Per qualcuno la canzone resta sempre la stessa: ad esempio per Jimmy Page, che inanemente vorrebbe tornare in sempiterno sul luogo di pur squisiti delitti che vanno consegnati alla Storia e basta e non si rassegna al fatto che altri non sia interessato e preferisca vivere; ad esempio per certa critica frettolosa, che dovrebbe togliersi dall’occhio la trave del pregiudizio e dello stereotipo (e magari ascoltarli come si deve, i dischi, o almeno i comunicati stampa leggerli senza saltar le righe) prima di andare a cercare pagliuzze altrove. E per qualcuno invece cambia sempre, almeno un po’, ed è il caso di Robert Plant, che ad anni sessantasei in luogo di speculare sul passato che sappiamo continua a studiare, a esplorare, a entusiasmarsi, a sperimentare. Che con l’umiltà dei giganti veri sposta spesso l’attenzione da sé su chi al Madison Square Garden non ci ha mai suonato. Ecco, vedete, dovreste ascoltare pure questo e questo, io l’ho fatto. Hats off to Robert Plant, una volta di più.
Si potrebbe cominciare dall’inizio per raccontare di “Lullaby And… The Ceaseless Roar” e non intendo l’inizio del disco ma l’inizio inizio, quello della carriera post-Zeppelin del nostro uomo, quegli anni ’80 fatti di album non precisamente trascendentali ma che già avevano il merito, nella loro erraticità, di scansare le trappole della nostalgia a costo di una tastiera, un sintetizzatore, una batteria elettronica di troppo. Che provavano indubitabilmente a essere “commerciali” ma inventandosi un modo inedito di (pro)porsi per l’artefice. Oppure si potrebbe partire dal fondo, dai purtroppo solo 2’46” di Arbaden: che sono i Rolling Stones alle prese con Robert Johnson, solo che non è Robert Johnson ma sono i Fairport Convention che rifanno un traditional e anzi no, dev’essere Jah Wobble e poi arriva Nusrat Fateh Ali Khan. L’Est che incontra l’Ovest “at the crossroads” ed è errore da matita blu che quella che è una sorta di versione “in dub” della traccia che invece il disco sublimemente lo apre, Little Maggie, non venga sviluppata adeguatamente. Se ha un pregio questo finale irrisolto è che ti spinge a ricominciare, a perderti nuovamente nel flusso insieme magmatico e lieve di un lavoro che riassume molti se non tutti i Robert Plant ascoltati a oggi. Mancano – e va bene così – i Led Zeppelin più bombastic, laddove sono assolutamente presenti quelli devoti a blues (Turn It Up) e folk (Pocketfull Of Golden, che però li spedisce anche in una Bristol ricollocata a fianco di Marrakesh). Manca più in generale, a meno che non si rubrichi lì certo Peter Gabriel cui potrebbe appartenere Embrace Another Fall (e assolutamente null’altro), il rock da grandi arene. E invece ecco, a separare i Byrds in trance di Somebody There da quelli che uniscono i puntini da Roy Orbison ai Velvet di House Of Love, il Leadbelly in gita in Africa di Poor Howard. Ecco ballate come la suadente e acidula Rainbow e una A Stolen Kiss sull’orlo del sacrale. Ecco la psichedelia pulsante di Up On The Hollow Hill.
Dopo non una ma due raccolte di cover, “Lullaby And… The Ceaseless Roar” vive in massima parte da luce autografa. E quietamente – spesso – abbaglia.
Certo che, tra questo e i due precedenti, Plant sta vivendo una terza età eccezionale. Incredibile.
Non sono mai stato un gran fan dei Led Zeppelin e forse proprio per questo non ho avuto problemi ad apprezzare Robert Plant. Questo disco è sicuramente quello che preferisco.
In un panorama rock infarcito di vecchie cariatidi che affollano gli stadi con patetiche repliche di se stessi finalmente una voce storica della nostra musica con la mente ancora lucida e le orecchie aperte.
Al di la del disco in questione 10 e lode a robert plant.
Sono cresciuto a pane e Zeppelin, poi li ho abbandonati per anni ma Plant è sempre rimasto nel mirino, e come ha detto qua Bona il vecchio Robert ha infilato un tris straordinario. E poi, diciamolo, rifiutarsi di riunire gli zeppelin lo rende un monumento umano ancora più grande. hats off veramente
È un grande, non riteneva di fare un lavoro all’altezza con i Led Zeppelin e ha preferito fare altro.
Pochi artisti rispettano il pubblico e se stessi fino a questo punto.