Esattamente mezzo secolo a oggi Sam Cooke perdeva la vita, in circostanze che mai sono state adeguatamente chiarite. Andandosene appena trentatreenne cambiava la storia del soul una seconda volta, dopo avere concorso come forse nessuno a farlo nascere.
Portrait Of A Legend (ABKCO, 2003; antologia)
Sebbene il soul, di cui il nostro uomo fu fra i padri fondatori, sia stato a lungo una faccenda più di 45 che di 33 giri, non mancano nella discografia di Sam Cooke album in studio memorabili e in primis quel “Night Beat” di cui potete leggere a seguire. Certamente un capolavoro. Ancora più certamente, però, un’opera fuori canone, tesa com’è a esplorare un universo, quello del blues, appena sfiorato in precedenza con Bring It On Home To Me. Obbligatorio allora indirizzarsi verso una raccolta. Fra le tante disponibili oggi, nessuna racconta meglio di questa chi fu Sam Cooke. Transfuga dal gospel che non gliela perdonò, raffinato intrattenitore dalla voce serica e dai modi gentili e per questo capace di mietere successi fra il pubblico bianco e nel contempo abile nell’infiammare le platee di colore con esibizioni di formidabile energia. Uno e bino: da un lato il romanticismo di You Send Me, Cupid o Wonderful World; dall’altro la frenesia festaiola di botte di vita chiamate Shake, Twistin’ The Night Away, Having A Party. Il fratello che ce l’ha fatta, il nero che avresti potuto invitare a cena nell’America razzista dei primi ’60. Ma, come cantava il giovane Dylan, i tempi stavano cambiando.
Sam Cooke lo vide e lo annunciò, il cambiamento. Proprio A Change Is Gonna Come si intitola la canzone con la quale saldò le sue anime e tuttora travolge con la forza di un’emozione ineffabile, indecisa fra speranza e disperazione. Otis Redding ne offrirà una versione di quasi pari rilevanza in un album epocale quale “Otis Blue”, che completa la dichiarazione di diretta discendenza da Cooke rileggendone anche Shake e Wonderful World. L’autore non la vide scalare le classifiche. Moriva, ucciso in circostanze che non verranno mai chiarite plausibilmente, l’11 dicembre 1964, undici giorni prima della data fissata per la pubblicazione.
Live At The Harlem Square Club, 1963 (RCA, 1985)
Da qualunque prospettiva se ne osservi la vicenda colpisce in Sam Cooke l’essere costantemente due in uno. Il più acclamato dei cantanti di gospel, tanto per cominciare, e nello stesso tempo il primo a tradire il sacro per il profano, facendosi incidentalmente precursore e prim’attore del soul. Scissione della personalità replicata nel suo essere per un verso perfettamente inserito nel filone della ballata pop prediletta da un pubblico in prevalenza bianco e per un altro ipercinetico dispensatore di atmosfere festaiole per la platea afroamericana. Perfettamente logico che per rappresentarne adeguatamente la valenza concertistica siano stati necessari dunque due album dal vivo. Il primo era in classifica quel fatale giorno del dicembre 1964 in cui una pallottola lo rapì a questo mondo: “At The Copa” restituisce l’immagine di un Sinatra di colore piacevolmente ironico e sentimentale. Il secondo ha visto la luce solo ventun’anni dopo, e a ventidue dalla registrazione, e ascoltandolo si capisce ben prima di arrivare all’apoteosi finale di Having A Party quale sia stato il modello per quel suono di Asbury Park fatto Vangelo dal Boss e dal suo discepolo prediletto Southside Johnny.
Night Beat (RCA, 1963)
Bramatissimo dai collezionisti fino alla ristampa del ’95 che lo ha fatto riscoprire decretandolo l’album insieme più atipico e colossale di Sam Cooke, “Night Beat” è un ritorno alle radici, comprese quelle mai esplorate in precedenza. È alla voce “blues” che va catalogato, se si vuole catalogarlo. Parlano chiaro in tal senso la trotterellante Please Don’t Drive Me Away, una Trouble Blues esemplare già dal titolo, una You Gotta Move della cui lezione i Rolling Stones faranno tesoro; soprattutto, la più bella Little Red Rooster di sempre, propulsa dall’organo del sedicenne Billy Preston. C’è un rock a rotta di collo a fare ciao ciao: Shake Rattle And Roll. Ci sono ballate in cui l’usuale eleganza si accompagna a una profondità di sentimento mai toccata: Lost And Lookin’, I Lost Everything, Fool’s Paradise. E c’è naturalmente del gospel: torna la Mean Old World già affrontata con gli Stirrers e l’emozione attanaglia.
Pubblicati per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012.
TUTTI DISCHI ENORMI. ma il live at harlem square è trascendentale, con quella voce leggermente arrochita che trasporta il pubblico ad un delirio mistico da chiesa profana. Per me uno dei più bei live di sempre e di tutti. At the Copa invece mi ha sempre lasciato freddo, ed anche oggi non riesco a rivalutarlo.
Venerato, per Sam Cooke ti sarò eternamente grato, sul serio.
La sua scoperta la devo, mi pare, ad un tuo lungo articolo su Extra e fu scoperta a tal punto folgorante che, da allora, quando per un motivo o per un altro non riesco ad ascoltare qualcosa da te consigliato, sto male.
mi aggiungo anch’io ai ringraziamenti per quell’articolo 🙂
Extra meriterebbe un Nobel, oppure un posto in una sorta di Hall Of Fame, se esistesse, dell’editoria musicale. Rileggo spesso i vecchi numeri come facevo con Alan Ford (massimo attestato di stima possibile immaginabile per me 🙂 )
È impossibile non amare Sam Cooke, la sua voce vellutata e piena di Soul ti può spezzare il cuore. Il suo canto sembra suggerire che è sempre primavera e che se in paradiso c’è una colonna sonora è sicuramente composta dai suoi dischi.
Rest in peace brother…