Stupisce lo stupore di chi, all’uscita di “Popular Problems” (Columbia), si è stupito che Leonard Cohen sia tornato con un album nuovo formalmente ad appena due anni – in realtà quasi tre: “Old Ideas” vedeva la luce a fine gennaio 2012 – dal predecessore. Intervallo in ogni caso breve per uno che già esordiva trentatreenne, metteva sedici mesi (parecchio, per l’epoca) fra il debutto e il secondo LP e un suo disco è arrivato a farcelo sospirare poco meno che un tondo decennio. Ma tempus fugit e se pure sei in una forma, sia fisica che mentale, pazzesca per un fresco ottantenne la consapevolezza che i tuoi giorni siano contati non può non metterti fretta. E poi ce l’aveva promesso, che almeno un altro album lo avrebbe pubblicato, e per un gentiluomo come lui ogni promessa non può che esser debito. Eccoli qui allora altri nove articoli che vanno ad aggiungersi a un catalogo tanto (relativamente) smilzo quanto di una qualità media senza eguali (e peggio per chi invece ha insieme più facilità a scrivere e meno equanimità nel giudicarsi) nell’ambito della canzone d’autore. Ci stanno benissimo, ad accompagnare un paio di dozzine di classici e qualche decina di altri pezzi comunque – quale più, quale meno – memorabili. Si può qui rubricare qualcosa alla prima voce? Pur con il difetto di prospettiva dato da una sì fresca frequentazione punterei molto su una Almost Like The Blues disegnata da un piano elegante che piuttosto jazzeggia, fra percussioni sincopate, archi pungenti e fiati che sistemano strada facendo punti e virgole, e su Slow, che la precede e quella sì che è un blues. In seconda istanza sul virile incantesimo a tempo di valzer di Samson In New Orleans e su Born In Chains, organo chiesastico e coro che subito gospeleggia. Laddove Did I Ever Love You – country al trotto e piglio e voce singolarmente più Zimmie che Lenny – e l’inquietante, ipnotica escursione mediorientale di Nevermind sono grandi canzoni ma forse troppo “poco Cohen” per venire sistemate a fianco dei capisaldi conclamati. Però in fondo lo pensai anche di First We Take Manhattan, la prima volta che mi illuminò d’immenso.
Pur principiata con un lavoro omonimo nell’ormai lontano 1998, fuori dal Canada la sua carriera è stata a oggi di profilo mediaticamente tanto basso che in pochi sanno che Leonard Cohen ha un figlio cantautore e che anch’egli ogni tanto pubblica un album. L’ultimo è il suo quinto contandone uno con i Low Millions, si chiama “We Go Home”, è uscito a ridosso di “Popular Problems” (una settimana prima, anzi) e in Europa provvede Cooking Vinyl a distribuirlo. Sgombrato il campo da improponibili paragoni, si può serenamente affermare che Adam Cohen merita di essere conosciuto non solo in quanto “figlio di” e che l’illustrissima parentela è stata probabilmente più un handicap che un aiuto. Echi di papà chiaramente risuonano, amplificati dalla costanza con cui voci femminili vanno a fare il controcanto, ma – a parte l’ammirazione per la schiettezza con la quale costui si confronta con l’ingombrante lascito in una confessionale Fall Apart che felicemente disarma – il disco meriterebbe più fortuna della poca che al solito sta riscuotendo. La dessero alle stampe Mumford & Sons, la traccia omonima sarebbe un successone. Ci mettesse mano Bono a una Love Is si potrebbe parlare di un Secondo Avvento. Dategliela una possibilità, ad Adam. Fatevi sedurre dallo shuffle lieve di Song Of Me And You, provate e perdervi e ritrovarvi nell’attacco pianistico che trasmuta in funk e quindi in pop-baroque di What Kind Of Woman e sappiatemi dire.