Archivi del mese: marzo 2015

69 Is The Magic Number – Le canzoni d’amore di Stephin Merritt, in arte Magnetic Fields

Non c’era nessuna buona ragione per recuperare oggi questa recensione d’epoca del più monumentale (in ogni senso) album pop degli ultimi vent’anni. Ma c’è sempre una buona ragione per recuperare le “69 Love Songs” di Stephin Merritt.

The Magnetic Fields - 69 Love Songs

Si vendono sempre meno CD, pare. Nondimeno se ne stampano sempre di più. Da quando il dischetto digitale è divenuto il supporto fonografico più diffuso ogni dodici mesi la produzione si raddoppia o quasi. Esito: un mercato ingestibile per tutti. Multinazionali e indipendenti, distributori, negozi e naturalmente giornali specializzati, critici e semplici appassionati. Una volta, in un tempo che sembra ormai lontanissimo e invece dista da noi un decennio o poco più, un addetto ai lavori coscienzioso poteva ragionevolmente supporre a fine anno di avere trascurato ben poco di davvero rilevante. Forse nulla. Oggi si vive con la certezza che l’enorme massa di prodotti inutili cela capolavori piccoli o grandi che verranno scoperti con mesi o anni di ritardo, se mai verranno scoperti. Tutta questa introduzione per spiegarvi perché “Audio Review” recensisce sul primo numero del 2001 il più bell’album di pop del 2000. Un album che negli Stati Uniti è uscito nel 1999. Ma quanti l’avrebbero sentito dalle nostre parti non ne fosse stata approntata un’edizione europea? Sarebbe rimasto patrimonio di pochissimi. Avremmo continuato a ignorare un Genio quale Stephin Merritt. Non avremmo scoperto – attoniti (ricordando poi in un lampo che la stampa statunitense ha sempre scritto bene di costui: ma di quanti si scrive bene?) – che ha pubblicato (a partire dal ’91) altri cinque CD maggiori a nome Magnetic Fields e altri ancora ne ha dati alle stampe con Future Bible Heroes, Gothic Archies e 6ths. Per tutti gli anni ’90 Stephin Merritt è stato il segreto meglio nascosto del pop mondiale. Non più, dopo quest’opera monumentale il cui ascolto giustifica appieno tutti i superlativi che ne hanno salutato l’uscita, dapprima negli Stati Uniti, quindi in Gran Bretagna. Cosucce tipo: “Uno dei più notevoli album pop mai pubblicati”. Oppure: “Quest’album è toccato dalla mano di Dio”. O ancora: “Merritt è il più grande autore di canzoni della sua generazione”. Tutte affermazioni che mi sento di sottoscrivere e nemmeno mi sembrano abbastanza.

Dichiaratamente gay e dichiaramente fan degli Abba (“il mio gruppo preferito di tutti i tempi”), Stephin Merritt ha una voce che è una via di mezzo fra Johnny Cash e Ian Curtis (ma senza l’esibita disperazione dell’ultimo) e scrive canzoni che lanciano ponti fra i Beach Boys e i Pet Shop Boys, fra Cole Porter e i Byrds, fra Burt Bacharach e i Soft Cell, fra Phil Spector e David Sylvian, che recano in sé tracce del folk revival inglese dei ’60 come del folk-rock psichedelico californiano, della canzonetta francese o del techno-pop di inizio anni ’80. Un Elvis Costello con sulle labbra un radioso sorriso in luogo di un sardonico ghigno. Un Andy Partridge domiciliato a Nashville. Addirittura (ha scritto “Q”) un William Shakespeare (quello dei sonetti amorosi) rinato a New York. Una Big Apple (aggiungo io) in cui il CBGB’s si trova a Broadway.

Proprio come progetto di musical era nato questo “69 Love Songs”. In origine Merritt prevedeva di fare cifra tonda e scrivere cento brani per la bisogna. Ma anche a due minuti cadauno facevano quasi tre ore e mezza; troppo. Ha allora pensato di comporne quaranta, ma gli pareva una cifra anonima. E allora perché non sessantanove? Evidente sottinteso erotico e opportunità di un elegante gioco grafico in copertina. Sessantasette gioielli e due scherzi (Punk Love ed Experimental Music Love). Quando è stata l’ultima volta che avete ascoltato da un autore contemporaneo, di seguito, sessantasette canzoni una più memorabile dell’altra? Le avete mai ascoltate da chiunque in un box non antologico? Lavoro di straordinaria fruibilità (quasi tre ore che passano in un lampo e poi si ricomincia), “69 Love Songs”. E di stupefacente varietà. Alla trotterellante, solare, irresistibile melodia di I Think I Need A New Heart va dietro la triste serenata di The Book Of Love, ai Suicide in vena di romanticismo di Fido, Your Leash Is Too Long l’“acapella” di How Fucking Romantic, al jazzetto sghembo di Love Is Like Jazz gli OMD americanizzati di When My Boy Walks Down The Street, alla filastrocca irlandese di Wi’ Nae Wee Bairn Ye’ll Me Beget l’incontro fra Cocteau Twins e Go-Betweens di Yeah! Oh, Yeah!. Bellissimi pure i testi, che meriterebbero pagine e pagine di esegesi.

Non innamorarti di me ancora/ci siamo conosciuti solo di recente”, canta Stephin Merritt giusto all’inizio. Impossibile non disobbedirgli.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.209, gennaio 2001.

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Bert Jansch prima dei Pentangle

Buona quanto pessima scusa la dipartita pochi giorni fa di John Renbourn per ripescare anche questo articolo in cui provavo a raccontare i primi tre, fenomenali album di Bert Jansch. Già nel secondo John faceva capolino.

Bert Jansch

Discograficamente non lo si può dire un evento. I tre album di cui vi vado a parlare erano disponibili in CD e a procurarveli in digitale spendereste meno oppure otterreste di più. Giacché i primi due sono accorpati su un dischetto, il terzo sta in compagnia di un quarto, il secondo potreste averlo anche a parte e in tal caso vi troverete con la scaletta originale ingrassata. Ma per l’aura mistica che circonda questi lavori è splendida cosa, in particolare per i probabilmente pochi fra quanti mi leggono che non abbisognano di essere istruiti al riguardo, che quelli che nell’arco di pochi mesi, a cavallo fra il ’65 e il ’66, furono i primi tre LP di Bert Jansch – l’omonimo, “It Don’t Bother Me” e “Jack Orion” – siano tornati nei negozi in meravigliose edizioni in pesante vinile vergine, spettacolarmente suonanti e con copertine apribili doviziose di foto e note. Stupendi oggetti oltre che dischi (in special modo il primo e il terzo) immortali e sempre sia lodata allora la benemerita Earmark. Mi verrebbe da esclamare che così e solo così si dovrebbe averli, ma non voglio essere preso per il luddista che non sono e allora affermo: si deve averli, e basta. Al limite scaricateveli da Internet e peggio per voi. Il mezzo è il messaggio, giusto? E poi dico questo agli incliti: Bert Jansch compirà a giorni sessant’anni e c’è da felicitarsi con lui per l’essere sopravvissuto a una vita spericolata ma un po’ tocca anche, cinicamente, crucciarsene. Se come Nick Drake se ne fosse andato dopo tre album, oggi scriverebbero libri su di lui (OK: uno l’hanno scritto), verrebbe citato come un’influenza da solisti e gruppi a legioni, le camerette di ’sto mondo sarebbero occupate ciascuna da un adolescente impegnato a venire a patti con l’esistenza sulle note di Needle Of Death piuttosto che di Pink Moon, di Running From Home invece che di Time Has Told Me. E lo sentenzia uno che per il Bardo di Tanworth ha sempre delirato. Ma in alto i calici per il vecchio Bert, divenuto forse saggio: brindiamo alla sua giovinezza invasata dalla Musa. Rendiamogli grazie.

Nativo di Glasgow, aveva vent’anni quando arrivò a Londra più o meno per starci e già molto aveva vissuto, viaggiando per l’Europa e il Nordafrica, ovunque assorbendo come spugna le musiche locali. Talento innato il suo per la chitarra tant’è che, rubatogli un bello strumento che aveva comprato da adolescente, non ne volle più una sua e a lungo si arrangiò facendosele prestare. Non aveva evidentemente bisogno di esercitarsi. Nei circoli folk della capitale il giovane Jansch suscita subito scalpore per la tecnica sopraffina e per uno stile inaudito che nel mentre si confronta con la tradizione anglo-scoto-irlandese attinge al blues di Big Bill Broonzy come al jazz di Charles Mingus, si inerpica su scale arabe e indiane, azzarda barocchismi. Qualcosa di simile l’ha già fatto Davey Graham ma questo giovanotto sfrontato va oltre e non bastasse si scrive da solo buona parte del repertorio, in un ambito in cui si è soliti attingere al passato. Non proprio un Dylan con le mani di un Segovia o un Segovia con la poesia di un Dylan ma insomma. Tenebroso e belloccio poi, della rude bellezza dei marinai, e non c’è fanciulla che non impazzisca per lui dopo averlo visto armeggiare, svagato, con una sei corde per improvvisamente cavarne prodigi di ambra, piume e sangue. Con la cantante Anne Briggs è però soprattutto mutua ammirazione che si instaura. Lo segnala al produttore Bill Leader ed è a casa di costui, con un registratore portatile e chitarre come sempre prestate, che Jansch registra l’abbacinante debutto. Se proprio dovete avere giusto un suo disco, sia questo. Per la gentile e un po’ favolistica Strolling Down The Highway, per l’avvolgente Smokey River ispirata da Jimmy Giuffre, per la corrusca Rambling’s Going To Be The Death Of Me, per una Alice’s Wonderland che fa scozzese Mingus, per una Angie che inestricabilmente mischia Graham e Cannonball Adderley. Ma soprattutto e persino soltanto per Needle Of Death: la prima canzone contro l’eroina? Per certo uno struggente ricordo di un amico portato via da un ago che, volando su una melodia ineffabile, strappa lacrime come chiodi dalla carne. È un album talmente nuovo che Leader fatica non poco a piazzare il master e alla fine si deve accontentare delle cento sterline che offre la Transatlantic. In cambio di tutti i diritti! L’ultima volta che si avrà un dato preciso sulle copie vendute sarà nel 1975 e a quell’epoca saranno 150.000. Non aggiungo altro.

Per il secondo LP ci si può concedere il lusso di uno studio vero, ma per poche ore. “Ordinai una dozzina di bottiglie di vino, mi piazzai davanti al microfono e non mi fermai più per tre ore”, racconta il nostro uomo al riguardo e non c’è da stupirsi che non ricordi altro. Minore solamente se raffrontato al monumentale debutto, “It Don’t Bother Me” è in ogni caso scrigno in cui si pescano traslucide gemme in abbondanza: la spiraliforme Tinker’s Blues, la dylaniana A Man I’d Rather Be, una As The Day Grows Longer Now di gusto a momenti medioevale, una 900 Miles smaccatamente Old Time. Nella serpentina My Lover e nella scintillante Lucky Thirteen c’è una seconda chitarra ed è quella dell’amico John Renbourn: inizio di un sodalizio che sarà fruttuosissimo. Nel successivo “Jack Orion” Renbourn è in metà scaletta. Capolavoro che Jimmy Page manderà a memoria facendone tesoro per quando i Led Zeppelin (basti Blackwaterside come dimostrazione) spegneranno gli amplificatori, è arazzo nei cui arzigogolati disegni non ci si stanca mai di smarrirsi, nelle mille e una notte di un suono acidulo che sintetizza l’essere acustico di quattro continenti, sogni oppiacei, chauceriani tuffi carpiati. A Jansch e Renbourn sta crescendo un’idea sublime in testa. La chiameranno Pentangle. Ma questa è un’altra storia.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.551, 21 ottobre 2003.

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Un ricordo di Ian Dury, a quindici anni dalla scomparsa

Esattamente quindici anni fa a oggi ci lasciava un uomo che fu persona squisita e artista a tutto tondo. Molto più che “solo” l’autore di una canzone fattasi inno e modo di dire: Sex & Drugs & Rock & Roll.

Ian Dury

La sua ultima intervista importante è del settembre dello scorso anno. Parlando ai microfoni della BBC disse: “Non sono qui per venire ricordato. Sono qui per essere vivo”. Parole che riassumono esemplarmente il sense of humour e il coraggio con i quali Ian Dury ha affrontato “le pietre e i dardi scagliati dall’oltraggiosa fortuna” fin da quando, settenne, la poliomielite lo rese storpio. Il cancro, che già gli aveva sottratto la prima moglie, Betty, e nel 1990 Charley Charles, fidato batterista dei suoi Blockheads, il 27 marzo, dopo cinque anni di assedio, l’ha avuta vinta. Ma fino alla fine (ancora in febbraio aveva cantato al London Palladium) il nostro uomo è stato splendidamente vivo ed è ciò che gli guadagna il diritto di essere ricordato, anche al di là dei meriti di una carriera che aveva toccato l’apogeo una ventina di anni fa. Svanito il successo e diradatesi le uscite, Dury aveva poi vissuto ai margini della scena musicale, facendo l’attore e scrivendo per il teatro. Salvo concedersi un brillante ritorno nel ’98 con un album, “Mr. Love Pants”, uscito quando la malattia, diagnosticatagli tre anni prima, era di pubblico dominio. Le buone recensioni che lo salutarono non erano figlie di simpatia o pietismo. In vista del tramonto, l’artista aveva ritrovato le qualità che lo avevano fatto grande nel mezzogiorno della sua vita, riproponendo al meglio la sua inconfondibile miscela di cabaret, pub-rock e rhythm’n’blues.

Più che di album, Dury è sempre stato tuttavia un autore di singole canzoni capolavoro. Come quella alla quale il suo nome resterà perennemente legato e il cui titolo entrò subito nel lessico musicale: Sex & Drugs & Rock & Roll. Gioiosa, dondolante ipnosi di inno al carpe diem senza nulla a che vedere con le tristi mitologie narcotiche del rock. “Non ho mai avuto né il tempo né l’inclinazione per esplorare il mondo delle droghe. Sempre avuto troppo altro da fare. Non ho nessun atteggiamento moralistico al riguardo ma ho visto quattordici persone che conoscevo negli anni ’60 morire di eroina e io non ho nessuna fretta di andarmene. Mi fumo una canna ogni tanto ed è tutto”, dichiarava a Paul Morley nel 1979, all’indomani della pubblicazione del suo album più fortunato, “Do It Yourself”, reduce da un primo posto nella graduatoria britannica dei 45 giri con Hit Me With Your Rhythm Stick (non in scaletta nel disco) e alla vigilia di un terzo con Reasons To Be Cheerful (Pt.3). I suoi due successi più grandi, ove curiosamente non erano entrati in classifica né Sex & Drugs & Rock & Roll, che fu uno dei classici del ’77 ma non venne inclusa in “New Boots And Panties!!!”, né Sweet Gene Vincent, dolcissimo ricordo dell’autore di Be Bop A Lula viceversa presente in quel 33 giri. Certamente non un album punk ma uno in cui lo spirito di quell’anno indimenticabile si respira appieno. Con la sua grande carica umana Ian Dury, già trentacinquenne allora, si era conquistato l’affetto anche dei più iconoclasti fra quei giovincelli vogliosi di mettere a soqquadro il mondo. Come Johnny Rotten: i Sex Pistols aprirono l’ultimo concerto di Kilburn & The High Roads, il primo gruppo di Dury, e suonarono di spalla anche a Ian Dury & The Blockheads. Come i Clash, che diventarono amicissimi dei Blockheads e fra i bersagli preferiti di memorabili scherzi.

Un giorno costoro si travestirono da poliziotti e irruppero nello studio in cui i Clash stavano registrando. Prima che venissero riconosciuti, Strummer, Simonon e Headon erano scappati dall’ingresso sul retro e Jones si era chiuso in bagno e aveva buttato nella tazza una fortuna in hashish e marijuana. Il mio secondo preferito fra i tanti aneddoti circolati su quest’uomo colto (aveva lasciato l’insegnamento per il rock’n’roll) e gentile. Il migliore? Chaz Jankel e Ian Dury scipparono il giro di basso sul quale si regge Sex & Drugs & Rock &  Roll a un assolo di Charlie Haden in un LP di Ornette Coleman. Un giorno, trovatosi faccia a faccia con il grande jazzista, Dury sentì il bisogno di confessargli il furto. Un imbarazzato Haden gli rivelò che a sua volta aveva rubato il giro a una vecchia canzone cajun.

Disco consigliato: “Juke Box Dury” (Stiff).

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.398, 23 maggio 2000.

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Can’t Keep From Crying (per John Renbourn, 8 agosto 1944-26 marzo 2015)

Bert Jansch, suo contraltare chitarristico in tanti dischi meravigliosi (dei Pentangle, ma non solo), se n’era andato ancora più prematuramente, sessantasettenne, il 5 ottobre del 2011. Oggi ci ha lasciati John Renbourn, uno che come pochi altri – ammodernandolo, contaminandolo, ma con rispetto – ha contribuito a rendere certo folk di nuovo una faccenda viva, non museale. Gli rendo omaggio riprendendo una breve recensione di una ristampa di uno dei suoi album più classici, il secondo.

John Renbourn - Another Monday

Memorabile per il ventiduenne John Renbourn un 1966 che vede il sodalizio con Bert Jansch, inaugurato l’anno prima contribuendo a “It Don’t Bother Me”, rafforzarsi con la partecipazione a quello che è considerato il capolavoro di Jansch, “Jack Orion”, e la firma congiunta in calce al superbo “Bert & John”. Fanno da cornice alle collaborazioni i primi due 33 giri solistici del Nostro, l’omonimo e un po’ acerbo esordio pubblicato in febbraio e questo “Another Monday”, che viene licenziato in dicembre, sempre per i tipi della Transatlantic, e lo sopravanza di tre spanne. Ora rimesso fuori dai soliti noti della Earmark in un’edizione economica che oltre a cavare il massimo dal master d’epoca offre a contorno le approfondite note dell’esperto Colin Harper. Per Renbourn è un album importante non soltanto perché resterà uno dei suoi migliori (fors’anche il migliore in assoluto, benché “Faro Annie” abbia i suoi cultori) ma perché, se l’amico Bert è assente, si affaccia in compenso alla ribalta un altro personaggio che da lì a poco darà il “la”, con lui, all’epopea Pentangle: Jacqui McShee. In duetto in un favoloso Lost Lover Blues dal repertorio di Blind Boy Fuller, in una Can’t Keep From Crying singolarmente esuberante, in una Nobodys Fault But Mine che i Led Zeppelin più che orecchieranno. È folk magnificamente impuro, in costante dialogo con blues e jazz e disposto al raga: una cosa dell’altro mondo, allora e oggi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.247, giugno 2004.

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Alice Coltrane nelle città del jazz

Non è il Riccardone l’animale peggiore nel quale ci si può imbattere aggirandosi nel gran bestiario degli appassionati di musica. No, il peggio del peggio è il Jazzofilo. Quello che ancora stenta a venire a patti con Albert Ayler o con il Miles Davis elettrico. Quello che il bebop è l’ultima rivoluzione che ha metabolizzato, ma ha potuto farlo solo trasformandola nel Verbo dal quale non si deve mai deviare. Quello che aborre qualsiasi contaminazione (come se il jazz non fosse per sua stessa natura meticcio), a meno che non si tratti di fusion della più flaccida e onanista. Quello che se non eri presente a “Umbria Jazz” nel 1973 (lui naturalmente c’era, mica poteva perdersi l’occasione di fischiare Sun Ra) allora non puoi capire. Non hai e non avrai mai la sensibilità giusta. Tu cos’è il jazz non lo sai e lui invece sì.

Il Jazzofilo ha sempre odiato e sempre odierà Alice Coltrane. Io l’ho sempre amata e del Jazzofilo me ne frego. Lo lascio alla sua vita triste e senza swing.

Ptah, The El Daoud

Ptah, The El Daoud (Impulse!, 1970)

Sarebbe anche ora, trent’anni dopo gli eventi, di togliere l’anatema scagliato da tanti jazzofili contro la vedova Coltrane. Certo: non fu una bella idea l’aggiungere piste d’archi da lei arrangiati a nastri del defunto consorte ma, insomma, abbiamo visto e sentito di peggio da allora. E magari non avrà giovato alla sua credibilità lo Stravinsky riorchestrato seguendo, a suo dire, istruzioni giuntele dal caro estinto, ma non dovrebbero, curriculum e musica, contare più di manifestazioni di eccentricità pure spinta? O dovremmo giudicare, per dire, Thelonious Monk per le mattane piuttosto che per la genialità degli spartiti?

Solo beceri pregiudizi maschilisti possono portare a sostenere che la Alice McLeod che nel 1966 entra nel gruppo di John Coltrane (in luogo di McCoy Tyner) un anno dopo avere sposato il leader ottenga il posto per meriti di talamo. Colossali sciocchezze, offensive in primo luogo nei confronti di Coltrane stesso. Al piano Alice, che è pure ottima arpista, ha un tocco eccellente e in precedenza ha suonato con Stan Getz e Yusef Lateef e studiato con Bud Powell, non esattamente dei carneadi. Offre il suo apporto per i pochi mesi che il marito vivrà ancora e intraprenderà poi una carriera solistica di tutto rispetto, dimostrandosi compositrice di vaglia e di grande originalità. Di tale carriera “Ptah, The El Daoud”, tappa intermedia tra il già peculiare esordio di “Monastic Trio” e l’approdo a una metaforica India posta a fianco all’Africa di “Journey In Satchidananda”, rappresenta l’apice. Jazz acceso di suggestioni etniche e intriso di spiritualità, prossimo a certe coeve esplorazioni di Pharoah Sanders. Non a caso fra i protagonisti, con Joe Henderson, Ron Carter e Ben Riley, di “Ptah, The El Daoud”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.215, luglio/agosto 2001.

Universal Consciousness

Universal Consciousness (Impulse!, 1971)

Vero che la splendida confezione, riproduzione in miniatura di un originale del 1971 da troppo irreperibile, non poteva ometterle, ma è quasi un peccato che le note di copertina che al tempo Alice Coltrane vergò siano giunte fino a noi, non sostituite ad esempio da un saggio critico su questa sottovalutatissima musicista. Il loro misticheggiante eloquio (una filosofia di vita non è riassumibile in così succinto spazio) non renderà un buon servizio alla vedova di John, ingenerando in distratti e ultimi arrivati la tendenza a catalogare “Universal Consciousness” all’esecrabile voce “new age”. Sarebbe l’ultimo di una serie di equivoci il cui primo data 1966, l’anno in cui Alice McLeod sostituì McCoy Tyner nel gruppo di John Coltrane, che aveva sposato l’anno prima e che morirà l’anno dopo. Certi jazzofili non gliel’hanno mai perdonata, trasformandola in una sorta di Yoko Ono ante litteram colpevole di ogni nefandezza e in primis, secondo loro, di avere avuto il posto per meriti di talamo. “Non è jazz!”, berciavano sordi e schifati di fronte ad album di clamorosa bellezza quali “Monastic Trio” (1968), “Ptah, The El Daoud” (1970), “Journey In Satchidananda” (1971), lavori in cui un jazz profondamente intriso di spiritualità si trasfigura al contatto con le più varie musiche d’Africa e soprattutto d’Asia.

In “Universal Consciousness” la comunione con l’India raggiunge (in particolare nella rielaborazione del tradizionale Sita Ram) una perfezione che lascia attoniti ed estatici. Ai livorosi di cui sopra non importerà che siano qui all’opera jazzisti coi fiocchi come, per non fare che due nomi, Jack DeJohnette e Rashied Ali. Peggio per loro. Io non so se sia o no jazz e a dire il vero non me ne potrebbe importare di meno: è grande musica e (tanto mi) basta.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.231, gennaio 2003.

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Damoniache presenze: i primi dieci anni dei Blur

Il 27 aprile prossimo i Blur pubblicheranno il loro ottavo album in studio, secondo appena (e primo con Graham Coxon non solo ospite) del secolo nuovo. Per intanto oggi Damon Albarn compie gli anni (quarantasette). Gli faccio gli auguri ripescando la lunga recensione di un classico “Best Of” che riassumeva e suggellava i primi dieci anni di vita del quartetto.

Blur - The Best Of

La faccenda oltremanica ebbe un enorme risalto, e non solo sulla stampa specializzata, dacché i giornali popolari se ne occuparono con il rilievo dedicato usualmente a una finale di Coppa d’Inghilterra, a uno scandalo politico a base di sesso e droga, all’ultima storia di corna da Buckingham Palace: nell’agosto 1995 arrivavano insieme nei negozi i nuovi singoli di Blur e Oasis, Country House e Roll With It. I primi, reduci dallo stellare successo di “Parklife”, erano ritenuti i campioni in carica, i secondi gli sfidanti in vertiginosa ascesa, costellata da dischi di successo e interviste irridenti i rivali. Per un attimo fu come se si fosse tornati ai tempi dei Beatles e dei Rolling Stones. Per un attimo tutto il pop britannico ne beneficiò, danzando la sua vittoria sul corpo del grunge. Il pubblico espresse la sua opinione comprando. Il 20 agosto non ci fu bisogno di ricontare i voti per decretare i vincitori: i Blur debuttavano al numero uno, gli Oasis secondi. Nell’incontro di ritorno tuttavia, album contro album, “(What’s The Story) Morning Glory” infliggeva un cappotto a “The Great Escape” ed era la banda Gallagher ad aggiudicarsi gioco, partita e incontro.

Come se il pop fosse soltanto una faccenda di posizioni di classifica e numero di copie vendute (il “fallimentare” “The Great Escape” ne ha comunque finora totalizzate, annota piccato Damon Albarn, un milione e mezzo) e non di canzoni memorabili che magari – è una tradizione tutta albionica, che parte dai Kinks e per tramite di Madness ed XTC arriva ai Blur – raccontano in tre o quattro minuti un paese e un’epoca più accuratamente di cento trattati sociologici. Di album tanto ben congegnati (gli ultimi quattro di Albarn e soci, ad esempio) che non si potrebbe impunemente togliergli o aggiungergli nulla. Di musica che seduce immediatamente, sì, ma regge analisi approfondite. La verità è che fra Blur e Oasis – nemmeno gli Oasis migliori, non i fantasmi d’oggidì – non c’è mai stata gara. Là due prime donne, una sola delle quali dotata di un qualche talento, in eterna competizione e dei gregari anonimi. Qua un gruppo vero, formato da quattro personalità forti che nondimeno convivono fondendosi armoniosamente in un’identità superiore. Là uno che ha riscritto sempre la stessa canzone. Qui una creatura in perenne crescita e mutamento. Ha dieci anni oggi (sarebbero dodici contando il periodo in cui si chiamava Seymour, ma alle celebrazioni piacciono le cifre tonde) e li può festeggiare con un’antologia che allinea diciassette dei ventitré singoli pubblicati dal ’90. Sarebbe il migliore disco pop del 2000 non avesse sopra un unico brano recante tale data (non fosse uscita una compilazione di quegli altri Fab Four che sapete). Ed è stato abbastanza per decidere – tantopiù che Natale incombe e questo può essere un bel regalo; tantopiù che la prima tiratura include un secondo, eccellente CD registrato dal vivo e quasi non lo fa pagare – che per la prima volta un disco del mese sia una raccolta.

I suoi 77’17” scorrono in ordine non cronologico. Una scelta che potrebbe apparire discutibile si rivela vincente. Articolato come un album vero e proprio, “The Best Of” riesce a far figurare bene, collocandoli in altro contesto, pure i brani più antichi (perché i Blur sono diventati i Blur con “Parklife”; “Leisure” e “Modern Life Is Rubbish” non offrirono che presagi della grandezza a venire). È così possibile rivalutare l’ondulata, orientaleggiante psichedelia di She’s So High, il beat aggiornato ai ’90 di There’s No Other Way, l’inclinazione bolaniana (echi anche di ELO) di For Tomorrow. Il meglio sta però altrove, fra il riff elastico e la melodia lennoniana di Beetlebum e il basso funky, il dilagare di percussioni, la voce cantilenante e il synth anni ’70 che porta a un passo quasi disco dell’ultima e inedita Music Is My Radar. Una conferma che il quartetto di Colchester, se saprà resistere alla tentazione del “rompete le righe” indotta dalle scappatelle solistiche del cantante Damon Albarn e del chitarrista Graham Coxon, potrà restare a lungo immane e donarci altre Song 2 (l’“uh-uh” più incisivo mai udito), The Universal (orchestrazione pastorale e ritornello splendidamente magniloquente), Parklife (i Fall incontrano gli XTC), Tender (i Rolling Stones versione gospel), Girls & Boys (i Kinks techno-pop), Country House (i Kinks, quelli immortali, e basta).

Bigger than the Beatles? Naturalmente no. Ma non distanti. Ne vedete altri in giro attualmente?

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.208, dicembre 2000.

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La musica in 16:9 dei Godspeed You! Black Emperor

L’ultimo di questo mese i Godspeed You! Black Emperor pubblicano il loro quinto album in studio, secondo della vita nuova principiata nel 2012 con “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”. Mi è sembrata una buona scusa per recuperare un articolo che scrissi su di loro quattordici anni fa, quando avevano da poco dato alle stampe il secondo.

Godspeed You! Black Emperor

L’automobile è in fiamme e non c’è nessuno al volante e le fogne sono ingombre di un migliaio di suicidi solitari e uno scuro vento sta soffiando…

Non si canta nei dischi dei Godspeed You! Black Emperor. Il che non vuol dire che non vi si ascoltino voci. Catturate in situazioni senza fine misteriose e messe lì, come l’indicazione del luogo in cui ci si trova nella prima inquadratura di un film. Recitanti. Assorte o talvolta catacombali, come è il caso del virile borbottìo alla Lee Marvin succitato cui tocca introdurre “f#a#oo”, l’album che tre anni or sono fece superare alla fama di questa numerosa e composita compagine i confini della natìa Montreal. Quanto è accaduto dopo va felicemente contro ogni logica dell’odierno mercato discografico: sempre più celebri i Godspeed You! Black Emperor, a dispetto di brani di norma sopra il quarto d’ora (non li sentirete mai alla radio né li vedrete su MTV) e dalle strutture complesse. A dispetto di un’attitudine fieramente incompromissoria, mutuata dall’hardcore (non ce n’è traccia nei loro spartiti, ma Black Flag e Minutemen sono coloro che li hanno ispirati a divenire ciò che sono), che li spinge a una ricerca ossessiva dell’anonimato e li rende un incubo per gli organizzatori di concerti. A dispetto, infine, di un rapporto con la stampa a dir poco problematico: interviste concesse con il contagocce e il muso lungo, fare scontroso, dichiarazioni criptiche. Simpatia non è il loro secondo nome e personalmente sono lieto di non averci mai avuto a che fare de visu o per telefono. Me ne hanno parlato male quanto basta da farmi pensare che non sarei più riuscito, poi, a godermi la loro musica. Che – usualmente intrigante, spesso bella e a tratti bellissima – basta di suo a non renderli dei beniamini per chi è delegato a raccontarla.

Perché con i Godspeed You! Black Emperor quel luogo comune che recita che scrivere di musica è come danzare di architettura si rivela fin troppo azzeccato. Vi rivelerò un trucchetto del mestiere. Quando devo recensire un disco sono uso, dopo alcuni passaggi atti a farmi acquisire familiarità (non sempre c’è il tempo, ma tant’è), sentirlo un’ultima volta prendendo appunti brano per brano. Cose tipo “questa canzone ricorda questo e quest’altra quello”, “ritmo così e così”, “qui c’è un assolo di chitarra, là un arrangiamento d’archi”. Il tutto mentre mi dedico anche ad altro (scrivo o leggo). Impossibile fare ciò con i Godspeed You! Black Emperor. Tanto per cominciare, affinché un loro album si sedimenti nella memoria è necessario un numero di ascolti da altri tempi, da quando uscivano molti meno dischi e li si poteva imparare per bene. Da quando si poteva fermare per un po’ il mondo e scendere. E poi mica ce la si può cavare con un “chitarre alla Byrds” o “enfasi alla Radiohead” o quello che volete voi! Succedono talmente tante cose là dentro che per starci dietro non puoi staccare né un attimo l’attenzione né mai la penna dal foglio. Ne verrebbero fuori poemi poco funzionali alle necessità di una recensione.

Come se per raccontarvi una pellicola di un’ora e mezza qualcuno ne impiegasse due, riportandovi non soltanto la vicenda ma i dialoghi, gli sfondi, i movimenti di macchina, il montaggio. Posto che qualcuno così esista, alla fine ne sapreste tanto da rinunciare a vederlo, quel film. Dove sarebbe finita la poesia? E quanto ne sapreste davvero, senza avere vissuto l’esperienza della visione in prima persona?

Epperò, dovendo dare per scontato che una certa percentuale di lettori non abbia avuto la possibilità di un rapporto diretto con l’Imperatore Nero (ah! il Re Cremisi!), qualcosa devo scrivere per dare una pur vaga idea della musica che suona. Me la cavo così: un crocicchio su cui convergono i Pink Floyd di “Ummagumma” (il disco in studio), i Popol Vuh, l’Ennio Morricone western e l’ultimo John Fahey (via Gastr Del Sol e Cul De Sac). In coda: dei King Crimson americanizzati, i dimenticati e immani Savage Republic (e un po’ tutta quella scena che fra ’80 e ’90 fu battezzata trance), l’Angelo Badalamenti che musicò Twin Peaks e certi Rachel’s (o, facendo un passo indietro, i Rodan). Folk americano in versione progressiva, conscio dell’avanguardia contemporanea e viziosamente propenso allo schizzo di vetriolo quando il sentimento tende all’accorato. Tutto questo, come dicevo poc’anzi, articolato in composizioni molto lunghe. Nove in tutto, distribuite su tre album e quattro CD: tre nel debutto “f#a#oo” (edito in origine dalla Constellation solo su vinile e ristampato su CD dalla Kranky in edizione rimpolpata; 1998), due nel mini “Slow Riot For New Zero Kanada” (sempre Kranky, 1999) e quattro nel doppio “Levez Vos Skinny Fists Comme Antennas To Heaven!” (idem, 2000). Giochi di vuoti e pieni con tendenza all’ascensione dopo partenze lente, autentiche suite come si usava una volta (e – detto fra noi – speriamo non si torni a usare). Costantemente a un passo dalla pretenziosità, si arrestano con stridor di freni un istante prima di precipitare nell’abisso. Almeno per ora, dacché il sospetto che in futuro il miracoloso equilibrio possa spezzarsi è forte.

Mi accorgo di avere dimenticato un importante termine di paragone: i Grateful Dead. Come lo erano costoro, i Godspeed You! Black Emperor sono più una comune che un gruppo convenzionale. Come Garcia e soci, hanno creato un legame forte con i propri fans (ma diversamente da loro non li trattano granché bene). E come il Morto Riconoscente dal vivo, in serata di grazia, possono indurre epifanie. Peccato che tali occasioni siano rare. Recatevi a vederli, quando ne avrete l’opportunità, con questa consapevolezza.

Un’altra cosa non ho detto esplicitamente, anche se confido si sia intuita fra le righe: in ambito rock, la musica dei Godspeed You! Black Emperor è la più cinematografica (modello: documentario sulla Death Valley) che si possa ascoltare oggi. Obbligatorio concentrarsi intensamente. Ogni calo d’attenzione produce l’effetto di un film girato in cinemascope visto su un televisore non in 16:9 ma in 4:3. Non vedi mai il buono, il brutto e il cattivo tutti insieme.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.425, 16 gennaio 2001.

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Il viaggio nel passato di Neil Young: Massey Hall, 1971

Neil Young - Live At Massey Hall 1971

Manco me lo ricordo – saranno passati vent’anni – quando fu che proprio Neil Young iniziò a favoleggiare di un imponente cofanetto – oppure di una serie di cofanetti, le idee non le aveva affatto chiare – in cui avrebbe raccolto demo, inediti, estratti da concerti e concerti interi. Gigantesca antologia alternativa rispetto ai tradizionali “Best Of” per una carriera comunque già lunga allora e che da tempo si è inoltrata nel quinto decennio. Il buon Neil prese a lavorarci e subito fu come la proverbiale tela di Penelope. Faceva, disfaceva, ci ripensava e anzi no: lo pubblicherò, sì, ma solo quando il CD sarà uscito dal suo Medio Evo e avrà acquisito la musicalità che era del vinile (che è poi la ragione per cui buona parte del suo catalogo ha atteso a lunghissimo una stampa digitale). E nel frattempo Bob Dylan metteva in cantiere e quindi varava quei sei o sette volumi della “Bootleg Series”. Nessuno ci credeva più ormai che il Canadese avrebbe concretizzato il Progetto. Non lo ha fatto. Ha fatto qualcosa d’altro e, chissà, forse di meglio cominciando a pubblicare nel 2006 una serie di live. Lungi dal lamentarsi il fan mediamente avvertito ha immediatamente colto le potenzialità della collana, giacché il Nostro da sempre usa il palcoscenico per testare le canzoni appena scritte e brani poi divenuti cavalli di battaglia sono spesso apparsi nelle scalette dei concerti mesi, anni prima di venire incisi in studio. In questo strepitoso doppio, per dire, già ci sono quattro titoli dei dieci che non andranno che l’anno dopo a comporre l’epocale “Harvest”.

Essendo Neil Young… Neil Young le “Performance Series” hanno un loro ordine ma non stanno uscendo in quell’ordine. Nel 2006 ha visto la luce un elettrico in tutti i sensi “Live At The Fillmore East” registrato nel marzo 1970 e nel 2008 “Sugarmountain: Live At Canterbury House 1968”, particolarmente prezioso per come fotografa gli estri e i balbettamenti di una vicenda solistica agli albori, all’immediato indomani della breve stagione di gloria dei Buffalo Springfield. Il mio preferito del lotto è però questo, edito in CD nel 2007 per la solita Reprise e fresco di prima, irreprensibile stampa su doppio vinile per la solita Classic Records che già ci aveva… be’, nel loro caso “regalato” non si può dire… offerto la possibilità di ascoltare nel migliore dei modi un “Greatest Hits” e i recenti “Prairie Wind” e “Living With War”. È uno show acustico in cui in qualche miracoloso modo l’allora giovanotto riesce a essere contemporaneamente al top della rilassatezza e dell’intensità. Memorabile nell’assieme, ma in particolare quando a vestire panni intimisti sono canzoni che siamo abituati ad ascoltare ben più espanse e ultraelettriche: Cowgirl In The Sand, Ohio, Down By The River. Le più belle del mazzo con una pianistica, squisita (e chissà perché puntualmente dimenticata quando si elencano i capolavori di Neil Young) Journey Through The Past.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.299, marzo 2009.

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Bettye LaVette – Worthy (Cherry Red)

Bettye LaVette - Worthy

Chissà se quando si alza la mattina Bettye LaVette è più felice e orgogliosa di avere avuto più vite, artisticamente, del proverbiale gatto o seccata per avere dovuto attendere un’età matura per vedersi acclamare come merita, universalmente annoverata fra le più grandi voci della black contemporanea. Lei che non era che sedicenne, e insomma non aveva l’età per amare, quando il suo singolo d’esordio su Atlantic faceva irruzione nei Top 10 della classifica R&B di “Billboard”. La canzone era My Man – He’s A Loving Man e si era nel 1962. Impiegherà vent’anni a pubblicare il primo LP e ulteriori ventuno a dargli un seguito e non sarà che quando quest’ultimo, “A Woman Like Me”, comincerà a collezionare premi che il suo nome uscirà dalle cerchie carbonare dei collezionisti di rarità soul a 45 giri. Il seguito dovreste conoscerlo, se non altro perché su queste pagine si è regolarmente riferito degli album – quattro; e i primi tre imperdibili – frutto fra il 2005 e il 2012 del rapporto della signora con un’etichetta felicemente fuori dagli schemi quale la Anti. Ammesso e non concesso che l’ultimo della serie, “Thankful N’Thoughtful”, avesse un po’ deluso (non in termini assoluti ma perché, per la prima volta, l’ombra della routine vi si allungava) “Worthy” segna un indubbio ritorno alla forma migliore.

Produzione griffata Joe Henry come già nel 2004 per il capolavoro “I’ve Got My Own Hell To Raise”, il disco parte funky con una Unbelievable sotto la quale non ci si crede che ci sia la firma di Bob Dylan e si congeda blues con una traccia omonima dal catalogo di Mary Gauthier. In mezzo tutte le sfumature del soul e qualcuna del jazz, in nove canzoni che trasfigurano totalmente spartiti che dobbiamo fra gli altri ai Beatles, ai Rolling Stones, ai Savoy Brown, allo stesso Henry.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.360, febbraio 2015.

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Una forma inaudita di rock band: Blood, Sweat & Tears

A furia di fare album orrendi i Blood, Sweat & Tears finirono per non venderne più una copia dopo averne vendute a milioni (quattro nei soli Stati Uniti del solo secondo e omonimo) dei primi. Colpa loro se, dopo che dalle classifiche, sono stati espulsi dalla storia del rock. Anche un’ingiustizia, però, come ci si può rendere conto andandoli a recuperare quei primi album.

Blood, Sweat & Tears - Child Is Father To The Man

Child Is Father To The Man (Columbia, febbraio 1968)

Pochi dischi fotografano un certo spirito, un’attitudine fine anni ’60 come quello che fu l’esordio di un gruppo che nasceva come personale, esclusivo progetto del tastierista Al Kooper e già al secondo, omonimo e vendutissimo album avrebbe fatto a meno proprio del leader: nel bene e nel male, con un miscuglio di ridicolo e sublime qui per fortuna in proporzione di circa uno a venti quando nel seguito della storia si sarebbe alla lunga arrivati all’opposto, venti a uno. Fantastica l’idea di partenza. Sogno di Kooper, che veniva dal Blues Project oltre che dall’epocale collaborazione con il Dylan della svolta elettrica, era dare vita a una forma inaudita di rock band, una in cui gli ottoni avessero la medesima importanza della chitarra. Un complesso capace di infiltrare in un rock dall’anima psichedelica non solo del rhythm’n’blues ma pure del jazz e persino della musica classica, senza dimenticarsi della grande tradizione pop americana. Ambizioni smisurate. Nondimeno “Child Is Father To The Man” se ne dimostrerà in massima parte all’altezza e se non si può proclamarlo un capolavoro senza “se” e senza “ma” è giusto per lo stonato finale di prima facciata, con l’Harry Nilsson fatto brasiliano di Without Her e il Randy Newman di Just One Smile spedito a Broadway. Null’altro da eccepire in un programma che conta dodici brani, a parte l’attacco da music hall di una lettura per il resto di grandissima intensità della Morning Glory di Tim Buckley.

Crema il resto: da una I Love You More Than You’ll Ever Know che non abbiamo purtroppo mai ascoltato da Janis all’errebì aromatizzato lisergico di My Days Are Numbered, da una I Can’t Quit Her kinksiana al felino blues di Somethin’ Goin’ On, dall’apocrifo di Sergente Pepe The Modern Adventures Of Plato, Diogenes And Freud ai Beatles stessi che incontrano i Procol Harum in So Much Love/Underture. Ottima questa stampa Speakers Corner che coglie alla perfezione il calore dell’organo, i colori dei fiati, il finissimo ordito del loro intrecciarsi con una chitarra dal tagliente al liquido e una ritmica bella negra.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.284, novembre 2007.

Blood, Sweat & Tears - Blood, Sweat & Tears

Blood, Sweat & Tears (Columbia, dicembre 1968)

Miles Davis li detestava e se avete le orecchie tanto fini da cogliere, a 5’51” di Bitches Brew il pezzo, una citazione di Spinning Wheel, contenuta in questo LP e altissima nelle classifiche proprio mentre il trombettista registrava il suo capolavoro, be’, sappiatelo, non è un omaggio. Davis li odiava i Blood, Sweat & Tears e l’intero suo primo assolo in quel lunghissimo brano (da 3’54” a 6’20”, per chi ha la curiosità di andarselo a riascoltare) può essere inteso come una parodia di Spinning Wheel. Però dai, diciamocelo, era tutta invidia per musicisti che, avendo molto meno talento, vendevano un’enormità più di lui che pure, proprio con “Bitches Brew”, riprenderà a vendere parecchio. Suoi coinquilini di casa discografica oltretutto e alla Columbia l’irascibile jazzista rimproverava, quando non era poi così, di spendere assai per promuovere loro e poco o nulla per lui. Paradossalmente, proprio i fantastilioni guadagnati dall’etichetta grazie alla compagine newyorkese contribuiranno a pagare lo stipendio al Man With The Horn quando arriveranno i tempi cupi.

Non sarà un’imprescindibile pietra miliare come “Bitches Brew” il doppio album e tuttavia “Blood, Sweat & Tears”, che vedeva la luce nel dicembre ’68, a pochi mesi dal discontinuo ma promettente “Child Is Father To The Man”, resta più che una curiosità d’epoca e pazienza se subito dopo e sempre di più e più in fretta gli artefici sbracheranno. Se metteranno in fila un disco indecente dopo l’altro e alla fine manco più riusciranno a venderli. Qui il “matrimonio di rock e jazz” vantato dall’interno di copertina funziona e non ci si ferma lì: entrano in gioco musica classica, pop, blues, errebì e (un’ombra di) psichedelia. E in qualche miracolosa maniera, come al predecessore non era riuscito che parzialmente, tutto si tiene. Sembra allora normale aprire e chiudere rileggendo Satie e, in mezzo e fra il resto, appropriarsi dei Traffic (Smiling Phases), di Laura Nyro (And When I Die) rifacendola alla Little Feat (che ancora non c’erano), di Billie Holiday (God Bless The Child). Ristampa eccellente questa della Pure Pleasure, incisione sui più elevati standard dell’epoca, capace di rendere al meglio gli scarti dinamici e di illuminare ogni risvolto di una musica variegata come poche altre mai.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.298, febbraio 2009.

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