L’anima nera di Hall & Oates, bianchi per caso

Hall & Oates

Quante cose che si scoprono o si riscoprono a volte preparandosi a scrivere un articolo… Ritirando fuori il bel mazzetto di album di Hall & Oates che custodisco nei miei scaffali per rinfrescarmi la memoria sul percorso che li portò a pubblicare il più venduto della loro carriera ho avuto conferma di quanto ricordavo e cioè, limitando il discorso alla parte tecnica, di come le copie d’epoca suonino molto bene. Non ricordavo però che, buon livello delle registrazioni a parte (al netto di qualche vezzo che le fa datare), fosse così buona la qualità pure dei vinili, né che tutte le stampe in mio possesso siano italiane. Non ricordavo che la copia di “Private Eyes”, acquistata non troppissimi anni fa a un mercatino dell’usato, fosse promozionale, distinguibile da quelle destinate ai negozi per via dell’etichetta bianca. È intonsa. È chiaro che il collega di cui non ero ancora collega (era il 1981) che la ricevette in grazioso omaggio la suonò poco o mai e questo non mi stupisce: gli integralisti del rock, che come tutti gli integralisti son brutte bestie, Hall & Oates li schifavano un po’, al più li tolleravano. E per tutti gli altri facevano musica comunque troppo sofisticata. Fin quando anche da noi “H2O” non fece il botto, finendo in decine di migliaia di case. Ma la scoperta vera l’ho fatta leggendo qui e là di costoro e rendendomi conto all’improvviso, e dopo qualche decennio, che una delle undici canzoni di un LP che conosco a menadito è una cover. Non ci avevo mai fatto caso. E non è che io abbia mai avuto un bel rapporto con chi la scrisse, tutt’altro. Mike Oldfield. Oddiomio. Che poteva mai c’entrarci quel progster con il soul bianco così soul da far dimenticare a tratti di esser bianco di Hall & Oates? Così sono andato su YouTube e per la prima volta ho ascoltato la versione originale, che precedeva di pochi mesi la rilettura dei nostri eroi, di Family Man. Sospirone di sollievo. È più che OK, resta una buona canzone pop che sono però i due artisti americani a fare grande, in un colpo funkizzandola (non che di suo non lo sia, ma in una maniera piuttosto rigida, meccanica) e smussandone qualche spigolo tamarro. Posso continuare a farmela piacere. Oh… qualche pregiudizio ce l’ho anch’io, eh? Non toglietemelo.

Fulmineo riassunto delle tante puntate precedenti. Nativi rispettivamente della Pennsylvania e di New York, Daryl Hall e John Oates si incrociano per la prima volta alla Temple University nel 1967. Il primo ha debuttato discograficamente partecipando all’incisione di un singolo di quei Kenny Gamble & The Romeos che con il leader schierano anche Leon Huff e Thom Bell (insomma: i tre ideatori di quello che sarà il Philly Sound), il secondo ha fatto lo stesso in proprio e gira per club alla testa di una sua band. Musicalmente è amore a primo incontro, iniziano subito a collaborare ma non dura che pochi mesi, visto che Oates deve proseguire altrove gli studi e Hall ha dato vita a un gruppo di soft rock, i Gulliver, che nel ’69 pubblicherà nientemeno che per la Elektra un omonimo LP abbastanza modesto. Si ritrovano nel 1970 ed è allora che cominciano a fare sul serio, tanto di più dopo il decisivo incontro con Tommy Mottola, che diviene il loro manager e li fa mettere sotto contratto dalla Atlantic: prezioso periodo formativo durante il quale, accantonate le influenze folk piuttosto evidenti nel debutto “Whole Oats”, i due cominceranno a modellare, da “Abandoned Luncheonette” (che a guardare i dati di vendita, platino, parrebbe il loro primo LP di successo ma non lo diventava che tre anni in differita, nel ’76), un caratteristico sound fatto di pop, rock e soul. Dopo un “War Babies” prodotto un po’ alla sua maniera (le regie dei due predecessori firmate da Arif Mardin) da Todd Rundgren e il passaggio nel 1975 alla RCA lo stile Hall & Oates si farà sempre più personale e inconfondibile, con influssi di reggae, funky e dell’imperante disco e un gusto per la ballata sul lato giusto del sentimentalismo, lungo un tragitto fitto di album (ben cinque in studio e un live) di assai variabile riuscita sia artistica che commerciale. Il nuovo e definitivo punto di svolta è nel 1980 “Voices”, che assorbendo energia e qualche sonorità dalla new wave si produce in un cambio di passo, in uno scatto in avanti che fruttano un ingresso nei Top 20 di “Billboard” per l’album e quattro singoli nei primi trenta di cui uno primo (Kiss On My List) e uno quinto (You Make My Dreams). L’anno dopo “Private Eyes” offrirà replica ancora più felice e fortunata (due i numeri uno da lì, la traccia omonima e I Can’t Go For That). Tutto era pronto per “H2O”.

Che tuttora non sono riuscito a decidere se sia o meno il capolavoro dei nostri eroi (c’è chi punta su uno fra “Voices” e “Private Eyes”, chi risale indietro nel tempo fino all’omonimo 33 giri del ’75, io ho un clamoroso debole per il “Live At The Apollo”, con due ex-Temptations, di dieci anni dopo), ma resta comunque il loro album più celebre e, nel complesso, rappresentativo, nonché l’ultima grande prova in studio (rammento bene la delusione per il seguente “Big Bam Boom”, che sarebbe però forse un minimo da rivalutare). E devo proprio raccontarlo l’unico disco di Hall & Oates che è probabile abbia in casa la maggioranza di quanti mi leggeranno? Quando a trentadue anni dall’uscita ancora capita di accendere la radio e ascoltare la melliflua One On One così come la sbarazzina Italian Girls, la già menzionata Family Man o una Maneater che in quattro minuti e mezzo di black pop da urlo sintetizza tutto ciò che sono stati costoro. Mi resta un numero di battute sufficiente a celebrare la bontà di una fresca riedizione Original Master Recording con pesantissima copertina apribile (l’italiana invertiva davanti e retro ed era chiusa), vinile assolutamente silenzioso e una masterizzazione che mi ha dato l’impressione di essere più equilibrata, meno levigata ma insieme più naturalmente tonda, se riesco a rendere l’idea, di quella che mi era familiare. Meno “plasticosa”, ecco. Meno anni ’80 e non è certo un male.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.354, agosto 2014.

5 commenti

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5 risposte a “L’anima nera di Hall & Oates, bianchi per caso

  1. Eddy, che ne dici del live “Live Time” ?

  2. Chiara Furiani

    Sono capitata qui per caso.
    La scorsa estate ho sentito una cover band in Irlanda che eseguiva “I can’t go for that”. Ci sono andata in fissa e da allora ho rispolverato tutto di Hall e Oates e ho scoperto anche le meravigliose sessions da Daryl’s house.
    L’unico ricordo (d’infanzia) che avevo di loro era “Maneater”, ma c’è mooolto di più, come hai scritto bene.
    A dir la verita, già da un po’ ero incappata in una superlativa versione di “Love TKO”.
    Grazie!

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