Non so come abbiate conosciuto Rickie Lee Jones, voi. Io sbattendola sul cofano di un’auto. Per interposta persona, naturalmente. Ho incontrato Rickie Lee immedesimandomi in Tom Waits, che sul retro di “Blue Valentine” le si chinava sopra lascivo. Quanto lo invidiai! E pure di più invidiai quel Chuck Weiss di cui la fanciulla medesima nel 1979 diceva – in Chuck E.’s In Love, suo primo grande successo, rimasto unico – che “è innamorato della ragazzina che sta cantando questa canzone”. Ho comprato a suo tempo “Rickie Lee Jones” perché pazzo di Chuck E.’s In Love, pazzo di Tom Waits, pazzo di quella dea da morirci dietro in copertina: sigaro pendulo, basco rosso sulle ventitré su una cascata di lunghi capelli biondi. Novella Lauren Bacall cui dedicare sogni impossibili. Non mi deluse e tuttora lo adoro, quello e il più introverso seguito del 1981 “Pirates”, dischi chiave per una canzone d’autore raffinata ma non esangue, imbevuta di jazz e di blues. Poi l’ho un po’ persa e quel che è peggio è stata lei a perdersi, affondata nelle sabbie mobili di una crisi esistenziale e di cattive abitudini che nei tardi ’80 fecero pensare che non ne sarebbe emersa. Una prolungata resurrezione invece i ’90, ma se avevamo ritrovato l’interprete di vaglia (gli album migliori quelli di cover, “Pop Pop” e “It’s Like This”) l’autrice era al contrario incerta e infine a lungo silente: ultimo lavoro autografo, prima del grande ritorno sanzionato nel 2003 da “The Evening Of My Best Day” e da poco clamorosamente ribadito da “The Sermon Of Exposition Boulevard”, il modernista e non granché convincente “Ghostyhead”, del ’97. Rickie Lee è tornata e ogni tanto me lo ripeto, così, giusto per il gusto di rinnovare la sorpresa e l’entusiasmo. Ma siccome è il primo amore che non si scorda mai confesserò che “The Sermon” l’ho fatto girare parecchio – parecchissimo per un disco di cui non ho avuto il piacere di scrivere da nessuna parte – ma che soprattutto è stato una scusa per rispolverare, rubando tempo prezioso agli ascolti resi obbligati dal mestiere che faccio, quei due primi LP e in particolare il primo. Tempestivo l’inatteso invito fattomi a recuperarlo su queste pagine. Per dirla con Lloyd Cole e rivolgendomi ai giovincelli per i quali la Jones è appena un nome, al più una Joni Mitchell meno aristocratica e attempata: are you ready to be heartbroken?
Rickie Lee ha venticinque anni quando questo esordio le regala le classifiche, recensioni tracimanti superlativi, un Grammy quando vincere un Grammy era sul serio l’equivalente discografico del portarsi a casa un Oscar. Il suo ultimo anno è stato incredibile: Lowell George è rimasto a tal punto colpito da una canzone che gli ha cantato al telefono, Easy Money, da includerla in quello che resterà purtroppo il suo unico lavoro da solista (“Thanks I’ll Eat It Here”); Lenny Waronker è rimasto appiccicato al muro da uno spettacolo al Troubadour e poi da un demo e le ha prontamente offerto il contratto Warner che frutterà i primi cinque capitoli di una saga che ne conta a oggi tredici. Non ha avuto insomma bisogno di raccomandazioni da parte di Waits, che già da un lustro pubblica dischi, per farsi strada e commercialmente lo schianterà: l’album terzo nella classifica di “Billboard”, Chuck E’s In Love quarto e insomma lei una stella prima di lui. Fra breve non staranno più insieme (che triangolo con Chuck!) e sarà il dolore della separazione a indurla, fin da “Pirates”, a frequentare luoghi oscuri. Ma per intanto… Il venticinquesimo anno della vita di Rickie Lee Jones per intanto è un passare di trionfo in trionfo, approdo apparentemente lieto di una vita che nei ventiquattro precedenti non è stata facile: fra litigi e separazioni di padre e madre, peregrinazioni insensate al seguito di questa o quello da un angolo all’altro degli States, fughe da casa, un’espulsione da scuola e la bottiglia che già fa mostra di consolare nel mentre distrugge. Se avete mai fantasticato di mettere in scena un vostro On The Road, viveteci voi da homeless a Los Angeles e non vi parrà tanto cinematografico dormire alle spalle della celebre insegna di Hollywood. Se vi siete mai immaginati da Charles Bukowski, andateci voi a servire ai tavoli nelle bettole che frequentava, a cantare per “motociclisti, degenerati, ubriaconi e donne sdentate”. Un conto è scriverli i romanzi, altro è viverli. Rickie Lee ha fatto entrambe le cose ed ecco il risultato: undici canzoni meravigliose ciascuna delle quali è un racconto perfettamente concluso o se preferite un film.
Scorrono vite negli interstizi fra l’accoratezza “in blues” di Night Train e l’esuberanza ispano-funk di Young Blood, il jazzetto manouche di Easy Money e il folk fantasmatico di The Last Chance Texaco, il boogie di Danny’s All-Star Joint e l’assorto pianismo dell’alba solitaria disegnata in After Hours. Prenderanno nota in tante, da Natalie Merchant a Edie Brickell, da Sheryl Crow a Lisa Germano, a Polly Paulusma. Chissà se Chuck è ancora innamorato, ventotto anni dopo. Io sì.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.633, aprile 2007. Rickie Lee Jones compie oggi sessant’anni.
Venerabile,
a proposito del citato Chuck E., pare sia uscito un suo disco recente.
Ne sai qualcosa?
Con immutata stima
Sommerso dai mille ascolti “dovuti” non ho avuto il tempo che di fargli fare un paio di passaggi, dai quali ho ricavato l’impressione di un onesto e gradevole “more of the same”, senz’altro consigliabile a chi abbia già il resto. Ma prendi tutto ciò con beneficio di inventario.
a me è il Chuck piaciuto da matti. Nella top di fine anno di volata.