Archivi del mese: novembre 2014

Come fu che conobbi Rickie Lee Jones

Rickie Lee Jones - Rickie Lee Jones

Non so come abbiate conosciuto Rickie Lee Jones, voi. Io sbattendola sul cofano di un’auto. Per interposta persona, naturalmente. Ho incontrato Rickie Lee immedesimandomi in Tom Waits, che sul retro di “Blue Valentine” le si chinava sopra lascivo. Quanto lo invidiai! E pure di più invidiai quel Chuck Weiss di cui la fanciulla medesima nel 1979 diceva – in Chuck E.’s In Love, suo primo grande successo, rimasto unico – che “è innamorato della ragazzina che sta cantando questa canzone”. Ho comprato a suo tempo “Rickie Lee Jones” perché pazzo di Chuck E.’s In Love, pazzo di Tom Waits, pazzo di quella dea da morirci dietro in copertina: sigaro pendulo, basco rosso sulle ventitré su una cascata di lunghi capelli biondi. Novella Lauren Bacall cui dedicare sogni impossibili. Non mi deluse e tuttora lo adoro, quello e il più introverso seguito del 1981 “Pirates”, dischi chiave per una canzone d’autore raffinata ma non esangue, imbevuta di jazz e di blues. Poi l’ho un po’ persa e quel che è peggio è stata lei a perdersi, affondata nelle sabbie mobili di una crisi esistenziale e di cattive abitudini che nei tardi ’80 fecero pensare che non ne sarebbe emersa. Una prolungata resurrezione invece i ’90, ma se avevamo ritrovato l’interprete di vaglia (gli album migliori quelli di cover, “Pop Pop” e “It’s Like This”) l’autrice era al contrario incerta e infine a lungo silente: ultimo lavoro autografo, prima del grande ritorno sanzionato nel 2003 da “The Evening Of My Best Day” e da poco clamorosamente ribadito da “The Sermon Of Exposition Boulevard”, il modernista e non granché convincente “Ghostyhead”, del ’97. Rickie Lee è tornata e ogni tanto me lo ripeto, così, giusto per il gusto di rinnovare la sorpresa e l’entusiasmo. Ma siccome è il primo amore che non si scorda mai confesserò che “The Sermon” l’ho fatto girare parecchio – parecchissimo per un disco di cui non ho avuto il piacere di scrivere da nessuna parte – ma che soprattutto è stato una scusa per rispolverare, rubando tempo prezioso agli ascolti resi obbligati dal mestiere che faccio, quei due primi LP e in particolare il primo. Tempestivo l’inatteso invito fattomi a recuperarlo su queste pagine. Per dirla con Lloyd Cole e rivolgendomi ai giovincelli per i quali la Jones è appena un nome, al più una Joni Mitchell meno aristocratica e attempata: are you ready to be heartbroken?

Rickie Lee ha venticinque anni quando questo esordio le regala le classifiche, recensioni tracimanti superlativi, un Grammy quando vincere un Grammy era sul serio l’equivalente discografico del portarsi a casa un Oscar. Il suo ultimo anno è stato incredibile: Lowell George è rimasto a tal punto colpito da una canzone che gli ha cantato al telefono, Easy Money, da includerla in quello che resterà purtroppo il suo unico lavoro da solista (“Thanks I’ll Eat It Here”); Lenny Waronker è rimasto appiccicato al muro da uno spettacolo al Troubadour e poi da un demo e le ha prontamente offerto il contratto Warner che frutterà i primi cinque capitoli di una saga che ne conta a oggi tredici. Non ha avuto insomma bisogno di raccomandazioni da parte di Waits, che già da un lustro pubblica dischi, per farsi strada e commercialmente lo schianterà: l’album terzo nella classifica di “Billboard”, Chuck E’s In Love quarto e insomma lei una stella prima di lui. Fra breve non staranno più insieme (che triangolo con Chuck!) e sarà il dolore della separazione a indurla, fin da “Pirates”, a frequentare luoghi oscuri. Ma per intanto… Il venticinquesimo anno della vita di Rickie Lee Jones per intanto è un passare di trionfo in trionfo, approdo apparentemente lieto di una vita che nei ventiquattro precedenti non è stata facile: fra litigi e separazioni di padre e madre, peregrinazioni insensate al seguito di questa o quello da un angolo all’altro degli States, fughe da casa, un’espulsione da scuola e la bottiglia che già fa mostra di consolare nel mentre distrugge. Se avete mai fantasticato di mettere in scena un vostro On The Road, viveteci voi da homeless a Los Angeles e non vi parrà tanto cinematografico dormire alle spalle della celebre insegna di Hollywood. Se vi siete mai immaginati da Charles Bukowski, andateci voi a servire ai tavoli nelle bettole che frequentava, a cantare per “motociclisti, degenerati, ubriaconi e donne sdentate”. Un conto è scriverli i romanzi, altro è viverli. Rickie Lee ha fatto entrambe le cose ed ecco il risultato: undici canzoni meravigliose ciascuna delle quali è un racconto perfettamente concluso o se preferite un film.

Scorrono vite negli interstizi fra l’accoratezza “in blues” di Night Train e l’esuberanza ispano-funk di Young Blood, il jazzetto manouche di Easy Money e il folk fantasmatico di The Last Chance Texaco, il boogie di Danny’s All-Star Joint e l’assorto pianismo dell’alba solitaria disegnata in After Hours. Prenderanno nota in tante, da Natalie Merchant a Edie Brickell, da Sheryl Crow a Lisa Germano, a Polly Paulusma. Chissà se Chuck è ancora innamorato, ventotto anni dopo. Io sì.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.633, aprile 2007. Rickie Lee Jones compie oggi sessant’anni.

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Audio Review n.357

Audio Review 357

È in edicola il numero 357 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di  Devon Allman, Ólöf Arnalds, Caribou, Julian Casablancas, Cheap Wine, Common, Drums, Justin Townes Earle, Flying Lotus, Sid Griffin, Sondre Lerche, Christopher Owens, Gregory Porter, Scott Walker & Sunn O))), Wildbirds & Peacedrums, Lucinda Williams e Thom Yorke. Nella rubrica del vinile ho scritto di John McLaughlin/Shakti, Steeplejack e Peter Tosh.

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Hawkwind – The Flicknife Years 1981-1988 (Atomhenge)

Hawkwind - The Flicknife Years 1981-1988

Quasi un percorso netto quello che rendeva gli Hawkwind raccordo, via space rock, fra l’era della psichedelia e quella del punk. Dei primi otto album, sette in studio e l’epocale doppio live “Space Ritual”, il solo “Astounding Sounds, Amazing Music” faceva registrare, infedele al titolo, una battuta a vuoto. Fatta però pur sempre di una signora routine e a invertire la curva discendente pareva provvedesse subito lo splendido “Quark, Strangeness & Charm”, uscito in pieno ’77. Un po’ paradossale che proprio l’anno dei Clash e dei Pistols marchi invece, in una storia protrattasi in qualche modo fino ai giorni nostri, una cesura netta e mai ricomposta. Da lì in poi luogo comune vuole che poco o nulla sia all’altezza dell’era aurea nella produzione di una compagine martoriata da avvicendamenti continui, scismi, liti per il possesso della ragione sociale.

Premesso che in ogni luogo comune c’è sempre tanta verità, e non prima di avere appuntato come da “Levitation”, dell’80, scocchi ancora più di qualche lampo di ispirazione e gloria autentiche, bisogna rilevare con una certa sorpresa che dall’immersione nelle abbondanti quattro ore di “The Flicknife Years” si emerge tutt’altro che annoiati. Stranamente esilarati, anzi, e dire che dei cinque LP che ristampa collettivamente su altrettanti CD (aggiungendo a ciascuno una o più bonus) soltanto due costituiscono emanazione piena della casa madre e di questi il solo “Zones” va contato fra gli album “veri”, siccome già in origine “Out & Intake” era una collezione di tagli e ritagli. E il resto? Tre tomi di “Hawkwind, Friends & Relations” con dentro una quantità di sigle e sortite almeno formalmente solistiche. Va da sé che anche per via di un prezzo economico ma non economicissimo (qualcosa meno di cinquanta euro) il tascabile box può essere consigliato senza remore giusto a chi dei nostri eroi già possiede ogni conclamato caposaldo, ma i cultori per certo non ne resteranno insoddisfatti.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.197, ottobre 2014.

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Cymbals Eat Guitars – LOSE (Tough Love)

Cymbals Eat Guitars - LOSE

Sono poche note di piano in solitario a suggellare il valzer dal sommesso allo stentoreo – e in mezzo stridulo, ma con grazia – di 2 Hip Soul e con esso l’intero “LOSE” e che razza di congedo perfetto per un disco siffatto. La quiete dopo una tempesta di idee, suoni ed emozioni che la voce senza rete di Joseph D’Agostino riesce a trasmettere bene anche all’ascoltatore non di madrelingua, inevitabilmente un po’ perso nel flusso lirico di un’opera che è elegia per un amico scomparso. La semplicità dopo un affastellarsi di arrangiamenti sovente densi, l’estro che si fa spericolatezza che rischia l’arzigogolo. Chiusura ideale anche perché fa tirare un bel respiro, profondo, prima di reimmergersi (quasi compulsivamente) nell’ascolto di un disco tanto complessivamente godibile quanto impossibile a racchiudersi in un solo sguardo, parata di spunti e stili anche molto distanti che pure in qualche modo si tiene. Universi interi, e non solo una Place Names stralunata nel suo incedere, separano una travolgente XR da Pogues a un apice di sguaiato vitalismo dal folk-pop da camera e cameretta di un’incantata Child Bride. Nulla pare sul subito accomunare il Prince idealmente rivisitato dai Tame Impala di Laramie e l’immediatamente successiva e un potenziale successo – molto wave, molto Cure – Chambers. O, ancora, lo scintillare lucidato al vetriolo di Warning e quello scanzonato, indie-easy di LifeNet. Aveva aperto le – per così dire – danze Jackson con un afflato epico che giunti a fondo corsa parrà depistante.

Qualcuno ha parlato di “nuovi Flaming Lips” e può starci, può starci bene anche considerando come i vecchi stiano ultimamente battendo i coperchi e non in un (non)senso positivo. Ma forse converrà non dare troppa responsabilità a D’Agostino e compagni. Non che difettino loro spalle larghe, ma di questi tempi è l’attimo che conviene cogliere.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.197, ottobre 2014.

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Il vinile salverà la musica

(Una premessa per questa insolita puntata di una rubrica di cui ho l’onore e il piacere di essere uno dei due curatori sin dal 2003, anno in cui il supporto fonografico di cui si occupa era non più ai minimi storici ma nemmeno granché sopra: i dati dai quali partirò per fare i miei ragionamenti si riferiscono al mercato statunitense. Vado a usarli come riferimento perché sono i più facilmente reperibili, i più precisi e riflettono inoltre dinamiche quasi esattamente sovrapponibili a quelle che caratterizzano i mercati britannico, europeo, giapponese.)

DJ Shadow - Endtroducing

Ci informa “Wikipedia” che “Nielsen Soundscan è un sistema di informazione e tracciatura delle vendite creato da Mike Fine e Mike Shalett” e che è “il metodo ufficiale di tracciatura di singoli, album e video musicali negli Stati Uniti”. I dati vengono raccolti settimanalmente dai registratori di cassa di parecchie migliaia di negozi, tradizionali e non (quindi anche “on line”), e sono quelli cui “Billboard” si affida sin dal marzo ’91 per compilare le sue classifiche. Con ogni evidenza, ritenendoli dunque più affidabili di quelli rilevati seguendo un metodo diverso dalla RIAA, la Recording Industry Association Of America. Premesso l’ovvio, e cioè che da sempre una certa quantità di vendite sfugge perché passa per altri canali (impossibile ad esempio conteggiare le copie vendute brevi manu o per posta dagli stessi artisti o da etichette medio-piccole), e che quindi i numeri andrebbero rivisti al rialzo quantomeno di un 10%, è la Nielsen allora a raccontarci che per il vinile l’annus horribilis era il 1993. Nel pieno del boom di grunge (una scena per i cui principali esponenti, Nirvana in testa, il vinile rappresentava un feticcio) e hip hop (un genere musicale nato letteralmente dalla manipolazione del vinile), le vendite di album nuovi negli USA (ove per “nuovo” si intende un titolo fresco di stampa ma pure di ristampa) si contavano in appena trecentomila esemplari. Andranno da allora a risalire ma restando per alcuni anni modestissime – un milione e cento nel ’96 e nel ’97, un milione e mezzo nel 2000 – per poi nuovamente flettere, tornando sotto il milione nel biennio 2005-2006. Carta canta e certifica che mentre già capitava di imbattersi in giornali e siti in articoli che celebravano – fra stupore, entusiasmo e scetticismo – non solo la mera sopravvivenza ma il ritorno in auge del più classico dei supporti in realtà di LP nuovi se ne vendevano ancora pochi. Era soprattutto il mercato dell’usato, i cui numeri non sono conteggiabili, a vedere espandere sensibilmente il volume d’affari. Stava però – e probabilmente non ce ne si rendeva conto appieno – cambiando, per usare una parola grossa, la temperie culturale. Il vinile era di nuovo cool e come goccia che scava la pietra questo concetto comincerà a fare presa sulle giovani generazioni. È il 2008 l’anno della svolta vera, un milione e novecentomila gli LP nuovi venduti negli USA contro il milione e cento del 2007. Da allora la curva ha preso a salire a ritmi vertiginosi e vi do tre cifre per misurare quanto: sei milioni e centomila gli album in vinile che si sono venduti lo scorso anno, otto quelli che si calcola (prudenzialmente) che si conteranno alla fine di quello corrente. Ma la cifra più impressionante è la seguente: dell’ultimo lavoro di Jack White, lo splendido “Lazaretto”, si sono volatilizzate quarantamila copie nella prima settimana nei negozi. Quarantamila copie. Un singolo LP nel 2014 ha totalizzato in una settimana il 13% delle vendite di tutti gli LP stampati nel 1993 nell’arco intero di quell’anno. Se ancora serviva a qualcuno una dimostrazione, eccola: indietro non si torna.

Sia chiaro: non sono i numeri in assoluto a essere rilevanti – in percentuale nel 2013 le vendite degli album nuovi in vinile negli Stati Uniti non hanno rappresentato che il 2% del totale del mercato contro il 41 del download e il 57 del CD – ma il trend. È un fatto che il vinile è l’unico supporto i cui numeri si incrementano, e vistosamente, invece che calare. È un altro che, al di là di ogni discussione su cosa suoni meglio (il dibattito ferve sin dalla commercializzazione del CD, nell’83, e l’unica conclusione sensata è quella che rigetta gli estremismi delle opposte fazioni: dipende), è passato il messaggio che per chi ama davvero la musica è più spesso che no il modo migliore per usufruirne. Ed è un terzo e almeno altrettanto importante, e sotto gli occhi di tutti, che il vinile non solo non perde valore economico con il tempo ma di norma ne acquisisce. Maggioritario nel mercato dell’usato di un minimo livello, praticamente monopolista in quello delle rarità. E anche questo pesa.

Poi lo so bene che non è tutto oro quel che luccica e che una crescita tumultuosa porta con sé pure problemi e – ahem – distorsioni. Per dirne uno: è prossimo il momento in cui le fabbriche che stampano vinile negli USA, appena una dozzina (la più grande lavora con ventidue presse, la più piccola con una), non saranno più in grado di soddisfare le richieste. Dirà il lettore: non si possono produrre nuove macchine? La paradossale risposta è che no, perché il mercato resta troppo piccolo, e lo sarebbe anche al doppio delle copie vendute oggi, per giustificarne il costo esorbitante. Per dirne un altro: sono state le etichette indipendenti a rilanciare il vinile e ora che le major si sono accorte che è tornato a essere un affare i piccoli si trovano a patire attese sempre più lunghe e a stampare meno copie di quelle che potrebbero vendere. E per dirne un terzo, che all’audiofilo è quello che interesserà di più: per quanto pazzesco possa sembrare, c’è chi non coglie che vinile e CD sono due supporti profondamente diversi e che stampare sul primo usando il master approntato per il secondo è non solo una sciocchezza ma una truffa nei confronti dell’utilizzatore finale. Impossibilitato a sapere se c’è una corretta masterizzazione alla fonte di ciò che sta acquistando e che, a), gli costa di più e, b), è destinato in qualche misura a degradarsi.

L’auspicio è che di questa grave stortura si prenda presto coscienza e si rimedi. Quella che per me è una certezza è che la rinascita del vinile sta avendo come ricaduta la scoperta di un modo consapevole di vivere la musica per una nuova generazione, di venticinquenni ma anche di ventenni. Ne abbiamo nel frattempo persa almeno un’altra, quella dei trentenni, ma per la prima volta da molto in qua il futuro non sembra più nero pece. Il vinile salverà la musica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.355, settembre 2014.

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