogo che disperata. Il tutto ottimamente reso da un’incisione che esalta non solo il blandire e il graffiare delle sei corde ma pure le pelli della batteria, il basso tondo e a tavoletta, la ruspante e raspante grana vocale e insomma tutto.

Breve la vita felice di Stevie Ray, che dopo un’ultradecennale gavetta non si godeva nemmeno il giusto otto anni di ininterrotti successi, scanditi da tre album in studio e un live ma pure segnati da problemi con alcool e droghe. Da un po’ risolti quando la fatale sera del 27 agosto 1990, dopo una jam con Eric Clapton, Buddy Guy e Robert Cray a East Troy, Wisconsin, saliva su un elicottero che precipitava al suolo pochi istanti dopo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 278, aprile 2007.

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George Ezra – Wanted On Voyage (Columbia/Sony)

George Ezra - Wanted On Voyage

Raro, rarissimo che succeda ma qualche volta per fortuna succede: che dal mare magnum dell’iperproduzione e degli hype emerga qualcuno che vivaddio restituisce un senso alle parole. Ad esempio George Ezra, del quale dicono tutti che sia una giovane promessa e giovane lo è davvero, mica in un’accezione odierna del termine che arriva ormai a inglobare chiunque non si sia addentrato negli “enta”, se non addirittura negli “anta”. Il ragazzo questo suo primo album lo ha pubblicato alla verde età di anni ventuno e giorni ventitré e le prime cose le faceva uscire quando ne aveva da poco compiuti venti. Quanto alla promessa, se vi è capitato di ascoltare quella delizia di Budapest, una meraviglia di folk-pop a briglie sciolte, o ancora prima il prodigioso lamento blues (per il minuto e mezzo iniziale a cappella) di Did You Hear The Rain?, che ne rappresentò lo scorso ottobre il biglietto da visita, allora questo disco lo avete atteso con un’impazienza mista a timore. Sarebbe stato all’altezza?

Magari non del tutto, ma complessivamente lo è, con diversi apici specialmente nella prima metà – lo skiffle Blame It On Me, il Dylan rockabilly di Cassy O’, una Listen To The Man da Style Council primissima maniera – e un congedo superlativo (la pletorica versione deluxe quasi lo sciupa facendogli andar dietro quattro tracce al più graziose) con la giostrina fra il barocco e il fosco, un po’ Nick Cave e un po’ Crash Test Dummies, Spectacular Rival. Gridare al miracolo sarebbe eccessivo, ma il giovanotto (a proposito: da Hertford, Inghilterra) ha tutta l’aria di uno che si farà.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.

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