Non fosse volato un po’ troppo anzitempo a insegnare agli angeli a suonare Jimi Hendrix, Stevie Ray Vaughan compirebbe oggi sessant’anni.

Galeotta fu Montreux, tranquilla cittadina svizzera “on the lake Geneva shoreline” (come cantato da Ian Gillan in Smoke On The Water) che così entrava nella storia del rock per la seconda volta. All’edizione 1982 del locale festival jazz – già all’epoca uno dei più importanti al mondo; già all’epoca quello di più larghe vedute (e lo dice uno che del jazz ha una visione molto, molto ampia) – veniva invitato Stevie Ray Vaughan, ventisettenne chitarrista nativo di Dallas che arrivava naturalmente fiancheggiato dagli usuali accompagnatori, ossia il bassista Tommy Shannon e il batterista Chris Layton. Tutti insieme Double Trouble. Che c’è di particolarmente strano o rilevante, direte voi, a Montreux hanno suonato in centinaia e in mezzo più di qualcuno non particolarmente degno. Certo. Però non era mai accaduto prima di allora che fosse chiamato a esibirsi un artista non solo senza contratto discografico in quel momento ma che un contratto discografico mai lo aveva avuto. Chissà come fu che andò davvero. Chissà come fu che, maneggia maneggia, il manager Chesley Millikin procurò il pass per la prestigiosa ribalta a uno che, fuori dai confini texani per non dire fuori da Austin, era un emerito sconosciuto negli Stati Uniti stessi, figurarsi in Europa.
C’è chi dice che Millikin avesse da farsi perdonare di averlo rifiutato un contratto per il suo assistito, che avrebbe potuto sottoscriverne uno per la Takoma (l’etichetta di John Fahey, che già aveva in scuderia i Fabulous Thunderbirds del fratello maggiore di Stevie, Jimmy) sin dal 1980. C’è chi sostiene che l’aveva invece vista lunga rigettando quell’offerta. Aveva scorto in Stevie Ray un potenziale che solo l’industria maggiore avrebbe potuto sfruttare appieno, intuizione notevole se si considera che poco c’era di più invendibile del blues nei primi ’80. Comunque sia: da tempo intratteneva una fitta corrispondenza nientemeno che con John Hammond, l’uomo che – potendo vantare nel suo curriculum di scoperte Billie Holiday, Pete Seeger, Aretha Franklin, Bob Dylan, Leonard Cohen e Bruce Springsteen, per non citarne che alcune – come nessuno avrebbe potuto spalancargli le porte dell’impero CBS. Comunque sia: l’invito a esibirsi in Svizzera arrivava. I Double Trouble lasciavano il palco sotto un diluvio di applausi e al rientro nei camerini scoprivano di essersi conquistati, fra i nuovi estimatori, due superstar. Jackson Browne faceva presente ai ragazzi che, se serviva loro una sala in cui realizzare dei demo, gli studi losangeleni di sua proprietà erano a loro completa disposizione: gratis. David Bowie dal canto suo chiedeva al leader di dargli una mano a registrare “Let’s Dance”: l’ultimo chitarrista a mettersi al suo servizio prima di Vaughan tal Robert Fripp. Da lì a breve pure Hammond si sarebbe fatto definitivamente conquistare. Accasatisi presso la Epic, domicilio che resterà unico per loro, Stevie Ray e soci agli studi Down Town ci andavano non per incidere dei provini bensì per mettere su nastro, con la supervisione proprio di John Hammond, l’esordio a 33 giri “Texas Flood”. Oggi di nuovo disponibile in vinile, in una stampa per audiofili Pure Pleasure che lo fa doppio aggiungendo ai dieci brani del programma originale un estratto da un’intervista e quattro fumiganti registrazioni dal vivo, le medesime chiamate qualche tempo fa a integrare l’edizione digitale (definitiva?) per Sony/Legacy.
Fa bene a ricordarlo e rimarcarlo Stephen Thomas Erlewine: è difficile fare capire appieno a chi non c’era che razza di impatto ebbe il primo LP di Stevie Ray Vaughan & Double Trouble, con i suoi sei mesi di permanenza nelle classifiche USA trascorsi perlopiù nei Top 40. Grazie a quel singolo album il blues tornava a essere alla moda come non accadeva dal revival elettrico dei tardi ’60 e, per non fare che due nomi, John Lee Hooker se ne vedrà rivitalizzata la carriera e Robert Cray (coevo il suo “Bad Influence”) scoprirà di averne una. Come sovente capita con i dischi che fanno scalpore, all’entusiasmo seguirà il ridimensionamento. A certe iperboli, da “il chitarrista più rilevante dopo Jimi Hendrix” in giù, faranno da controaltare quanti sottolineeranno che, a fronte di una tecnica rimarchevole e un sentimento indubbio e anche una discreta scrittura, l’originalità latitava, il Nostro un concentrato di stili altrui. Vero, dico io, ma ponendomi in mezzo dichiaro che non di scimmiottatura si trattava ma di sapiente rivisitazione. Prendendo da questo e da quello, da Hendrix come da un maestro di jazz quale Kenny Burrell, da Otis Rush come da Albert King, Vaughan sapeva elaborare uno stile suo, insieme eclettico e peculiare. Lo chiariva alla perfezione già “Texas Flood”, che suona fresco e avvincente oggi come allora, dall’attacco a rotta di collo fra rock’n’roll ed errebì di Love Struck Baby che lo inaugura all’incantata dedica alla moglie Lenny che lo suggella. Passando – ad esempio – per l’esuberanza di Pride And Joy e la possenza della traccia omonima, una Testify bersagliera e irriconoscibile (l’originale dei Parliaments di George Clinton), il funk sornione di Mary Had A Little Lamb, una I’m Cryin’ sexy in luogo che disperata. Il tutto ottimamente reso da un’incisione che esalta non solo il blandire e il graffiare delle sei corde ma pure le pelli della batteria, il basso tondo e a tavoletta, la ruspante e raspante grana vocale e insomma tutto.
Breve la vita felice di Stevie Ray, che dopo un’ultradecennale gavetta non si godeva nemmeno il giusto otto anni di ininterrotti successi, scanditi da tre album in studio e un live ma pure segnati da problemi con alcool e droghe. Da un po’ risolti quando la fatale sera del 27 agosto 1990, dopo una jam con Eric Clapton, Buddy Guy e Robert Cray a East Troy, Wisconsin, saliva su un elicottero che precipitava al suolo pochi istanti dopo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 278, aprile 2007.
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