Missione compiuta e nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo. Per quanto i concerti del 2012 lo avessero mostrato in buona forma e nelle scalette avesse fatto capolino una manciata di canzoni inedite sufficientemente buone (cioè parecchio) da confondersi con quelle provenienti da due dischi diversamente enormi quali “Brown Sugar” e “Voodoo”. Ma l’idea che dopo quattordici anni di più o meno silenzio l’artefice di quei capolavori – per un verso influentissimi; per un altro facenti categoria a sé nella terra di mezzo fra il soul classico e l’errebì odierno – potesse essere ancora capace anche solo di avvicinarli pareva ormai utopica pure al più devoto dei cultori. E a chi poteva importare di un D’Angelo a mezzo servizio? Triste come quegli sportivi che, dopo essersi ritirati da campioni del mondo, si fanno prendere dalla nostalgia e azzardano improbabili, patetici ritorni. Meglio che tacesse per sempre piuttosto, dopo così tanti anni scanditi dapprima da notizie preoccupanti, che lo davano prematuramente incamminato sui sentieri di autodistruzione percorsi dai suoi buoni e cattivi maestri Sly Stone, Marvin Gaye e Gil Scott-Heron, e quindi da indiscrezioni sempre meno credibili riguardo all’album più atteso e favoleggiato dacché i Kraftwerk intuirono che non avrebbero più raccontato il futuro e se ne fecero paralizzare. “È pronto al 97%”, giurava il sodale Questlove, dei Roots, facendo inarcare sopraccigli, siccome era già il dicembre del 2011 e la favoletta la si era ascoltata la prima volta nel 2002.
Quattordici anni. Cancellati in una notte, quella dello scorso 14 dicembre, quando dopo averlo proposto nella sua intierezza in un esclusivo party tenutosi a New York, il nostro uomo ha deciso d’impulso di fare saltare il piano stabilito per l’uscita di “Black Messiah” – in forma liquida via iTunes e Spotify a partire dal giorno dopo e in CD e vinile (doppio) solo intorno alla metà di gennaio 2015 – e renderlo invece disponibile in ogni formato da subito. Parendogli che parlasse all’America scioccata dai fatti di Ferguson e non si potesse dilazionare ulteriormente. Paradossale: atteso da quando le Torri Gemelle erano ancora in piedi, l’album è stato pubblicato in fretta e furia e nel periodo mediaticamente e commercialmente più infausto, quando tutte le testate (cartacee, ma anche in Rete) hanno già rese note le liste dei dischi dell’anno e nel momento in cui nei negozi si vendono in massima parte raccolte di successi e cofanetti. Nondimeno: numero 5 nella classifica di “Billboard” e quasi centoventimila copie totalizzate negli Stati Uniti nella settimana sotto Natale. Non male, di questi tempi.
Quattordici anni. Cancellati sin da un primo, stupefatto ascolto e dimenticati completamente via via che passaggio si susseguiva a passaggio e cresceva una convinzione: che non siano passati invano. Che se anche si dovesse pazientare altrettanto per avere un seguito ne varrà probabilmente la pena. Non avrai altro Messia (Nero) all’infuori di Michael Eugene Archer, in arte D’Angelo.
Una cosa che per certo ha fatto il nostro eroe in questi quasi tre lustri: ha imparato a suonare la chitarra. Naturalmente da par suo, e cioè come uno che non concepisce la mediocrità, e altrettanto naturalmente facendosene influenzare dal punto di vista compositivo. “Black Messiah” è pieno di chitarre, acustiche come elettriche, ora elegantissime e ora grintose, ed è l’elemento che principalmente lo distanzia dai lontani predecessori, allontanandolo da quella terra di mezzo di cui dicevo dianzi e collocandolo in un solco insieme molto più classico e ancora più peculiare, unico. Appieno in un filone di black tradizionale ma distante da qualsivoglia revival almeno quanto lo è da certa assai presunta (quando poi si tratta di un canone con elementi le cui origini datano comunque decenni) “modernità”. Nelle sue dodici tracce per un totale di cinquantasei minuti, D’Angelo gioca a un altro sport rispetto a chiunque altro e al di là di qualunque referente si possa trovargli: sia il Prince di Kiss traslocato a New Orleans e alle prese con ottoni smargiassi in Sugah Daddy, l’Al Green che traffica con il blues in Till It’s Done (Tutu) oppure con un beat hip hop in Prayer, o ancora il Curtis Mayfield che da Chicago si trasferisce a Philadelphia della sontuosa ballata a suggello Another Life (l’altra ballata monstre del disco, una Really Love zeppa di chitarre spagnoleggianti e archi, Mayfield lo cita direttamente). Laddove nel groove muscolare dell’iniziale Ain’t That Easy e in quello ebbro di fuzz su una micidiale locomotiva ritmica dell’immediatamente successiva 1000 Deaths senti l’Eddie Hazel dei Funkadelic all’acido solforico più che lisergico e The Charade, che è il brano che ha persuaso D’Angelo che l’uscita non potesse aspettare un mese di più, è aggiornamento di “There’s A Riot Goin’ On” al secolo nuovo. Immenso tuttavia, “Black Messiah”, pure quando si rilassa e gigioneggia, nella nostalgica Back To The Future (Part 1), o si fa tenerissimo, in una solare quanto intimistica The Door. O jazzeggia, nella squisita Betray My Heart.
Quattordici anni. E poi è risorto.
Finalmente !
Wow! Se come dici tutto l’album e’ al livello del brano della clip questo e’ un ritorno alla grandissima.
Dopo il ritorno di Cody chestnutt ho sperato che si verificasse anche il secondo miracolo e infatti. Mi faceva rabbia vedere le clip del suo concerto parigino nel 2012 mi pare e vederlo così in forma, così ancora capace di scrivere belle canzoni e suonare come non aveva fatto mai, ma incapace di completare il nuovo disco. Che ora esiste ed è stupendo in tutto fin dalla copertina. Grazie eddy per la bellissima recensione che sta guidando i miei primi ascolti
Assolutamente fantastico, anche meglio dei precedenti… abbiamo un capolavoro fondamentale per la storia della musica futura tutta, non solo del rhythm and blues.
L’ha ribloggato su weeko.