Un vecchio articolo che ripubblico per ricordare che il rock’n’roll viene da molto più lontano di quanto comunemente non si pensi. Che è una faccenda pagana. Che persino l’origine etimologica del termine rimanda al sesso e provare a costringerlo nel recinto bigotto e fascista del “politicamente corretto” è impresa di stupidità analoga a quella di chi pensò fosse il caso di mettere i mutandoni ai nudi della Cappella Sistina.

“Questa gente ha edificato le proprie cattedrali e scritto i propri libri sacri dentro i propri corpi, tramite un sistema che può essere trasmesso da una generazione all’altra: il ritmo.” (Michael Ventura, Hear That Long Snake Moan)
Pare (non avendo a portata di mano guide a New Orleans non ho potuto verificare, ma era così fino a pochi anni fa) che a Congo Square oggi sorga un palasport. Vale a dire, una volta di più, un posto dove ci si raduna per divertirsi. Poteva andare peggio al luogo in cui, prima dell’arrivo dei colonizzatori, gli indiani Oumas celebravano le loro feste del mais, su un suolo ritenuto sacro. Qualche tempo dopo quella piazza avrebbe partorito il rock’n’roll. Siamo in pieno Ottocento. Così la raccontava Henry Edward Durell, che visitò la Louisiana nel 1853.
“Se uno straniero, trovandosi a New Orleans in un giorno di festa, volesse visitare nel pomeriggio le pubbliche piazze del centro le troverebbe affollate dalla popolazione d’origine africana, vestita dei costumi più vari, gioiosa, selvaggia, nel pieno esercizio di un autentico saturnale.
Entrando a Congo Square il visitatore vedrà la moltitudine assiepata in circoli compatti, con un’area centrale larga solamente pochi piedi lasciata libera. È lì che siede il musico, a cavalcioni di una botte che percuote furiosamente con due bastoni, tenendo senza posa uno strano ritmo, come un folle, per ore e ore. Il sudore scorre letteralmente a fiumi, sino a terra; al centro del circolo si esibiscono pure i danzatori, sia uomini che donne. Le loro membra, ispirate dalla possessione, sono insensibili alla fatica e mettono in mostra una rapidità di movimenti e una resistenza che sono più da macchine che da esseri umani. La gente tiene il tempo di una musica che sembra eterna battendosi le cosce con le mani, mentre i danzatori, la testa piegata sul petto o rovesciata all’indietro, gli occhi chiusi o spalancati, agitano le braccia nell’aria fra urla ed esclamazioni.”
Come dire che Jelly Roll Morton ed Elvis Presley, James Brown e Jimmy Swaggart non hanno inventato niente. Di ciò qualcuno consapevole, altri no. Sapeva bene ad esempio cosa stava dicendo Jimi Hendrix quando definiva se stesso un figlio del vudù (Voodoo Chile). Che il rock’n’roll, musica bastarda per antonomasia e termine che uso qui in un’accezione onnicomprensiva, affondi le sue radici più profonde in Africa è nozione che spero comune. Ma sorprenderà i più fra voi l’apprendere che persino il suo lessico arriva da lì. Secondo lo studioso dell’arte e musicologo Robert Farris Thompson, infatti, le parole “funky”, “boogie” e “jazz” derivano dai vocaboli ki-kongo “lu-fuki”, “mbugi” e “dinza”, che significano rispettivamente “sudore benefico”, “diabolicamente buono” ed “eiaculare”. Del resto la stessa etimologia di “rock’n’roll” è illuminante. Alla solidità di “rock”, “pietra”, fa da contrappunto la mobilità di “roll”, “rotolare”. Solo che uniti vogliono dire anche altro. Cito ancora il Ventura.
“Rifuggendo ogni vocabolo tradizionale anglosassone, gli ex-schiavi di New Orleans solevano chiamare la vagina ‘jelly roll’, rotolo di gelatina, già più di cento anni fa… Quanto a ‘rock’n’roll’, era un termine in uso nei bordelli del Sud molto tempo prima di quando, negli anni ’40, si cominciò a sentire in giro una musica senza nome, che non era jazz, non era soltanto blues, non era cajun, ma comprendeva in sé tutti questi elementi e non poteva essere ignorata. ‘Rock’n’roll’ in questi locali, prima di diventare il nome di un nuovo genere musicale, era un sinonimo di ‘to fuck’, scopare. ‘Rock’ da solo significava grossomodo la stessa cosa fin dagli anni ’20 e ‘rock’n’roll’ non era dunque che una variazione sul tema. Quando, intorno alla metà degli anni ’50, i bianchi iniziarono a misurarsi con il nuovo stile musicale e si cominciò a sentirne le canzoni alla radio – canzoni con titoli come Rock Around The Clock, Good Rocking Tonight e Reelin’ And A Rockin’ – il significato non era cambiato. La parola ricorreva con tale frequenza che la nuova musica iniziò a essere chiamata rock’n’roll da dj che non sapevano cosa stavano dicendo, o al contrario erano troppo furbi per ammettere ciò che sapevano. Il termine rimase.”
E Ventura prosegue annotando che “to rock” vuol dire pure scuotere, vibrare, oscillare, dondolare, agitare. E che “verso la fine del secolo scorso, e probabilmente anche prima, nelle singing churches dei neri quando la gente veniva invasa dallo Spirito Santo e prendeva a cantare e a urlare tenendo il tempo con le mani e il sudore scorreva copioso, e taluni cadevano in uno stato d’estasi, e altri cominciavano a parlare in lingue, altri ancora svenivano e l’intera congregazione veniva coinvolta in questa esperienza catartica, tutto ciò era chiamato ‘rocking the church’, scuotere la chiesa… Le urla di Little Richard, di Janis Joplin, di Aretha Franlin, di Bruce Springsteen arrivano da questi luoghi di culto… Come potremmo chiamarle se non ‘sante’?”. Di una santità antitetica a quella mortificazione del corpo spacciataci per tale dal Cristianesimo. Ricongiungendo anima e carne, il rock’n’roll ha spazzato via secoli di repressione sessuofoba e ci ha restituito sanità fisica e mentale. It’s only rock’n’roll? Fate un po’ voi.
(Nessuna contraddizione, avrete inteso, nel fatto che quasi tutti i massimi interpreti di una musica di sensualità estrema come il soul si siano formati cantando in chiesa e che qualcuno, come Al Green, alla Chiesa sia tornato.)
Creatura con molti padri, il rock’n’roll, e dove poteva nascere se non nella città più meticcia d’America? La sola nell’Ottocento a predominanza cattolica e non anglosassone ma ispano-francese, la sola prima dell’abolizione della schiavitù dove una percentuale rilevante della popolazione (il 33% nel 1788, il 25% nel 1810) era costituita da neri liberi. Centro dell’unico stato in cui era permesso agli schiavi di usare i tamburi in cerimonie giunte dall’Africa per tramite di Haiti, luogo d’origine del primo movimento indipendentista nero a raggiungere i suoi obiettivi, seconda repubblica del Nuovo Mondo dopo gli Stati Uniti stessi. E riecco il vudù. Sistema di credenze e riti, fanno notare gli antropologi, coincidente con il paganesimo irlandese. Ebbene, una delle più grandi vergogne rimosse della storia dell’Europa moderna è che, dopo la conquista inglese, decine di migliaia di irlandesi furono trasferiti coattamente oltre Atlantico, ridotti in schiavitù. Quante cose non ci insegnano a scuola, eh?

L’industria discografica statunitense è sempre stata multicentrica. Se gravita in prevalenza intorno a New York e a Los Angeles, altre città hanno calamitato nel tempo artisti e stili: Chicago, Memphis, Nashville. Fin dagli inizi della storia della musica registrata, Crescent City ha invece avuto l’handicap di non ospitare etichette solide, in grado di propagandare i loro prodotti oltre i confini dello stato. Era così quando Jelly Roll Morton dovette emigrare per imporsi fra i primi grandi del jazz (lui se ne diceva addirittura l’inventore, ma un po’ esagerava). È così oggi ed era così nel quindicennio che va dal 1960 al 1975, esplorato da una bellissima antologia edita da poco dalla londinese Soul Jazz e intitolata “New Orleans Funk”: in nessun modo esaustiva (qualche decina di CD sarebbe stata necessaria all’uopo, non uno), è tuttavia per il neofita un ottimo corso propedeutico per accostarsi a uno stile ben distinto dal coevo errebì di scuola Stax/Atlantic come dal soul più tendente al pop della Motown, nonché dal duro funk di James Brown, sebbene con il primo e il terzo avesse punti di contatto. Ma pure l’esperto più navigato troverà motivi per rallegrarsi. È una gioia per gli occhi il libretto, iconograficamente ricco e quel che più conta denso di Storia e di storie, della città e dei suoi musicisti più illustri come dei più sconosciuti. Delle strade, dei locali, dei funerali jazz, delle parate carnascialesche, dei turnisti e di un discografico leggendario come Cosimo Matassa, senza il quale poco di tutto ciò ci sarebbe pervenuto. Ed è una gioia per le orecchie una scaletta che dispensa rarità che si rivelano gemme di abbacinante splendore. Come due delle sole quattro canzoni mai pubblicate dagli Explosions, un presagio di Little Feat chiamato Hip Drop e l’elastica e svelta Garden Of Four Trees. Se vi sono nomi oscuri come June Gardner, batterista prezzolato in libera uscita nell’arazzo di fiati di It’s Gonna Rain, o Marlyn Barbarin che in Reborn riporta l’Otis Redding di Hard To Handle al gospel, non mancano all’appello quelli noti anche a chi di musica nera non è particolarmente esperto. Tipo Lee Dorsey, in formidabile duetto chiamata & risposta con Betty Harris in Love Lots Of Lovin e bussola nel turbinio di corde vocali di Who’s Gonna Help Brother Get Further.
(Lee Dorsey: il primo cantante di New Orleans per il quale persi la testa, per via di una raccolta comprata vent’anni fa soltanto perché Joe Strummer firmava le note di copertina. Dischi a migliaia sono passati da allora sul mio stereo, ma pochi hanno retto il confronto con “Gonh Be Funky”.)
Tipo Aaron Neville, con quella Hercules che sta fra Curtis Mayfield e Isaac Hayes, o suo fratello Cyril, di eleganza somma in Tell Me What’s On Your Mind, e quei Meters che furono un prologo ai Neville Brothers. Di Handclapping Song dice tutto il titolo, e anche di Just Kissed My Baby. Ci sono i fortunati che i dischi riuscirono a venderli pure restando in Lousiana: Ernie K. Doe e Robert Parker. Ci sono i grandi pianisti: l’iniziatore Professor Longhair, il maestro Huey “Piano” Smith e il viso pallido per sbaglio Dr.John (ma Bessie Smith cantava che New Orleans è proprio un bel posto: “tutto ciò che la gente fa/lo fanno anche i bianchi”). E naturalmente c’è Allen Toussaint, produttore, compositore e arrangiatore impareggiabile.
Al suo genio è dedicata un’altra antologia appena uscita su RPM, “The Allen Toussaint Touch”. Una prima metà di scaletta zeppa di brani che risulteranno familiari a molti, avendo avuto a loro tempo successo ed essendo stati in seguito parecchio ripresi, da Lipstick Traces di Benny Spellman a A Certain Girl di Ernie K. Doe, da Ruler Of My Heart di Irma Thomas a Ooh Poo Pah Doo di Jessie Hill. Una seconda piena di canzoni che ci si chiede perché non siano divenute a loro volta dei classici, dacché oggi suonano tali. Voci estatiche ed esuberanti, pianoforti a rotta di collo, vampate fiatistiche, giri di basso implacabili e batterie che definiscono da sole cosa voglia dire “funky”. Benvenuti a New Orleans. Bentornati a casa.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.31, dicembre 2000. Ripreso in Scritti nell’anima, Tuttle Edizioni, 2007.
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