Potenza dei media e della stupidità: la carriera appena iniziata degli Inspiral Carpets – da Oldham, sobborghi di Manchester – decollava prepotentemente quando uno studente di Oxford veniva fermato con un’imputazione di oscenità per avere indossato una maglietta che il gruppo vendeva ai concerti, la testa stilizzata di una mucca al centro e sotto la scritta “cool as fuck”. Pazzesco, eh? Non meno del fatto che i titoli che i tabloid dedicavano all’arresto valevano più della sponsorizzazione del solito John Peel per fare circolare la sigla. Già famosi avendo a quell’altezza giusto un paio di EP all’attivo, i ragazzi se la giocavano in ogni caso bene, firmando per la Mute e pubblicando l’anno dopo, 1990, una gemma di debutto adulto chiamata “Life” dritta al numero due della classifica britannica. Incasellati per prossimità temporale e geografica nel fenomeno Madchester, in realtà gli Inspiral Carpets erano altra cosa, pochi gli elementi di dance contemporanea nel loro sound e uno sguardo volto piuttosto agli anni ’60 di gente come Graham Bond, lo Spencer Davis Group, i primi Zombies, rivisitati con grinta garagista ma anche una certa eleganza. Si scioglievano nel ’95, ancora assai popolari e dopo altri tre album non al pari memorabili ma validi. Che si fossero riformati nel 2003 mi era quasi sfuggito fino al 2011 per un’ottima ragione: diversi i tour, zero i dischi.
Dopo avere da allora tastato il terreno con alcuni singoli, i Nostri pubblicano il primo album da vent’anni in qua e che razza di ritorno clamoroso è: dodici canzoni freschissime, una più travolgente dell’altra al netto di una malinconica quanto splendida Flying Like A Bird, ritornelli da urlo e un senso del groove micidiale. Il pubblico li premierà come meriterebbero?
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.356, ottobre 2014.
Perbacco, bel pezzo !