Non c’era nessuna buona ragione per recuperare oggi questa recensione d’epoca del più monumentale (in ogni senso) album pop degli ultimi vent’anni. Ma c’è sempre una buona ragione per recuperare le “69 Love Songs” di Stephin Merritt.
Si vendono sempre meno CD, pare. Nondimeno se ne stampano sempre di più. Da quando il dischetto digitale è divenuto il supporto fonografico più diffuso ogni dodici mesi la produzione si raddoppia o quasi. Esito: un mercato ingestibile per tutti. Multinazionali e indipendenti, distributori, negozi e naturalmente giornali specializzati, critici e semplici appassionati. Una volta, in un tempo che sembra ormai lontanissimo e invece dista da noi un decennio o poco più, un addetto ai lavori coscienzioso poteva ragionevolmente supporre a fine anno di avere trascurato ben poco di davvero rilevante. Forse nulla. Oggi si vive con la certezza che l’enorme massa di prodotti inutili cela capolavori piccoli o grandi che verranno scoperti con mesi o anni di ritardo, se mai verranno scoperti. Tutta questa introduzione per spiegarvi perché “Audio Review” recensisce sul primo numero del 2001 il più bell’album di pop del 2000. Un album che negli Stati Uniti è uscito nel 1999. Ma quanti l’avrebbero sentito dalle nostre parti non ne fosse stata approntata un’edizione europea? Sarebbe rimasto patrimonio di pochissimi. Avremmo continuato a ignorare un Genio quale Stephin Merritt. Non avremmo scoperto – attoniti (ricordando poi in un lampo che la stampa statunitense ha sempre scritto bene di costui: ma di quanti si scrive bene?) – che ha pubblicato (a partire dal ’91) altri cinque CD maggiori a nome Magnetic Fields e altri ancora ne ha dati alle stampe con Future Bible Heroes, Gothic Archies e 6ths. Per tutti gli anni ’90 Stephin Merritt è stato il segreto meglio nascosto del pop mondiale. Non più, dopo quest’opera monumentale il cui ascolto giustifica appieno tutti i superlativi che ne hanno salutato l’uscita, dapprima negli Stati Uniti, quindi in Gran Bretagna. Cosucce tipo: “Uno dei più notevoli album pop mai pubblicati”. Oppure: “Quest’album è toccato dalla mano di Dio”. O ancora: “Merritt è il più grande autore di canzoni della sua generazione”. Tutte affermazioni che mi sento di sottoscrivere e nemmeno mi sembrano abbastanza.
Dichiaratamente gay e dichiaramente fan degli Abba (“il mio gruppo preferito di tutti i tempi”), Stephin Merritt ha una voce che è una via di mezzo fra Johnny Cash e Ian Curtis (ma senza l’esibita disperazione dell’ultimo) e scrive canzoni che lanciano ponti fra i Beach Boys e i Pet Shop Boys, fra Cole Porter e i Byrds, fra Burt Bacharach e i Soft Cell, fra Phil Spector e David Sylvian, che recano in sé tracce del folk revival inglese dei ’60 come del folk-rock psichedelico californiano, della canzonetta francese o del techno-pop di inizio anni ’80. Un Elvis Costello con sulle labbra un radioso sorriso in luogo di un sardonico ghigno. Un Andy Partridge domiciliato a Nashville. Addirittura (ha scritto “Q”) un William Shakespeare (quello dei sonetti amorosi) rinato a New York. Una Big Apple (aggiungo io) in cui il CBGB’s si trova a Broadway.
Proprio come progetto di musical era nato questo “69 Love Songs”. In origine Merritt prevedeva di fare cifra tonda e scrivere cento brani per la bisogna. Ma anche a due minuti cadauno facevano quasi tre ore e mezza; troppo. Ha allora pensato di comporne quaranta, ma gli pareva una cifra anonima. E allora perché non sessantanove? Evidente sottinteso erotico e opportunità di un elegante gioco grafico in copertina. Sessantasette gioielli e due scherzi (Punk Love ed Experimental Music Love). Quando è stata l’ultima volta che avete ascoltato da un autore contemporaneo, di seguito, sessantasette canzoni una più memorabile dell’altra? Le avete mai ascoltate da chiunque in un box non antologico? Lavoro di straordinaria fruibilità (quasi tre ore che passano in un lampo e poi si ricomincia), “69 Love Songs”. E di stupefacente varietà. Alla trotterellante, solare, irresistibile melodia di I Think I Need A New Heart va dietro la triste serenata di The Book Of Love, ai Suicide in vena di romanticismo di Fido, Your Leash Is Too Long l’“acapella” di How Fucking Romantic, al jazzetto sghembo di Love Is Like Jazz gli OMD americanizzati di When My Boy Walks Down The Street, alla filastrocca irlandese di Wi’ Nae Wee Bairn Ye’ll Me Beget l’incontro fra Cocteau Twins e Go-Betweens di Yeah! Oh, Yeah!. Bellissimi pure i testi, che meriterebbero pagine e pagine di esegesi.
“Non innamorarti di me ancora/ci siamo conosciuti solo di recente”, canta Stephin Merritt giusto all’inizio. Impossibile non disobbedirgli.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.209, gennaio 2001.