Nella vulgata comune a rovinare il Re del Rock’n’Roll, che comincerà allora a “normalizzarsi” avviandosi sulla strada che lo trasformerà rapidamente da inconsapevole rivoluzionario a innocuo intrattenitore, è la chiamata alle armi nel marzo 1958. Per quanto ci sia in essa molto di vero, non è esattamente così. Quando arriva a Fort Chaffee, Arkansas, Elvis su quella via è in realtà bene incamminato e pare lontanissima, quando non sono passati che quattordici mesi, la sua terza e ultima apparizione all’“Ed Sullivan Show”, quella in cui lo hanno inquadrato solo dalla vita in su per evitare che con gli ammiccanti movimenti del bacino quel bianco troppo negro eserciti appieno la sua influenza corruttrice sulla gioventù d’America. Quel breve lasso di tempo è bastato al Colonnello Parker per rendere pienamente operativo un piano tanto semplice come obiettivo quanto complesso e sofisticato nell’attuazione. Un piano che non ha nulla di ideologico, sia chiaro, essendone l’unico scopo gettare le basi per una carriera nello showbiz che duri a lungo, che continui quando la moda del rock’n’roll non sarà che un vago ricordo. Essenziale in tal senso è che il pubblico adulto smetta di percepire Elvis come un lascivo delinquente che sta minando alla base un intero sistema di valori che arriva da lontano, dai Padri Pellegrini, e cominci a cogliere quanto sia invece un bravo ragazzo. Nella metamorfosi presleyana da teppista con il quale non fareste mai uscire vostra figlia a genero ideale giocano un ruolo decisivo, quasi alla vigilia di un servizio militare che il manager trasformerà in un circo mediatico come non se n’era mai visto uno simile, le riprese del primo film da attore protagonista, King Creole, e la pubblicazione di un “Elvis’ Christmas Album” che trascorrerà un mese filato in cima alla classifica degli LP pop di “Billboard” e da allora ha venduto nei soli Stati Uniti oltre dieci milioni di copie, cifra che ne fa la raccolta di brani natalizi di maggior successo di sempre. Il lettore che ce l’ha presente ricorderà bene come gli ultimi quattro dei dodici titoli in scaletta non siano canzoni natalizie in senso stretto bensì dei gospel. Proprio quelle tracce lì avevano già visto la luce, nell’aprile precedente, sull’EP “Peace In The Valley”. Lungo preambolo per dire che sbaglierebbe grandemente però chi in quelle incisioni datate 12, 13 e 19 gennaio ’57 volesse vedere il momento cruciale in cui il nostro eroe si lasciò alle spalle – ormai marionetta mossa da un abilissimo burattinaio – la rivoluzione inscenata da That’s Alright Mama. La verità è che nel percorso formativo del giovane Elvis Presley il gospel ebbe un ruolo importante, che lo amò sempre moltissimo, che non solo il Colonnello non dovette affatto insistere per fargliene registrare ma che addirittura fu l’artista a premere in tal senso. Al manager non dovette sembrare vero.
Sulla copertina di “His Hand In Mine”, 33 giri pubblicato originariamente nel novembre 1960 su RCA Victor e fresco di ristampa su Speakers Corner non nella bella edizione mono ma nella comunque al pari convincente versione d’epoca in “living stereo”, il titolare siede a un pianoforte (che provvedeva in realtà Floyd Cramer a suonare) in abiti che sono la versione adulta del classico vestito da prima comunione. Faccia da ragazzino, occhione ceruleo spalancato, espressione innocente da bravo figliolo tutto casa e chiesa che sconfinerebbe nel verginale non provvedesse la sensualità delle labbra a fare sospettare che non è tutto santo ciò che a santo si atteggia. Sia come sia: Elvis ci credeva davvero, in tutti i sensi. Sia come sia: a mettere da parte ogni sovrastruttura ideologica, non si può non riconoscere, oltre che la sincerità, la grandezza nell’ambito e non solo nell’ambito della dozzina di incisioni qui contenute. Il primo dei tre album di gospel pubblicati dal nostro uomo (nel 1967 sarà la volta di “How Great Thou Art”, nel ’72 di “He Touched Me”) resta uno dei classici del genere, assolutamente all’altezza dei grandi maestri neri. Qui alcune delle migliori ballate della sua intera produzione, qui una strepitosa dimostrazione – offerta con la massima naturalezza, quasi distrattamente – di una capacità più unica che rara nel bilanciare energia, controllo della stessa, precisione. E come cantano i Jordanaires! Insomma: non è sempre il diavolo ad avere i ritornelli migliori.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.351, maggio 2014.