A furia di fare album orrendi i Blood, Sweat & Tears finirono per non venderne più una copia dopo averne vendute a milioni (quattro nei soli Stati Uniti del solo secondo e omonimo) dei primi. Colpa loro se, dopo che dalle classifiche, sono stati espulsi dalla storia del rock. Anche un’ingiustizia, però, come ci si può rendere conto andandoli a recuperare quei primi album.
Child Is Father To The Man (Columbia, febbraio 1968)
Pochi dischi fotografano un certo spirito, un’attitudine fine anni ’60 come quello che fu l’esordio di un gruppo che nasceva come personale, esclusivo progetto del tastierista Al Kooper e già al secondo, omonimo e vendutissimo album avrebbe fatto a meno proprio del leader: nel bene e nel male, con un miscuglio di ridicolo e sublime qui per fortuna in proporzione di circa uno a venti quando nel seguito della storia si sarebbe alla lunga arrivati all’opposto, venti a uno. Fantastica l’idea di partenza. Sogno di Kooper, che veniva dal Blues Project oltre che dall’epocale collaborazione con il Dylan della svolta elettrica, era dare vita a una forma inaudita di rock band, una in cui gli ottoni avessero la medesima importanza della chitarra. Un complesso capace di infiltrare in un rock dall’anima psichedelica non solo del rhythm’n’blues ma pure del jazz e persino della musica classica, senza dimenticarsi della grande tradizione pop americana. Ambizioni smisurate. Nondimeno “Child Is Father To The Man” se ne dimostrerà in massima parte all’altezza e se non si può proclamarlo un capolavoro senza “se” e senza “ma” è giusto per lo stonato finale di prima facciata, con l’Harry Nilsson fatto brasiliano di Without Her e il Randy Newman di Just One Smile spedito a Broadway. Null’altro da eccepire in un programma che conta dodici brani, a parte l’attacco da music hall di una lettura per il resto di grandissima intensità della Morning Glory di Tim Buckley.
Crema il resto: da una I Love You More Than You’ll Ever Know che non abbiamo purtroppo mai ascoltato da Janis all’errebì aromatizzato lisergico di My Days Are Numbered, da una I Can’t Quit Her kinksiana al felino blues di Somethin’ Goin’ On, dall’apocrifo di Sergente Pepe The Modern Adventures Of Plato, Diogenes And Freud ai Beatles stessi che incontrano i Procol Harum in So Much Love/Underture. Ottima questa stampa Speakers Corner che coglie alla perfezione il calore dell’organo, i colori dei fiati, il finissimo ordito del loro intrecciarsi con una chitarra dal tagliente al liquido e una ritmica bella negra.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.284, novembre 2007.
Blood, Sweat & Tears (Columbia, dicembre 1968)
Miles Davis li detestava e se avete le orecchie tanto fini da cogliere, a 5’51” di Bitches Brew il pezzo, una citazione di Spinning Wheel, contenuta in questo LP e altissima nelle classifiche proprio mentre il trombettista registrava il suo capolavoro, be’, sappiatelo, non è un omaggio. Davis li odiava i Blood, Sweat & Tears e l’intero suo primo assolo in quel lunghissimo brano (da 3’54” a 6’20”, per chi ha la curiosità di andarselo a riascoltare) può essere inteso come una parodia di Spinning Wheel. Però dai, diciamocelo, era tutta invidia per musicisti che, avendo molto meno talento, vendevano un’enormità più di lui che pure, proprio con “Bitches Brew”, riprenderà a vendere parecchio. Suoi coinquilini di casa discografica oltretutto e alla Columbia l’irascibile jazzista rimproverava, quando non era poi così, di spendere assai per promuovere loro e poco o nulla per lui. Paradossalmente, proprio i fantastilioni guadagnati dall’etichetta grazie alla compagine newyorkese contribuiranno a pagare lo stipendio al Man With The Horn quando arriveranno i tempi cupi.
Non sarà un’imprescindibile pietra miliare come “Bitches Brew” il doppio album e tuttavia “Blood, Sweat & Tears”, che vedeva la luce nel dicembre ’68, a pochi mesi dal discontinuo ma promettente “Child Is Father To The Man”, resta più che una curiosità d’epoca e pazienza se subito dopo e sempre di più e più in fretta gli artefici sbracheranno. Se metteranno in fila un disco indecente dopo l’altro e alla fine manco più riusciranno a venderli. Qui il “matrimonio di rock e jazz” vantato dall’interno di copertina funziona e non ci si ferma lì: entrano in gioco musica classica, pop, blues, errebì e (un’ombra di) psichedelia. E in qualche miracolosa maniera, come al predecessore non era riuscito che parzialmente, tutto si tiene. Sembra allora normale aprire e chiudere rileggendo Satie e, in mezzo e fra il resto, appropriarsi dei Traffic (Smiling Phases), di Laura Nyro (And When I Die) rifacendola alla Little Feat (che ancora non c’erano), di Billie Holiday (God Bless The Child). Ristampa eccellente questa della Pure Pleasure, incisione sui più elevati standard dell’epoca, capace di rendere al meglio gli scarti dinamici e di illuminare ogni risvolto di una musica variegata come poche altre mai.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.298, febbraio 2009.