Sono poche note di piano in solitario a suggellare il valzer dal sommesso allo stentoreo – e in mezzo stridulo, ma con grazia – di 2 Hip Soul e con esso l’intero “LOSE” e che razza di congedo perfetto per un disco siffatto. La quiete dopo una tempesta di idee, suoni ed emozioni che la voce senza rete di Joseph D’Agostino riesce a trasmettere bene anche all’ascoltatore non di madrelingua, inevitabilmente un po’ perso nel flusso lirico di un’opera che è elegia per un amico scomparso. La semplicità dopo un affastellarsi di arrangiamenti sovente densi, l’estro che si fa spericolatezza che rischia l’arzigogolo. Chiusura ideale anche perché fa tirare un bel respiro, profondo, prima di reimmergersi (quasi compulsivamente) nell’ascolto di un disco tanto complessivamente godibile quanto impossibile a racchiudersi in un solo sguardo, parata di spunti e stili anche molto distanti che pure in qualche modo si tiene. Universi interi, e non solo una Place Names stralunata nel suo incedere, separano una travolgente XR da Pogues a un apice di sguaiato vitalismo dal folk-pop da camera e cameretta di un’incantata Child Bride. Nulla pare sul subito accomunare il Prince idealmente rivisitato dai Tame Impala di Laramie e l’immediatamente successiva e un potenziale successo – molto wave, molto Cure – Chambers. O, ancora, lo scintillare lucidato al vetriolo di Warning e quello scanzonato, indie-easy di LifeNet. Aveva aperto le – per così dire – danze Jackson con un afflato epico che giunti a fondo corsa parrà depistante.
Qualcuno ha parlato di “nuovi Flaming Lips” e può starci, può starci bene anche considerando come i vecchi stiano ultimamente battendo i coperchi e non in un (non)senso positivo. Ma forse converrà non dare troppa responsabilità a D’Agostino e compagni. Non che difettino loro spalle larghe, ma di questi tempi è l’attimo che conviene cogliere.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.197, ottobre 2014.
Trovo che colpisca già al primo ascolto e cresca ad ogni successivo.