Strangeways, Here They Come (Again) – Morrissey vs. Johnny Marr

Morrissey vs Johhny Marr

Ventisette anni senza Smiths e, per chi c’era, pare fosse ieri. Ventisette anni senza Smiths e se non sembra è perché la loro influenza continua a riverberarsi su una parte cospicua del pop con le chitarre prodotto in ogni dove. Racchiusi in una bolla studiata e mitologizzata come poche storie in assoluto e forse nessuna fra quelle consumatesi negli ’80. Immobilizzati in un passato reso eterno presente dallo schiacciamento della prospettiva temporale indotto dalla simultanea disponibilità dell’intero scibile musicale prodotto dacché Elvis mosse il bacino. Ma senza un mazzo di gladioli a penzolare dalla cintura, lui. Ventisette anni senza Smiths e su una singola cosa Steven Morrissey e Johnny Marr sono d’accordo da allora e cioè che il più bell’album che condivisero è quell’ultimo che quando uscì già gli Smiths non c’erano più, “Strangeways, Here We Come” (il più trascurabile, se chiedete a me). Erano d’accordo anche su un’altra, ossia che mai e poi mai gli Smiths torneranno assieme, ma il chitarrista – che fu colui che decretò la fine di un’avventura che il cantante avrebbe viceversa voluto portare avanti – qualche apertura in tal senso ultimamente l’ha fatta. Morrissey invece tranciante al riguardo – “Mi mangerei piuttosto i miei stessi testicoli” – e io che ho sempre tifato per Johnny in questo caso mi schiero con Steven. Lasciateli in pace gli Smiths. Non sciupate con una postilla pletorica una vicenda sublime, non a dispetto ma in forza del suo groviglio di contraddizioni e di un catalogo altamente imperfetto. E se proprio un giorno doveste decidere di riformare il sodalizio prendete esempio da Page e Plant e fate come fecero loro.

Ventisette anni senza Smiths e mai era accaduto – un po’ perché quegli ha impiegato un quarto di secolo a elaborare il lutto da lui stesso causato, un po’ perché questi ha diradato una produzione a lungo fitta di pubblicazioni – che i due leader se ne uscissero con due lavori solistici a poche settimane l’uno dall’altro. Alzi la mano chi li ha ascoltati senza immaginarsi un disco con dentro le canzoni migliori di entrambi e ciascuna lievemente riveduta, lievemente corretta, probabilmente non più semplicemente bella ma magica. Fantasticheria oziosa quanto deliziosa.

Non fosse il bisbetico indomito che è, Morrissey non sarebbe Morrissey. Nondimeno, che peccato che in questo 2014 si sia parlato più dei problemi di salute e soprattutto di bizze da animalista sempre più radicale (la si pensi come si crede al riguardo, una frase come “non c’è differenza fra chi si nutre di animali morti e un pedofilo” è indifendibile) che non di un album fra i suoi più pregiati. Certamente meglio forse solo l’esordio “Viva Hate” e il più immediato predecessore, “Years Of Refusal”, faccenda ormai di cinque anni or sono che mi costringeva a riconsiderare l’intera parabola post-Smiths del Nostro (oltre a tracce sparse qui e là ho finito per rivalutare “Vauxhall And I”). Che il continuo prendersi di punta del nostro uomo con l’universo mondo abbia poi portato a un divorzio (al solito sanguinoso) dalla Harvest quando non era nei negozi che da un mese non ha naturalmente giovato alle fortune di un disco che in quel momento era secondo nelle classifiche UK e undicesimo in quelle USA. Insomma: di “World Peace Is None of Your Business” si è scritto più che altro per le ragioni sbagliate. Non per lodare il classicismo da crooner del brano che lo inaugura e battezza, quella How Soon Is Now traslocata sulle rive del Bosforo che è Istanbul, una Staircase At The University che a infilarla in “The Queen Is Dead” lo avrebbe migliorato, lo Scott Walker apocrifo e sardonico di Kick The Bride Down The Aisle. O – ancora – i barocchismi esultanti di Kiss Me A Lot e quella gemma di ballata che è il suggello Oboe Concerto. Peccato, ma peccato davvero.

Dal giorno uno a suo agio più nel far parlare lo strumento d’elezione che non i giornali, Marr solo lo scorso anno si era deciso a debuttare da leader e nessuno si attendeva che a “The Messenger” – opera apprezzabile senza essere esaltante – desse un seguito tanto prontamente. Positivamente galeotto fu il tour che la promuoveva, rivitalizzante sia per la vena compositiva del Nostro che per un sound adesso un po’ più a fuoco e decisamente più live. Imparasse a sparare qualche cazzata, l’amico Johnny, attirando così su di sé un decimo (il giusto) di quelle attenzioni mediatiche che l’ex-socio calamita solo essendo se stesso! Perché non ci si può credere che una canzone di clamorosa orecchiabilità quale è Easy Money non sia sostanzialmente andata da nessuna parte. Quella e Back In The Box, minimo. Magari tallonate dappresso dalla stupendamente smithsiana Dynamo, dal cantilenare sapientemente orchestrato di 25 Hours, da una This Tension che di quel gruppo lì ha le chitarre ma la ritmica la affida ai New Order. Laddove Candidate evoca (ma guarda!) gli Electronic e Speak Out Reach Out rimanda a certi Ultravox. Il resto è un po’ mancia e vien da pensare che a mischiare il meglio di “The Messenger” e di “Playland” Marr avrebbe cavato dal cilindro un album degno in toto dei suoi irripetibili anni ’80. Ma va bene anche così, dai…

1 Commento

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Una risposta a “Strangeways, Here They Come (Again) – Morrissey vs. Johnny Marr

  1. Morrissey invece tranciante al riguardo – “Mi mangerei piuttosto i miei stessi testicoli”.
    D’altronde è vegetariano.

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